Il Giappone è terra di incredibili realtà.
Sarebbe impensabile in Europa, non solo in Italia, aprire un ristorante per soli 4 coperti.
Da Takazawa accadeva sino al maggio 2012.
Poi, la “svolta”. Le incredibili liste d’attesa, le pressanti richieste dei numerosi clienti abituali lo hanno indotto ad aumentare il numero dei tavoli, sino a giungere al mirabolante numero di 8 coperti, si badi bene non al banco, come accade nei sushi bar, ma seduti al tavolo.
Questa politica economicamente suicida ha un solo movente: la ricerca della perfezione.
Takazawa fa un one man show (invero un aiuto c’è, ma è dietro le quinte): erto sul banco di lavoro, su un lato della sala, cucina a vista e spesso dirige lo sguardo ai suoi ospiti affinchè possa servire ogni portata nei tempi più consoni.
Tutto passa sotto l’attento controllo suo e della gentilissima consorte, regina della minuscola sala.
È una cucina pensata, studiata nei minimi particolari, dalle forme ai colori, dalle consistenze ai sapori.
Le proporzioni dei singoli ingredienti sono millimetriche e incredibile è la profondità di gusto che si riesce a percepire nelle sue preparazioni. Takazawa riesce a far emergere la vera essenza degli ingredienti, con utilizzo minimo di condimenti grassi.
La leggerezza è il minimo comune denominatore.
Non ci sono fronzoli, ciò che viene portato in tavola è strettamente funzionale al risultato finale.
Tale impatto di grande pulizia e raffinatezza si celebra anche nella mise en place, essenziale.
Vedere il maestro all’opera è didattico. In assoluto silenzio, cucina sul suo personale palcoscenico, la pulizia regna sovrana, i movimenti sono misurati, l’odore della brace raggiunge solo lievemente le nostre narici, ci godiamo lo spettacolo ammirati.
Per chi, come noi, è a digiuno di giapponese, la moglie saprà, seppur elementarmente, spiegare i piatti in lingua inglese. Sospiro di sollievo.
Il servizio (ovvero la signora Takazawa) è delicato, gentile e professionale. Al termine della cena, i coniugi vi accompagneranno alla porta e faranno mille inchini finché non avrete girato l’angolo. Ospitalità orientale.
Una serie di portate di grandissimo livello (che gioia gustare la celestiale maionese al tartufo bianco sulle verdure del suo orto) segnano una delle cene memorabili della nostra vita.
La materia prima non potremmo immaginarla migliore.
Quell’anatra era di un’altra galassia, per il manzo di Kobe c’è tempo.
La ratatouille di verdure è l’emblema della classe di Takazawa. Ben 15 tipologie cotte separatamente (e perfettamente), croccanti e saporite, in un sol boccone che al palato regala attimi di puro piacere. Un piccolo mondo vegetale.
Lo zenith non lo abbiamo comunque raggiunto: sui dolci, per inventiva e gusto, seppur tecnicamente ineccepibili, siamo ancora un gradino sotto.
Tokyo è luogo magico per la ristorazione e Takazawa una delle sue perle.
Mise en place.
Mako sashimi style, di bontà inenarrabile.
Frozen pop corn. Esercizio di stile.
Tenpura di funghi “matsutake” e verdura “okura”. Leggera e croccante.
Il signature dish. Ratatouille. 15 verdure, cotte separatamente, poi in terrina. A latere fagiolo nero e sale. Boccon divino.
Terrina di maiale di Okinawa, pan brioche (fantastico) con fagioli di soia. Consistenza simile ad un patè, gusto molto concentrato. La merenda che tutti avremmo voluto da bimbi.
Cappuccino di Ayu (pesce), spuma di cetriolo, formaggio acido, vegetable caviar (semi), fiori di cetriolo e croccante di Ayu. Dosaggio degli ingredienti e tecnica.
Rivisitazione di uno street food diffusissimo in Giappone, il takoyaki, originario di Osaka. Terrina di polpo, alga fritta e maionese.
Il Tiramisù. Un pasticcio di mais e granchio con polvere di cacao e liquirizia. Magnifico.
Harvest from Takazawa farm. L’orto secondo Takazawa. In una granella di pane tostato, sesamo, avena, a mo’ di terra, sono piantati asparagi verdi e bianchi (che buoni!), edamame, patate e rape. Il tutto deve essere colto e condito con…
…la strepitosa maionese al tartufo, contenuta in minuscoli tubetti. La cucina è anche gioco, e qui si gioca alla grande.
Si gode.
Anago (anguilla di acqua salata) affumicata, con tartufo estivo, pepe, cipolla e dragoncello. Ineccepibile per gusto e cottura.
Anago close up.
Candleholder. Un finto portacandela nasconde un’ottima creme brulèe di foie gras, purea di mango e pane croccante alle noci comme il faut completano la portata. Indovinata la spinta acida per un grande classico. Davvero notevole.
Candleholder svelato.
Reds: una portata tutta giocata sui toni rossi. Un pesce, delicatissimo, il bighand thornyhead, cotto con barbabietole, pomodoro, radicchio, coriandolo, e la sua testa arrostita sui carboni, croccante e saporita.
Rice Paddy: anatra, purea di patate, riso soffiato e porri. Carne difficile da descrivere, per bontà e consistenza.
Melon Soda: melone frizzante con gelato alla vaniglia. Preludio al reparto dolce, palato resettato.
Wine Tasting. L’idea è davvero interessante, racchiudere in una gelatina tutti i principali descrittori dei vini bianchi e rossi: papaia, mango, menta, melone, ciliegia, uva passa, ananas, tartufo, caffè, pepe. Al palato, però, alla lunga stanca.
Cookies e cioccolato. Per finire in dolcezza.
La sala, vista sulle scale
Recensione Ristorante
Le Strade di San Francisco. Due detective, tra cui un giovanissimo Michale Douglas, che risolvevano casi a volte inquietanti e sempre e comunque spettacolari sono tra i miei ricordi di gioventù. San Francisco è sempre stato il mio desiderio sin da ragazzino. Tornare in quei luoghi, tra una pallottola e l’immancabile inseguimento in auto, che finiva sempre sulla duna della tormentata e collinosa città. San Francisco non ha deluso affatto le attese.
Che città New York.
Unica.
Ci puoi trovare tutto e il contrario di tutto. Anche in campo ristorativo.
Forti questi yankees.
Liberi dagli schemi, liberi da tutto, anche dall’amato/odiato km 0.
Vuoi mangiare vietnamita? Pronti.
Vuoi mangiare giapponese? Prontissimi.
Do you like italian pizza? Quella buona, Napoli style? Oggi trovi pure quella.
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