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Fenicottero Rosa

La villa neoclassica trasformata in relais di lusso

La ristorazione di alta qualità oggigiorno non può prescindere dal mecenatismo di famiglie e gruppi economici di grande solidità. Le grandi catene alberghiere internazionali sono sicuramente le prime realtà che contribuiscono a sostenere questo incredibile settore, ma una peculiarità per lo più italiana riguarda invece un gruppo di famiglie storiche, impegnate nell’imprenditoria d’avanguardia, che poi per passione e per amore per il bello e per l’accoglienza sostengono realtà che consentono a più o meno giovani talenti di esprimersi e crescere. Questo è il caso della famiglia Bucci, presente e leader da generazioni nell’industria tecnologica mondiale, che ha base a Faenza. Il padre degli attuali eredi Bucci, Massimo e Stefano, negli anni ’50 ristrutturò l’antica villa neoclassica Abbondanzi che i due fratelli integrarono e completarono nel 2004 con la sistemazione degli annessi edifici agricoli e del vasto terreno circostante, costruendo e ultimando un relais di campagna di grande qualità e fascino. Il parco è anche abitato da un gruppo folto di fenicotteri, da cui il nome del ristorante gourmet dell’albergo – il Fenicottero Rosa – dove Martina Bucci, attuale direttrice della struttura e figlia di Massimo, dirige un luogo di grande fascino con camere, suites, piscine e spa, oltre a un parco secolare immenso, e molto suggestivo.

Una cucina di impronta elegantemente pariniana

La ristorazione ha un ruolo fondamentale per la struttura, lo testimoniano i due ristoranti presenti, il Cinque Cucchiai per una ristorazione più tradizionale e informale, seppure di elevata qualità, e il ristorante gourmet il Fenicottero Rosa. L’executive Chef del relais e lo Chef del ristorante gourmet è Alessandro Giraldi, giovane cuoco (34enne) con esperienze al Noma di Copenhagen e una lunga permanenza alla Trattoria del Nuovo macello di Milano. Giovane e a capo di una brigata di giovanissimi, dinamici e motivati cuochi. Che splendida sorpresa questo ristorante e la sua cucina, che ci ha davvero conquistato con la sua eleganza e la sua personalità.

Il cuoco Giraldi ha una impronta che definiremmo pariniana, aggettivo coniato per significare che l’uso di contrappunti, principalmente erbe e spezie ma non solo, sono molto affini alla stilistica di Pier Giorgio Parini. Con una grande personalità il cuoco ci ha intrigato con piatti come Sogliola, zucchine, arachidi e caffè di cicoria o come l’equilibrato seppur contrastato Spaghettino freddo, ostrica, crescione e caviale così come lo splendido Cervo, pesca, fagiolini e rosa. Una cucina con un uso delle sapidità leggere, che danno grande spazio ai sapori e agli allunghi naturali, che rende il tutto davvero molto elegante.

Unico appunto alla cucina sui dolci, decisamente sottotono rispetto alla componente salata, seppure di livello. Il servizio, attento, giovane e molto presente ed entusiasta, va leggermente rimodulato sull’uso della posateria, a tratti non adeguata ai piatti presentati. Dettagli, sia in cucina che in sala, che se ben sistemati potranno elevare ulteriormente la già ottima valutazione espressa.

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Come a casa. Molto meglio che a casa, in questa calda insegna faentina

Sospesa. Inamovibile nel tempo quanto nello spazio, complice il moto ondivago indotto dal fascinoso pavimento irregolare, è la dimensione dell’attentissima Daniela Pompili in sala e di Remo Camurani in cucina. Una dimensione che vuol esser domestica, molto meglio che domestica, appunto, e che comunque vien dichiarata già nella scelta di spezzare il cognome del cuoco, che poi è anche l’oste e, così facendo, farne una casa o, meglio una Ca’ Murani.

Sembra di sprofondarci dentro, in questa dimensione pregna di senso, e di calore, complice il camino acceso e le calde luci sui tavoli e sugli avventori. Anche la colonna sonora, anch’essa asincrona dato che si tratta di un repertorio di singoli anni ’40 e ’50, proietta la scena in un passato ideale così come fa la cucina, che è soprattuto una cucina di ingrediente e di sostanza, di una semplicità disarmante quasi monastica. Ma è una semplicità solo apparente, perché ci vuole perizia a selezionare questo Crudo di Mora Romagnola, da maiale ultra-pesante, di oltre 60 mesi di stagionatura e il lonzino di maiale affumicato, delicatissimo, appena umettato d’olio extravergine di Brisighella e del pepe appena pestato sul mortaio, all’uopo.

La mano, e il palato, di un grande interprete della tradizione romagnola

Quanto alle portate, il sipario si leva su un libidinoso uovo di oca, asparagi selvatici, ritagli di gambuccio e tartufo nero, un  piatto da scarpetta, tutto da godere col rustico, fragrante pane di Remo; così come l’ottima minestra di ceci e ritagli di tagliatelle. Si prosegue con la polpa coriacea di un coniglio selvatico in tegame alle olive nere, da mangiare con le mani, e spinaci carnosi e croccanti all’inverosimile, serviti assieme a un assaggio, indimenticabile nei suoi accenti nocciolati e dolci, del suo fegato col tartufo nero.

Non da meno i dolci: né il morbido di cioccolato né il crème caramel, spugnoso e compatto com’era una volta. Ottima anche la selezione sui vini, anch’essa iper-territoriale, e culminata con l’assaggio di un Alkermes ambrato potentissimo e deflagrante, edizione limitata 2019 di Baldo Baldinini.

Perché parte del segreto, e del successo, di questa tavola risiede proprio nel palato di chi la cucina: il palato fine del cuoco che, nel corso degli anni, ha scritto le pagine della migliore Romagna, tanto a tavola quanto nel bicchiere.

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Ai confini della Romagna

La trattoria Ca’ Murani si trova al confine Nord della Romagna, nel piacevole centro storico di Faenza, a pochi metri da Piazza del Popolo, antico cuore politico e commerciale della città. Il legame ancestrale del cuoco–patron Remo Camurani con la sua terra lo si evince sin dal “gioco” tra il suo cognome e il nome del ristorante: con il termine Ca’, infatti, si indica casa in dialetto romagnolo. Il sito, un granaio molto suggestivo di un palazzo signorile del 1800, è delizioso e molto curato, fin dall’esterno dove una coltre di edera cinge l’ingresso e un tavolino e due sedie impagliate fanno molto dolce vita in salsa romagnola. L’interno è caldo e accogliente, arredato con cura, illuminato con attenzione; il pavimento in cotto, i tavoli di legno, la madia con i segni del tempo con sopra i pani, i vecchi armadi, la bilancia Berkel e il suggestivo camino sul fondo della sala abbracciano idealmente il cliente facendolo sentire fin da subito in una casa romagnola. Da menzione, a sublimare questa sensazione di piacevole accoglienza, la diffusione in sottofondo della note di musica jazz al volume adeguato.

Tradizione e leggerezza

La cucina di Remo Camurani fa il resto; la definiremmo di tradizione intelligente, con particolare attenzione alla stagionalità non solo nella scelta delle materie prime, ma anche nel tenere conto della peculiarità della stagione, nel nostro caso estiva, alleggerendo le preparazioni e offrendole all’adeguata temperatura di servizio. Una cucina solida e legata al territorio, con una mano soave e quasi femminile, in cui si lascia particolarmente apprezzare, come una sorta di fil rouge che lega tutti i piatti che abbiamo assaggiato, la riduzione al minimo necessario della componente salina e il ricorso sussidiario a profumate e saporite erbe spontanee e aromi.

Che qui si faccia sul serio, lo si intuisce già dal cesto dei pani, tutti fatti in casa, fra cui spicca una ghiotta focaccia al sale e rosmarino sfornata prima di ogni servizio. Apprezziamo da subito la mano dello chef con il benvenuto della cucina (non sempre in locali di tradizione si viene coccolati così): se l’annuncio di una Pasta e fagioli ci aveva spiazzati, l’assaggio ci ha lasciati a bocca aperta. Salvia, rosmarino, salsiccia triturata e legume al dente, un giro d’olio di Brisighella a dare amarezza, tamperatura della zuppa quasi tiepida, da scarpetta! Due gli antipasti: un Lonzino al fumo d’olivo – affumicato nel camino del ristorante – di cui abbiamo apprezzato la qualità della materia prima e i pervasivi profumi di legno oltre alla leggerezza della preparazione; una Frittata di fiori di zucca e zucchine con mozzarella di bufala, soffice nonostante l’esiguo spessore, profumata e dalla piacevole crosticina. Le golose e appaganti Tagliatelle al ragù, con marcata e gradevole presenza del rosmarino, si presentavano ricche di salsa di pomodoro, con la salsiccia e il manzo tagliati al coltello, la pasta tirata al mattarello, giustamente nodosa e gialla. La Tagliata di lombo di maiale con bruciatini di aglio e rosmarino ha forse risentito di un leggero eccesso di cottura che l’ha resa lievemente asciutta; piatto del ricordo le Zucchine ripiene fritte con polpette ripassate al sugo (su richiesta ci hanno servito la mezza porzione) che si denotano per gusto e, anche in questo caso, per leggerezza. Abbiamo chiuso le danze con una deliziosa Crema (in realtà un flan) con salsa all’irish coffee, perfettamente eseguita.

Il servizio, affidato a Daniela Pompili, è stato caldo, accogliente, prodigo di spiegazioni sui piatti e sulla storia del locale: quello che ci si aspetta da una casa di Romagna. Peccato per la carta dei vini: scelte limitate a poche proposte senza una ricerca particolare, che il ristorante invece meriterebbe.

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Nel 2011 a Faenza si realizza il grande sogno di Davide Fiorentini, da sempre attivo nel mondo della pasticceria: nasce ‘O Fiore Mio, pizzeria gourmet a cui si affianca la versione Pizze di Strada a Bologna.

Quattro tipologie di olio extravergine d’oliva: il territoriale di Brisighella; il caratteriale di Pescara; l’equilibrato perugino e, infine, il profumato molisano. 

Tre le tipologie di impasti: il classico di grano tenero, l’idrolisi con segale, farro e semi misti e il delizioso Mazì da un insieme di due mila varietà di grani provenienti da tutto il mondo riuniti nella coltivazione sperimentale di Paolo Mariani. Una sola lievitazione: con lievito madre ottenuto da “una pera ubriaca, una pesca d’ottobre e cinque giuggiole dell’amico Domenico Ghetti”. Così recita il menu, che propone in tutto 14 pizze gourmet e 7 classiche, cui fa da contraltare una invero contenuta proposta di birre (peccato!) e un più interessante repertorio di vini.

Davide Fiorentini ha un suo personale modo di concepire la pizza, e poco importa che la contemporaneità ci abbia già abituati ad alveolature vitruviane, lievitazioni ancestrali nonché alla cabalistica ripartizione del cerchio in otto spicchi: questa ha, in effetti, qualcosa in più. Non si tratta solo della materia prima – anche se è difficile resistere al richiamo di pomodori così carnosi – ma di un gusto definito, puro, senza sapidità eccessive e, quel che più conta, senza inutili piaggerie. 

Eccellente, per dire, l’impasto Mazì della Pizza alla Romana con la polposa vaporosità di un pomodoro che la cottura ancestrale, in forno a legna, fa sembrare caldo di sole. Buone le alici del Mar Cantabrico anche se, a queste latitudini, saremmo più vicini a Comacchio. Buona, ma nulla di più, la Mozzarella di Bufala campana. Menzione a parte, invece, merita il Prosciutto di Parma 24 mesi di cui i bei cristalli di tirosina restituiscono la dimensione autenticamente artigianale. Ottimo l’olio extravergine d’oliva, provvidenziale a smorzare – col suo amaro balsamico – le grazie dolci e acide del pomodoro e quelle croccanti e tostate dell’impasto. A proposito di olio, sia messo agli atti che, nella partita della Pizza alla Romana, Brisighella ha vinto, benché di poco, su Perugia.

Più complesso, invece, l’approccio alla Pizza Via Emilia, fatta con l’impasto a idrolisi, erbe di campo, scalogno di Romagna, ricotta, gambuccio di prosciutto e Parmigiano Reggiano di Montagna 36 mesi. Benché digeribilissima e, nel complesso, sicuramente piacevole, ci tocca di sottolinearne un limite: l’eccesso di zelo negli ingredienti della farcia, affatto dialoganti ma solo giustapposti tra loro.

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A Faenza un locale che sarebbe stato bene a Milano

Fabrizio Mantovani è come il locale che si è vestito addosso. Aperto, disponibile, completo. Un luogo, tra i locali dell’Hotel Vittoria di Faenza, che è un po’ bar, un po’ luogo di aperitivo, un po’ bistrot e un po’ ristorante gastronomico. Ha molte anime l’FM di Fabrizio Mantovani, ma tutte dignitose e con contenuto. È aperto dalla mattina alla sera inoltrata e qui si può mangiare, spiluccare, degustare ed essere allietati da una cucina molto confortante, con qualche guizzo interessante e finanche stimolante.

Complessità, dovizia e grande personalità

Noi abbiamo scelto il percorso più completo, ci siamo totalmente affidati allo chef e alla sua giovane brigata. Perché Fabrizio non sta fermo un attimo. Tra consulenze, iniziative, attività diverse è un uomo sempre in movimento. Ma che sa anche creare e forgiare i cuochi di domani, donando consigli, stimolando e motivando i suoi collaboratori. Ecco quindi un percorso variegato, che ritrovate qui sotto, in cui la nota comune che abbiamo trovato è riferibile a una complessità e opulenza che forse a tratti risulta anche eccessiva. Con l’uso smodato di latticini, seppur buoni, che caricano forse un filo il percorso. Strabordanti e ridondanti alcuni piatti che, tuttavia, trasudano golosità e sapore. Forse andrebbe usata qualche punta di sale in meno in alcuni passaggi. Ma sono dettagli di fronte a una serie e carrellata di piatti dove lo Sgombro con cetriolo, asparagi, salsa al prezzemolo e capra è stato certamente, anche per la cottura non cottura del pesce, il piatto della serata.

Buoni i Cappelletti al brodo di carciofi. così come sono interessanti gli Spaghetti Rimini-Bangkok, con coriandolo e poverazze (termine locale per indicare le vongole), forse solo penalizzati da un lieve eccesso di cottura. Bella l’idea di associare più piatti di portata, in variazione o in alternanza, per ogni servizio, aggiungendo enfasi e arricchendo il palato con contrasti molto spesso centrati, alle volte meno.

Una cucina, dunque, di grande personalità, di istinto marcato, di piacevole goduria palatale. A che prezzi poi, da far invidia a molti. Consigliamo sicuramente la visita in questo luogo intrigante, a Faenza, dove le ceramiche, ma non solo, la fanno da padrone.

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