Enrico Bartolini non è uno chef mediatico, ma la capacità e il carisma che emergono nei professionisti da lui sono selezionati fanno di questo cuoco uno dei mentori che tutto il mondo continua a invidiarci. Nel mandato di talent-scouting per i suoi ristoranti la ricerca di brillanti astri della cucina è preceduta dal successo dei risultati stellati. La perspicacia di Bartolini ne ha fatto scoprire un altro talento, Bruno De Moura Cossio, attuale chef executive dell’Andana e de La Trattoria omonima, un gioiello incastonato nella selvaggia ma così terribilmente affascinate Maremma.
Colpevoli, lo ammettiamo, di un’assenza che forse durava da troppo tempo in questo luogo che dai tempi della nostra ultima visita si proponeva di essere il baluardo françaises in salsa toscana di un altro uomo delle stelle, Alain Ducasse e il suo lieutenant Christophe Martin, oggi eccoci di nuovo qui.
Ducasse è sì passato, ma la meraviglia del luogo no. Se il locale nel suo fascino bucolico cristallizza quanto più ci sia di magnifico del territorio a partire dall’andana stessa di cipressi e pini marittimi che indirizzano alla villa, di tutt’altra marcia a grande velocità spazia oggi la cucina di De Moura Cossio, convocato oramai da un anno e mezzo nella nazionale bartoliniana insieme a un altro storico compagno di viaggio nell’epoca del Devero, grande professionista del servizio: Davide Macaluso. Nota sulla sala, oggi giovane e con tratti ancora da rodare, auspichiamo possa crescere sugli insegnamenti di un maître del calibro di Macaluso.
La cucina proposta, precedentemente ancorata a una tradizione granitica (ma perfetta!) senza margini d’interpretazione, ora attinge nuova linfa arricchendosi dell’imprinting culturale e tecnico di questo cuoco italo brasiliano che vanta esperienze tra l’Emilia e il Veneto, come lo storico Excelsior di Venezia fino alla cattedra prestigiosa ricoperta in ALMA per 8 anni. Se lo spirito delle pampas sudamericane vibratamente descritto in romanzi incontra lo stile inconfondibile dei butteri nostrani, oggi la Maremma trova una nuova assonanza gastronomica con la cucina toscosudamericana della Trattoria di Bartolini. Autentica impresa, che a nostro parere non è poi così utopica.
Guava, carambola, patate dolci, manioca, maracuja ingredienti lontani, dosati come pennellate accurate nel quadro maremmano dipinto dallo Chef. Dal piccione alla brace e composta di guava fino al risotto con il cibreo di mare, tra tutti spiccano due piatti che ci hanno colpito per la loro resa palatale.
Lo scorfano con salsa yakitori, zucchine al bergamotto e wasabi. Qui il pesce cotto al vapore in magnifica texture al punto, rivela la sua carnosità abbracciando la dolcezza della zucchina declinata in triplice forma: di crema, con anche il fiore essiccato e il carpaccio aromatizzato al bergamotto. Completano il piatto la salsa yakitori e la pungenza del rafano, ad alzare l’asticella. L’altra rivelazione arriva dalla patata dolce, elevata al rango di pregevole tartare con tanto di gueridon per il servizio in sala. Un lavoro cesellato sulla consistenza fondente del tubero, impreziosito dalla salsa smetana, quest’ultima retaggio gastronomico della cultura russa dove nella panna viene indotta una fermentazione lattica a regalare note di golosa freschezza, ma che mai sconfinano in un’acidità smodata. D’obbligo indulgere in questa salsa!
Il viaggio della Trattoria di Bartolini parla soave di questo luogo che nell’etimo stesso di Maremma racchiude il significato della selvaggia contesa tra terra e mare, d’altronde come gli elementi che hanno caratterizzato il nostro percorso. Siamo felici, come già detto, di fare ritorno all’Andana e trovarne una realtà che ci lascia appagati vedendo quanto il team stia riuscendo nel suo intento. La valutazione proposta è un incentivo ad ambire sempre più in alto. Un mezzo punto in più per dare incoraggiamento a ciò di cui siamo già elettrizzati di degustare nella nostra prossima visita.
Vessillo zoomorfo di tutta l’alta cucina, specie di quella classica francese, la lepre è il grimaldello della consacrazione gastronomica di qualunque chef sin dai tempi di Archestrato da Gela che nella seconda metà del quarto secolo a.C. scriveva che: “Sono molti i modi e i precetti per preparare una lepre, ma eccellente è mettere la lepre arrosto calda, condita di solo sale, in mezzo a commensali di buon appetito, con la carne ancora un po’ crudetta, strappata a forza (…).” Inopportune ed esagerate sarebbero tutte le altre preparazioni, sosteneva il poeta siceliota, sebbene in tanti, dopo di lui, l’avrebbero smentito.
Ecco le migliori versioni degli ultimi anni.
Presso uno dei migliori ristoranti d’Europa, paradiso non solo per gli appassionati ma anche per i profani, la lepre è, come tutto, del resto, uno dei motivi stagionali di Massimiliano Alajmo. Qui, la si ritrova ben avviluppata nel menù di novembre: autunnale per antonomasia.
Presso il piccolo gioiellino-giocattolo di Antonio Biafora, un ristorante bomboniera con poco più di una decina di coperti, lo chef si esprime in tutto il suo talento e la sua profondità, la stessa con cui ispezione il territorio, in una veste contemporanea. E l’obiettivo è ampiamente centrato e riuscito, con una cucina davvero sottile, elegante e moderna come questi agresti bottoni di lepre, borragine e succo d’albicocca: paradisiaci!
Piccolo luogo di incanto, già sede di Château Haut-Brion, a Parigi, con una cave da fare invidia a molti. È qui che Cristophe svuota i frigo a ogni servizio, proponendo una cucina di totale e completa improvvisazione. Perché salse, fondi e tutte le basi dell’alta scuola classica francese sono preparate fresche ogni giorno, con un tocco impeccabile, partendo da quanto offre il mercato: in questo caso, solo il fondo della lepre a impreziosire un raviolo ripieno di funghi porcini su cui è assiso il fegato grasso d’oca. Chapeau!
Da Davide Palluda il palato fa fatica a comprendere dove finisca la tradizione e inizi la modernità. I suoi sapori s’impongono alla coscienza perché importanti, decisi, centrali, complessi ma senza un ingrediente di troppo come nel riso, ginepro e lepre: un Carnaroli cotto in acqua, mantecato con burro, ginepro e aceto, servito al tavolo direttamente sul piatto dove è gia stato posizionato il ragù di lepre con un ristretto di barbabietola. Un piatto bellissimo, oltre che golosissimo.
All’alba dei suoi quarant’anni, onusto di successi e riconoscimenti, Enrico Bartolini ha compiuto una scelta coraggiosa quanto inattesa: quella di reinterpretare i propri piatti più celebri, alla luce della contemporaneità. Kaiser Soze di questa rielaborazione, il riso e latte, dove alla salsa si melograno e al civet di lepre si aggiunge la pungenza del pepe verde, a rendere l’insieme incredibilmente multisfaccettato.
Giovanni Passerini, seppur quarantenne, è già un cuoco e un imprenditore maturo. Ha creato un luogo d’elezione, vicino alla Bastiglia, che è il regno dell’italianità più pura. Semplice, ma non per questo non ricercato, dove con puntiglio e maniacalità si ripropongono assiomi della cucina italiana, come questa insalata improvvisata di erbe aromatiche, lumache e cuore di lepre.
Un piatto che è in tutto e per tutto trompe-l’œil di un paesaggio, una suggestione, un ricordo, e che è vessillo di una maturità che corrisponde, nel caso di Massimo Bottura, all’interiorizzazione di una verità: quella di esistere nella relazione e nella comunione col mondo, di cui il piatto è tributo. Anche in questo caso lumache e lepre si uniscono, per dare vita a un paesaggio campestre.
Era scontato che una preparazione tanto classica non poteva che trovarsi se non nella casa della grande, alta cucina del ristorante di “lusso”. Una caratteristica che, a La Peca, convive tuttavia con uno squisito senso di familiarità: la valorizzazione della “casa” e la capacità di far sentire qualunque cliente come avvolto in una nuvola di comfort. Il lusso spogliato della altezzosità e portato al livello della vera eleganza, come questo piatto, tanto elegante quanto succoso e disinvolto.
Torniamo dunque a Le Clarence dove, nella stessa visita, Cristophe Pelé ha dedicato alla lepre alcune memorabili declinazioni, come in questa personalissima e affascinante preparazione, in cui gli sfilacci di lepre convivono con l’aragosta e con importanti lamelle di tartufo bianco. Una combinazione sublime, e nobilissima.
Non di rado, la grandeur sta nel mezzo e, in questo caso, nel punto di incontro tea il civet e la royale. E se il primo è un metodo di cottura particolarmente adatto alla selvaggina, che consiste nel cuocere la carne a fuoco lento in una salsa a base di vino, sangue, verdure e spezie, la royale è, come vedremo, il punto più alto di realizzazione della lepre, in congiunzione con funghi, foie gras e tartufo nero pregiato: qui le due tecniche s’incontrano in una doppia declinazione, dove il colore è restituito nella sua più naturale essenza.
La cucina di Christian Milone è dichiaratamente, profondamente legata alla terra; è una cucina dell’orto, di elementi vegetali, di sensazioni amare, acide, a volte terrose. Una cucina che, anche quando osa, mantiene una componente di concretezza e senso del gusto che non rende mai le preparazioni eteree o fini a sé stesse. Marcate note vegetali, freschezza, leggerezza, ma anche omaggi alla classicità d’Oltralpe nella sua lepre, a metà strada tra civet e royale visto che il fondo è tirato proprio con foie gras e tartufo nero.
Ancora una volta Pelé, dove la lepre alla royale acquisisce una piccola licenza sulla ricetta classica (1775), che qui vi riportiamo. La preparazione originale, a opera del cuoco di corte Marie-Antoine Carême, prevede una lepre disossata e marinata col Cognac. Per la farcia vengono usati i tartufi neri del Périgord, insieme ad altri funghi, come le trombette dei morti, il lardo tagliato sottile e a cubetti. Il fegato e il cuore vengono spadellati con burro e scalogno, e deglassati col Cognac per poi essere aggiunti alla farcia della lepre stessa. Completano il ripieno blocchi interi di foie gras di anatra, distesi lungo l’intera superficie dell’animale. Con ago e spago la lepre viene chiusa e ricucita. Segue una marinatura nel vino insieme alle spezie, per circa 6 ore, fino al momento in cui viene infornata e cotta a temperatura molto bassa. Viene servita tiepida, cosparsa con il fondo di cottura ridotto della lepre, ottenuto dalla carcassa arrostita e deglassata più volte con il Porto. Ecco, non pago a tutto questo Pelé aggiunge, sulla sommità, un cubetto di anguilla caramellata.
Da Luigi Taglienti la chiusura della parte salata del menu viene affidata a un’icona della cucina borghese transalpina, presentata in chiave moderna. La sua lièvre à la royale viene farcita con foie gras, tartufo, rognone e nappata con la sua salsa di cottura, legata fuori fuoco, e servita con patate noisette e uno spinacino di fiume. Sontuosità ai massimi livelli.
Apparentemente semplice, direte voi, la strada verso la classicità. Niente di più falso, se è vero com’è vero ch’essa è lastricata di difficoltà, non ultimo il paragone indefesso coi giganti della cucina. Stavolta, tuttavia, la lièvre à la royale di Antonio Guida è ancora più intensa e vibrante, nonché vessillo di una cucinapiù gagnairiana che mai, con tanto di capriccio: la ruota di pasta di Gragnano, a indicare le origini dello chef.
Una delle migliori royale dell’anno, qui veramente realizzato a regola d’arte. Equilibrio perfetto tra farcia e carne, salsa da manuale tirata col sangue, come vuole la tradizione, morbidezza e tenerezza filologicamente rispettate, ma con una turgidità delle carni che non ne smaterializza la consistenza, anche se la tradizione lo vorrebbe.
Una cucina con una timbrica classica davvero importante, quella di Eugenio Boer, che corona in questa splendida royale di lepre, ingentilita e rinfrescata dalla provvidenziale riduzione di vino e di visciole. Un piatto in cui salse, fondi, riduzioni, concentrazioni e dove l’uso, imperioso, delle componenti lipidiche, corona un piatto dai sapori molto precisi e definiti.
Il goloso filetto di lepre al pepe verde rappresenta per Massimiliano Poggi l’occasione di una rivisitazione importante, nonché la realizzazione di una salsa che ci ha costretto alla scarpetta: una demi-glace molto persistente che strizza l’occhio alla scuola francese, a conferma di quanto le basi siano, qui, decisamente solide.
Menzione d’onore per la lepre, mandarino, estratto di ginepro e timo cedrino di Gianluca Gorini: una materia prima quasi indescrivibile (la scioglievolezza di questa carne va toccata con mano per essere creduta) e una perizia nella gestione di equilibri gustativi (ematicità, balsamicità, acidità) e strutturali, da vero fuoriclasse.
La Lepre in salmì con croccante di carbonella (oliva nera marchigiana) sfoggia, oltre a una materia prima strepitosa, una maestria assoluta nella gestione degli equilibri interni, con una salsa di un’eleganza e di una leggerezza sopraffina, cui il tocco “marchigiano” conferisce vivacità texturale e gustativa. I piatti di cacciagione non fanno altro che confermare la grande mano di Mauro Uliassi anche su questo versante, dove le grandi preparazioni classiche diventano letture attualizzate e alleggerite, appropriate anche durante le torride estati marchigiane.
In soli quattro anni questo ristorante si è imposto sulla scena gastronomica mondiale vantando uno dei pedigree più creativi. Disfrutar è un ristorante al contempo magico e informale, in cui rimanere semplicemente e felicemente estasiati a ogni assaggio, tra effetti speciali mai fini a se stessi, momenti divertenti ma anche didattici, che generano l’equazione perfetta della felicità.
E il trittico di lepre che segue ne è la dimostrazione:
Venezia sta velocemente spazzando via molti dei luoghi comuni che la riguardano: nell’annus horribilis dell’acqua alta da record, del covid e della conseguente totale assenza di turismo extra-europeo, la città si sta rimboccando le maniche come forse mai prima, mettendo in mostra tutte le sue bellezze più scintillanti.
Tra queste, l’accoglienza e la ristorazione stanno vivendo una fase di fulgente euforia. C’è l’imbarazzo della scelta su dove cenare o assaggiare una preparazione che “merita” il viaggio: un grande baccalà mantecato, delle sarde in saor da sballo o una cena completa, di grande livello. Gli alberghi di gran classe non sono mai mancati, ma alla ristorazione veniva riservata l’ultima voce di sviluppo: più importante il concierge che una colazione da urlo, più importante la vista sul Canale di quanto si trovava nel piatto al ristorante dell’hotel. Ebbene, Venezia, tutto questo, lo ha sovvertito.
Anche a Palazzo Venart, che si propone come una delle mete più importanti per il cliente che pone il cibo in cima alla piramide delle componenti fondamentali per passare una buona vacanza. E non parliamo solo della cena al Glam, ma anche di una colazione alla carta semplicemente perfetta o di un servizio in camera di grande qualità. La struttura, inutile dirlo, è stupenda, una perla rara fuori dalle calli più trafficate di Venezia (eppure a 10 minuti a piedi da Rialto), arricchita dalla presenza di un bellissimo giardino che si getta sul Canal Grande. Aggiungiamo un servizio di grande empatia e avremo l’identikit di uno dei migliori alberghi dello Stivale.
Del Glam avevamo già parlato con toni entusiastici lo scorso anno. Questa visita è stata una riconferma del grande talento di Donato Ascani, un classe ’87 che è ormai una certezza oltre che un ottimo prospetto, e della straordinaria bravura di Enrico Bartolini nel saper scegliere i propri collaboratori e sapere indirizzare la nave dove sa che ogni componente del gruppo renderà al meglio.
Non è quindi più una sorpresa che qui si possa passare una delle migliori esperienze gastronomiche d’Italia.
La cucina di Ascani punta forte sull’aromaticità delle erbe, accomodando sensazioni amare e acide spigolose con grande bravura: si vede che qui officia un cuoco che ha grande palato e grande sensibilità, che ama gli ingredienti e li sa trattare. Non è un mistero il fatto che sia lui stesso la mattina presto a recarsi al mercato per la spesa del giorno o che intrattenga scambi con i coltivatori presenti in laguna: un cuoco che tiene i rapporti diretti con produttori è già espressione di persona molto lungimirante, perché ha capito che la crescita del territorio e della filiera produttiva di prossimità sarà certezza di crescita del suo ristorante. Ed è quello che fa Ascani, andando a cercare la migliore zucchina di Sant’Erasmo presente in laguna, le erbe, i bovoleti, portando i capisaldi della cucina veneziana a un nuovo livello. I suoi piatti sono scoppiettanti, mai banali, con una nota di freschezza che invoglia sempre al passo successivo.
I margini di crescita ci sono e sono ancora legati all’equilibrio del percorso. L’utilizzo di erbe nella quasi totalità delle preparazioni è un gesto coraggioso, ma che richiede grande attenzione nel dosaggio e nella costruzione del piatto. In qualche occasione, pur toccando sempre punti di interesse molto alti, sopravviene una certa monotonia, che va assolutamente evitata. Così come abbiamo trovato curioso ritrovare molti piatti già provati nella precedente esperienza, ma in questo può senza dubbio aver contribuito il lungo lockdown.
Dettagli insomma, che annotiamo spinti dall’interesse di come si possa ulteriormente affinare questo menu. Rimane la convinzione di essere davanti non solo a una cucina dalla forte identità, tecnicamente perfetta, ma anche a un ristorante completo in tutte le sue voci, dove un gruppo giovane e affiatato sembra diventare sempre di più una squadra.
Se potete, regalatevi il sogno di almeno 24 ore a Venezia attorniati dalla bellezza e dall’ospitalità di Palazzo Venart, in una città che non smette mai di stupire e di far innamorare.
Nella costellazione di ristoranti di Enrico Bartolini, al Casual, in città alta, a Bergamo, è comparsa una nuova stella.
Parliamo del poco più che trentenne Marco Galtarossa, un curriculum vitae davvero ricco di esperienze, che denota la sua voglia di imparare e crescere. Cracco, Villa Feltrinelli, Enoteca Pinchiorri, La Feva come capocuoco e chef di Zanze XVI a Venezia. Vari, poi, gli stage: Robuchon a Parigi, Joia, Tickets e Noma.
È una stella che brilla di luce propria e che Bartolini, da bravissimo talent scout, potrà solo valorizzare ulteriormente, lasciandogli intelligentemente lo spazio che merita. Forte di una cucina dall’identità e dalla personalità ben definite, volutamente “espressa” nelle cotture, il cuoco è dotato, tra le altre cose, di un notevole palato. Ci si trova così al cospetto di una proposta culinaria che riesce a stupire per varietà e capacità di giocare in modo insolito con differenti tonalità di gusto e ingredienti, con uso intelligente delle erbe aromatiche. Alcuni piatti, poi, ci sono sembrati davvero entusiasmanti per forza, complessità e stratificazioni di sapori, che arrivano in progressione sinergica al palato.
Il menù degustazione più completo – Pura Ispirazione, appunto – permette allo chef di divertirsi creativamente, in base alla disponibilità della materia prima, uscendo volutamente dai piatti presenti in carta. Ci sentiamo decisamente di suggerire di scegliere proprio questo menù, uscendo dalla logica della carta, proprio per apprezzare appieno il talento puro e cristallino e tutto lo spettro palatale di colori, utilizzati con maestria.
Ci sono piatti che arrivano diretti, di grande impatto immediato, come lo sgombro marinato con ragù di chiocciole e caviale d’aringa affumicato, una bomba a orologeria di gusto perfettamente progettata e calibrata. Il risotto al sedano selvatico, ricci di mare, alici e acqua di armelline esce dalla logica classica della mantecatura e cremosità: si presenta quasi come un riso da minestra, parte delicato e poi cresce, rivelando forchettata dopo forchettata, la sua complessità ed eleganza verso un climax che persiste nel palato.
La cervella d’agnello lucano con funghi porcini, mais dolce e ginepro ti fa innamorare per la sua dolcezza e per la sua gustosità. Divertente il gioco del sedano rapa, cotto con del succo di tartufo, poi passato alla brace e glassato con un fondo vegetale ridotto e aglio nero. Presentato come la terza portata dell’agnello, ti inganna, riconducendoti come gusto al brasato di carne ma, in realtà, è esclusivamente vegetale.
Il morone, cotto perfettamente in foglia di fico, cipollotto tarassaco e salsa al chinotto fa rimbalzare le diverse note dolci, iodate e amare nel palato.
Si tratta di un percorso generoso, fin troppo, in termini di quantità, che vuole soddisfare ovviamente anche i gourmand, che però fa arrivare davvero satolli alla fine, tant’è che abbiamo rinunciato, a malincuore, ad assaggiare l’altro piatto di carne, che sarebbe stato il piccione.
Una bella esperienza, decisamente valorizzata dall’alto livello della sala, che conferma l’abilità di Bartolini nel selezionare anche i restaurant manager. Qui abbiamo Marco Locatelli che, coadiuvato da un giovane e valido sommelier, gestisce con eleganza, ritmo e sorriso, pur se nascosto dalla mascherina, il servizio, anche con l’utilizzo del guéridon.
Un bel team giovane sia di cucina che di sala, che lavora decisamente in sintonia e con grande attenzione e professionalità.
A shining rising star in Bergamo Alta!
Lo scorso due giugno hanno riaperto i battenti, con coraggio e scongiurando la psicosi di massa, molti ristoranti in tutta Italia. Noi, spinti da un irrefrenabile entusiasmo post-quarantena, non ci siamo fatti sfuggire l’occasione di prenotare un tavolo a Milano, dall’ultimo (cronologicamente parlando) tristellato d’Italia, per ritrovare quel pizzico di normalità che avevamo lasciato, qualche mese prima, fuori dalle porte di casa. E dopo le necessarie e giuste accortezze (misurazione della temperatura, domande sullo status del cliente, etc.) ci siamo accomodati nella bella sala, dalle luci soffuse (fin troppo) all’ultimo piano del Mudec. Una sala ancor più curata nei dettagli da come la ricordavamo e – sospiro di sollievo – piena!
Enrico Bartolini, con la sua fidata squadra, ha ripreso da dove aveva lasciato. Tra estetica, gusto ed una materia prima rigorosamente nazionale con l’intento di valorizzare sempre di più i meravigliosi prodotti italiani. Il tutto all’insegna della perfezione. A cominciare dalla proposta gastronomica, che vede l’introduzione di un nuovo menu, “Edizione Limitata 2020”, affiancato ai piatti che hanno fatto la fortuna dello chef.
Bartolini tende costantemente a perfezionare la sua cucina e fa delle sue creazioni originarie la cavia ideale per inseguire l’espressione più perfetta di un’idea. Ad esempio, uno dei piatti che lo hanno reso famoso già quando officiava in quel posto magico e sperduto che era Le Robinie, ossia il risotto alla barbabietola e gorgonzola, trova nuova linfa con l’innesto della salsa alle noci, altro elemento grasso ma tutt’altro che banale per via della componente amara conferita al piatto. Ancora, alici, ostriche e caviale è totalmente nuovo rispetto al piatto originale, con il pesce che scompare, a livello estetico, ma ritorna prepotentemente con un intenso sapore tra carpione e saor al momento dell’assaggio, nascosto tra l’ostrica e le riequilibranti erbette.
Si tratta di una cucina che sta virando sempre più verso il classico, e lo dimostrano le salse e le architetture dei piatti, quasi barocche, in cui l’elemento principale vuole convivere con elementi di contorno studiati nei dettagli (è il caso della straordinaria tarte tatin di pesche e porcini, servita con l’altrettanto meraviglioso manzo delle Dolomiti Lucane o dell’irresistibile gelato all’aceto balsamico che, con le eccezionali ciliegie, ruba la scena all’imperioso soufflè al limone). Ed è una cucina che, col tempo, sta acquisendo quella resa trasversale quasi matematica in cui, seppur a scapito di guizzi azzardati, nulla è lasciato al caso e ha quale unico obiettivo quello di piacere e arrivare al cuore e alla pancia del commensale. Insomma, è una cucina che ci convince sempre di più.
Sul capitolo sala e cantina c’è poco da obiettare: il servizio è governato in maniera ottimale ed è degno dei riconoscimenti acquisiti. La cantina è molto ampia e ben costruita pur presentando, tuttavia, ma a questi livelli è anche facile aspettarselo, ricarichi importantissimi.