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Il Gusto di XinGe

Cronaca gastronomica, di una buona e nuova rinascita fiorentina

Quello in cui ci si proietta, guardando la lunga e caleidoscopica sala rosso mattone caldo del ristorante Il Gusto di XinGe, sembra essere preludio del viaggio che la cuoca riserva per i suoi ospiti. In mandarino dim sum, significa toccare il cuore, andare in profondità. Xin Ge Liu è una cultrice del buono ma anche del bello, e del ragionato. Saranno i suoi studi nel campo della moda, sarà che la città che la ospita, Firenze, è essenza a sua volta di una bellezza di tipo classico, qui va scena lo stil novo culinario di questa intraprendente donna. L’idea è lucida, brillante, proprio come il tavolo laccato su cui ci sediamo. In quella nuance di “blue China” (così chiamata nel gergo dei pantoni) che rimanda alla millenaria tradizione sino-ceramista dove i vasi sono decorati da minuziosi disegni bianchi e blu, appunto, ecco una tonalità vibrante ed elettrica, proprio come il crocevia gastronomico messo a punto da Xin Ge Liu appena fuori dalla matassa cittadina del centro di turisti e musei.

Combinare le verticali pungenze dal Sichuan con la fragrante leggerezza del Guangzhou, ricordando che il campo-base è quello dell’Italia, contribuisce a definire questa insegna come una delle realtà di felice avanguardia, tra le più divertenti non solo per Firenze ma per tutta la Penisola.

Bello il (buon) gusto di Xin Ge Liu

La condivisione sta alla base della cucina proposta da Xin Ge, che offre un percorso di scoperta frutto di incroci e suggestioni. Gli Sheng jian bao, ravioli rotondi arrostiti in padella, sono piccoli scrigni ripieni di sugosa carne di maiale e inedito riccio di mare: invitanti per carnosità e la sfumatura dolce ma persistente del mollusco. Sul segmento dei dim sum, tra accenni e rimandi alle origini di Xin Ge si arriva ai ravioli Petit Voyage, viaggio nella profondità terragna con l’impiego di champignon, tartufo e shitake. In questa pasta ripiena tipica della regione cantonese si affianca il contrappunto pungente della salsa alla senape di matrice francofona ma con innesto orientale. Di fatto, il latte di soia prende il posto della panna amplificando la dimensione ripiena del dim sum. C’è spazio per creare piatti anche da opere letterarie nella Cina di Xin Ge Liu, come nelle Polpette di scampi e mozzarella, servite su una scenografica composizione di foglie e rami. Il piatto si rifà al romanzo de “Il sogno della stanza rossa” di Cao Xueqin, dove i frutti sono succosi e preziosi litchi, simbolo di amicizia e famiglia nella cultura mandarina. Il piatto oltrepassa virtuoso già l’estetica, focalizzandosi sia sulla dimensione lattica della mozzarella sia quella della dolcezza suadente dello scampo. Nella lunga antologia culinaria cinese, un ruolo di prim’ordine lo assume il mondo dei volatili. Xin Ge Liu sa abilmente cimentarsi con l’arcaica preparazione del Pollo Shibari. Otto tipi di spezie e aromi infuse in brodo, portato ad altissima concentrazione in cui immergere il pollo in una articolata marinatura. Il prosieguo della cottura e la sua finitura restituiscono una consistenza unica, dove la vivida tenacità della carne si alterna alla succulenta masticazione schiudendosi ad ogni morso in tutto il suo variatale umamico. Legato secondo l’antica tradizione Quing della zona cinese di Chengdu, rigorosamente da liberare e consumare – riportandoci sempre ad atavico godimento – felicemente con le mani.

Il Gusto di XinGe è un’idea che, come scritto all’inizio, ha fatto della contaminazione il suo tratto, senza perdere di vista o deformarsi dal contesto che la ospita. Chissà se da qui possa essere scritta una pagina nuova di quello che per molto tempo veniva genericamente classificata come cucina fusion. D’altronde un certo Rinascimento partì, secoli fa, proprio da Firenze!

IL PIATTO MIGLIORE: “Dream of Red Chambers”: polpette fritte di scampi e mozzarella.

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Il classico in continuo movimento

All’Enoteca Pinchiorri il termine “classico” si riabilita. Troppo spesso interpretato, erroneamente, come stanco, paludato, immobile, retrò, la definizione dell’aggettivo non dice nulla di tutto ciò. Per “classico” si intende, infatti, una realizzazione materiale o immateriale così degna da elevarsi a modello, pertanto esemplare e fondamentale nel vero senso del termine. Ebbene, in questa definizione non c’è spazio per la stanchezza o l’immobilismo, anzi. Così come la tradizione, è infatti in continuo movimento anche la classicità e ciò è tanto più vero quando si parla di “classico contemporaneo” per descrivere il modello esemplare di Annie Feolde e Giorgio Pinchiorri, che hanno sparso il verbo e l’energia presso tutti i loro collaboratori.

Dalla grande accoglienza curata da Alessandro Tomberli alla splendida e attuale cucina capitanata da Riccardo Monco e Alessandro della Tommasina, tutto quanto racconta la storia di un luogo vivo e pulsante e il menù contemporaneo è il paradigma di ciò che è l’Enoteca Pinchiorri oggi. Un menù ricco, articolato, che si snoda attraverso passaggi pensati e coniugati rimanendo sempre fedeli al mandato del proprio nome. Qui siamo in una enoteca, anzi siamo nell’Enoteca, maiuscolo, per eccellenza. Un luogo che non ha eguali al mondo, in cui si celebra da sempre il rito della degustazione e, pertanto, le pietanze sono pensate in funzione di questo e in modo da far godere gli avventori, consentendo loro di degustare vini unici, spesso introvabili altrove. Ma ciò, si badi bene, non impedisce affatto alla cucina di imprimere eleganza, personalità, freschezza, concentrazione, gusto e, non ultimo, modernità e attualità. Un percorso che gioca a rincorrere tecnica, impronta personale e sapori italiani attraverso la trasposizione contemporanea, sia negli impiattamenti che negli ingredienti e nelle loro proporzioni.

Cucina-vino: un binomio imprescindibile

Il risultato? Una cucina leggera, gustosa, raffinata e perfettamente abbinabile al compendio enologico ottenuta imprimendo anche grande personalità e intensità al gusto. Un altro aspetto davvero interessante di questa cucina è, poi, l’irriverenza nel trattare l’elemento apparentemente principale del piatto come comprimario, elevando incredibilmente i presunti comprimari a protagonisti assoluti. Come dimostra la zuppetta di mandorle e olive celline, carciofi al bergamotto e astice al ginepro, esempio paradigmatico e significativo di questo concetto, e infatti non è un caso che l’astice sia nominato, volutamente, alla fine, mentre la prima parte è dedicata alla zuppetta di mandorle di Noto, fornite direttamente dal maestro Corrado Assenza.

Interessanti, tecnici e profondi, poi, i ravioli di scarola e mascarpone arrostiti e non bolliti, bottarga di muggine e spuma di aringa. Piatto che possiamo prendere da esempio, come il precedente, per il perfetto equilibrio tra sapidità e intensità gustative. L’equilibrio è, del resto, l’altro termine ricorrente di questa cucina, che ci stupisce spesso anche per il modo di trovarlo, questo equilibrio, considerando il livello di rischio e di difficoltà cui ogni piatto si sottopone.

Infine, nota ulteriormente di merito ma evidente solo il giorno successivo, la leggerezza. Leggera la digestione, leggero il percorso, leggero il pensiero. 

All’Enoteca però, come abbiamo detto in premessa, la componente enoica e, conseguentemente, quella del servizio, riveste una importanza pressoché paritetica, se non a tratti finanche superiore, alla cucina. E il merito del direttore di sala Alessandro Tomberli è precisamente quello di rispondere agli stimoli dei due chef con una gestione egregia di sala e cantina che brillano della sua innata classe, ma senza altezzosità. No, qui vi sentirete cullati, coccolati e accuditi con discreta ma profonda eleganza.

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L’estetica di Karime Lopez

Una presa di posizione capillare sulle cose del mondo edibile. Così ci appare l’estetica formale dei piatti di Karime Lopez da Gucci Osteria, che spesso è tanta e tale da irrompere, fino anche a travolgerla, la parte sostanziale. Ma a ben vedere si tratta di una seduzione, quella estetica, non solo legittima ma anche sacrosanta considerando che siamo seduti precisamente nella sala attigua alla boutique, dalle cui vetrate si vedono “sfilare” i clienti intenti a saggiare l’ultima stagione di Alessandro Michele, stilista e direttore creativo di Gucci, coi suoi esotismi e le atmosfere, spesso e volentieri, anche naïf.

Optiamo quindi per il menù “Capitolo Rinascimento“, con un intruso dalla carta, il risotto Vongo-La, di cui ci intriga la presenza della scapece e che consideriamo – vedremo poi a ragione – la prova del nove di ogni cuoco che si rispetti. A proposito della carta, stride invero le giustapposizione di proposte come “salumi“, “selezione di formaggi” e “tortellini in crema di Parmigiano Reggiano” (chiaramente un compromesso con Firenze e l’ubicazione del ristorante, in Piazza della Signoria) con piatti come “La nascita di Venere“, “Arriva il Sole” e così via.

Ciò precisato, tuttavia, il menù di Karime Lopez volta alto e vola, soprattutto, leggero: bambinesco nelle scelte cromatiche è preciso nella concezione, nitida, e molto efficace da un punto di vista eidetico. Curcumis melo è un’estrazione freschissima di verdure di stagione, sormontante da un nido, che è quasi un nodo, di gamberi rossi di Mazara: il brodo, che nella sua semplicità serba tutte le virtù corroboranti del consommé, è un gazpacho verde molto limpido nonché un ottimo inizio, anche da solo, dopo la carrellata di appetizer che sono essi stessi un gioco tra forma e sostanza, visto che ciascun involucro, un bombolone, un’oliva, e così via, trattiene ripieni concentrati di italianità, come la caponata.

Meno felice, almeno il giorno della nostra visita, la Tostada di mais viola, piatto poco o nulla contrastato, certo funzionale per calmierare la fame. Accademico, anzi antologico, invece, il succitato risotto Vongo-la. Precisissimo per cottura, temperatura e mantecatura, la progressione del sapore è sorprendentemente à rebours: dapprima incalzano vivaci le note assai saporite e agrumate della scapece che, a poco a poco, sfumano in un acquerello delicatissimo, deliziosamente bon ton. Su tutt’altro registro, invece, In Fondo al mare, un piatto che, crediamo, piacerebbe moltissimo al maestro di Karime, nonché nostro ideale anfitrione, Massimo Bottura. Qui i calamari sono smaterializzati ma iperconcentrati in una sorta di fondo di cottura che avviluppa i ditalini, rinfrescati nel morso, randomico, di verdurine di stagione sferificate semplicemente dal taglio. Un gioco, vero, ma anche un virtuosismo che parla moltissimo della linea scelta da Gucci Osteria.

Meno ispirato Gadus, Gadus, Gadus, un merluzzo alla mugnaia con asparagi bianchi, anche in osmosi, la cui virginale rotondità e delicatezza finisce per soccombere, soprattutto dopo i ditalini. Piuttosto semplice, benché molto evocativo negli aromi, infine, il dolce Sfiorivano le viole.

Grazia e bellezza, comunque, la fanno da padroni. E Rinascimento sia!

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L’osteria 2.0 di Matteo Fantini

Situata Oltrarno, in Borgo San Frediano, a pochi metri dall’omonima porta a opera di Andrea Pisano, iO – Osteria Personale è un locale che fa del proprio nome una dichiarazione d’intenti: “osteria” perché propone piatti che guardano alla tradizione italiana e toscana letta in maniera “personale”.

Alla base del concept c’è Matteo Fantini, patron a 360° del locale, nonché ideatore di menù eseguiti di volta in volta da cuochi diversi (“gli chef vanno e vengono; solo io sono fisso”, ci spiegherà a fine cena). Fantini non nasce ristoratore ma vi si voca dieci anni orsono, investendo le proprie energie nello sviluppo di un’idea che rispecchiasse al meglio aspirazioni e propensioni. Su tutte, imprimere un’identità chiara e riconoscibile alla sua creatura, costruendo un menù con al centro sottili giochi tra acido e amaro, e la presenza costante della componente vegetale: una scelta che, nelle proposte più riuscite, ci ha regalato alcune emozioni.

Un sottile gioco di equilibri tra acido e amaro

In una bella sala moderna, dagli arredi minimal e dalle luci calde e soffuse ad aprire le danze i Calamari grigliati, crema di patate e limoni, capperi fritti e pesto di rucola, animati dal bel contrasto tra l’amaricante della cottura alla griglia e del pesto alla rucola in opposizione all’acidità del limone e alla sapidità del cappero. Un piatto pensato bene ed eseguito meglio.

Salsiccia speziata, radicchio arrosto, spuma di stracchino e tamarindo prosegue sul contrasto gustativo della portata precedente, aggiungendo all’insieme una connotazione speziata davvero notevole a livello olfattivo. Piccolo appunto, la cottura della carne: da rendere omogenea su tutta la superficie. La terza tappa, Gnocchi di patate croccante, cime di rapa, gorgonzola e rafano è stato il piatto più convincente della serata: intrigante per consistenza, lo gnocco è croccante all’esterno e soffice all’interno e colpisce per la centralità della componente vegetale seguita da una duplice lunghezza, quella dell’erborinato e del rafano. Da ricalibrare a livello esecutivo il Vitello tonnato croccante, interessante a livello ideale ha però sofferto di una salsa tonnata non incisiva né come texture né al gusto. 

In chiusura, da segnalare la Spuma di cocco, sorbetto di lime, meringa di cardamomo e burro di arachidi, bilanciata come meglio non si poteva tra la dolcezza della spuma e la freschezza speziata del cardamomo.

Nel complesso l’esperienza da Matteo Fantini si è rivelata di buon livello e, con piccoli aggiustamenti tecnici, siamo certi saprà regalare molte soddisfazioni.

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Vecchia osteria o ristorante di lusso? Nessuno dei due: entrambi!

È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi.” Forse scomodare Antoine de Saint-Exupéry potrebbe risultare eccessivo, ma quando si varca la porta d’ingresso di Essenziale non si può fare a meno di pensare all’arcinoto segreto della volpe svelato al piccolo principe. Ed in un certo senso, la speranza – con la dovuta leggerezza del caso – e l’attesa sono quelle di ritrovare l’essenza di un’idea di cucina nel piatto e di goderne prima con la vista e poi con il palato, magari anche con il cuore. Essenziale è Simone Cipriani, talentuoso chef che, sull’Oltrarno fiorentino, nel cuore di Borgo San Frediano, ha aperto qualche anno addietro il suo ristorante con l’idea di portare aria nuova in città con un’esperienza culinaria diversa e originale. Il corridoio d’ingresso porta in una grande sala profonda, con soffitti alti in legno, tavoli e sedie geometricamente sistemati sul lato destro e un bancone lungo e alto, con sgabelli sulla sinistra. Sullo sfondo la cucina, sopraelevata, a sormontare, e dominare, lo spazio antistante. Luci bianche e quadri alle pareti ritagliano lo spazio dedicato alle lavagne che riportano i piatti del giorno, scritti a mano e “pensati” giornalmente a seconda di quello che il mercato offre. L’atmosfera in sala è leggera e informale, il servizio peculiare con una persona in sala a prendersi cura dei clienti e i piatti il più delle volte serviti e raccontati direttamente dai cuochi. 

Un gioco di rimandi alla tradizione e divagazioni creative

Due i menu in carta: “Mercato” per le scelte consapevoli e “Buio” per un percorso di degustazione creativo, realizzato a sorpresa. In definitiva, si tratta di una proposta fresca, moderna e divertente, mai scontata, con qualche incursione fuori confine dal Giappone al Sudamerica… A partire dagli Edamame all’amatriciana con pecorino, da mangiare rigorosamente con le mani, così come il goloso (un po’ troppo unto) Taco di mais con lattuga fresca, maionese al wasabi e moeca fritta accompagnato da un gustoso brodo di crostacei e cicale di mare aromatizzato al cocco. Interessante e complessa risulta la Zucca con senape in grani e pesto di noci sormontata da un’aria di lievito: un esercizio (più) tecnico degno di nota, con la cottura nel brodo di lievito e la grigliatura a dare consistenza. L’anima fiorentina arriva con il tipico Gnudo di ricotta e cavolo nero con yuzu e brodo di ribollita, sintesi ben riuscita di dolcezza, acidità e sapidità. Bello è l’aggettivo più immediato per descrivere il Risotto burro, aceto e gambero rosso, quest’ultimo vero protagonista del piatto esaltato dalla sua salsa cotta a bassa temperatura. Le Tagliatelle con ragù di fegatini, salvia dry e limone fresco hanno carattere, ben gestito senza il rischio di annoiarsi o di appiattirsi su un sapore dominante come può essere quello dei fegatini. Lunga cottura e punte d’oriente di sakè e soia caratterizzano l’Anatra confit con tamarindo e finocchietto, per un piatto che ha giusti equilibri gustativi e consistenze. Il passaggio al dessert è scandito da un’originale Indivia con caffè e parmigiano a dimostrazione di una cucina elegante e che sa osare quando è il caso. I dolci non tradiscono in questo senso, e se il Tiramisù classico con topinambur croccante sembra rimanere con il colpo in canna, la bomba è senza dubbio il Gelato alla patatina – sì, proprio quella fritta che non t’aspetti! – con salsa alle mele, rosmarino, caramello salato, chips di mele e patatine: goloso, golosissimo!

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