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Del Cambio

Matteo Baronetto: un cuoco sensibile

Nel panorama gastronomico italiano, Matteo Baronetto occupa un posto peculiare – fieramente periferico -, eppure così straordinariamente incisivo, grazie alla sua unicità. Un cuoco che ha vissuto la fase più luminosa della cosiddetta avanguardia – gli anni milanesi -, per prenderne poi le distanze, senza accanimenti, così da poter agire libero da condizionamenti esterni e guidato solo dalle proprie intuizioni, le quali lo conducono incessantemente alla scoperta – o ideazione? – di legami tra ingredienti distanti oppure a dare nuova linfa vitale a percorsi apparentemente già esauriti (la scaloppina, la salsa civet, il saltimbocca…).

Il talento del cuoco risiede proprio nella sensibilità e, quindi, nella capacità di rendere visibile l’invisibile o cogliere il mistero in ciò che è (a prima vista) conosciuto – con passaggi che a tratti varcano la soglia dell’onirico – : un approccio che porta con sé la tribolazione consistente nel prendere costantemente le distanze dalle strade già percorse, dalle tendenze, dagli infiniti dover-essere di cui la cucina è disseminata. Il risultato è una cucina di intelletto, in cui l’ingrediente e la tecnica diventano vettori, il substrato su cui poggiano le idee, poiché queste ultime sono il vero punto di contatto tra il cuoco e il commensale: con l’assaggio le menti delle due parti entrano in contatto e “vedono” la stessa cosa. Una cucina che non nega il gusto – non sempre quantomeno – ma che non si esaurisce in esso, prestandosi così a più livelli di lettura. Per questo motivo, i menù di Matteo Baronetto poco si addicono a venir rappresentati attraverso la fotografia (nonostante siano di rara bellezza): l’acme sta nell’assaggio, per l’appunto, l’istante in cui il cibo si fa idea e scatta la scintilla. Quel momento è difficilmente rappresentabile e intuibile (a differenza di piatti che, alla vista, già si prestano a essere “pregustati”). Allora, non è un caso se in “Iconiche similitudini” – il libro che il cuoco ha recentemente dato alle stampe – la fotografia abbia lasciato posto all’opera grafica, scelta che – in una logica corrispondenza – lo accomuna ad un altro cuoco-artista, quel Alain Passard i cui piatti, così semplici alla vista – quasi “banali” e, perciò, indecifrabili -, sono in grado di trasportare verso sensazioni prima sconosciute (e non preconizzabili). La profondità di questa cucina può essere colta nel suo pieno al “tavolo dello chef”, il luogo in cui le intuizioni di cui si è detto spesso nascono o vengono concretizzate per la prima volta, ove la sperimentazione ed anche l’errore – non necessariamente un disvalore – che ne può conseguire sono parte del patto cuoco-cliente: i risultati decantati di questa riflessione – non tutti – si ritroveranno, poi, a tempo debito, nei menù offerti in sala che, quindi, non sono affatto “altra cosa”.

Un’incredibile densità di pensiero

In occasione dell’ultima visita, abbiamo avuto modo di confrontarci con un percorso complesso e stimolante, un intreccio di diverse suggestioni, dall’utilizzo sapiente – ed acuto – dei grassi, alla celebrazione del gesto, passando per le assenze come strumento di riflessione, senza abbandonare la cifra stilistica delle “similitudini” che, anche per chi si è seduto più volte a questo tavolo, rappresenta un’inesauribile fonte di stupore. Le similitudini, per l’appunto, sono oramai la sineddoche della cucina baronettiana: una componente di un approccio complessissimo che a volte, erroneamente, viene “ridotto” ad una delle sue componenti. In realtà, la ricerca del simile non è l’obiettivo perseguito dal cuoco, quanto la leva, il punto di partenza, il cannocchiale, il metodo con cui approcciarsi alla realtà e da cui derivare infiniti risvolti e riflessioni. Ad esempio, in Albume, caviale e burro nocciola convivono la celebrazione dell’importanza del gesto – quello di racchiudere le uova di storione in un velo di albume, senza scorciatoie – e il parco utilizzo del burro nocciola (il grasso, per l’appunto) a stimolare il ricordo di un “uovo all’occhio di bue”. Un passaggio che fa inevitabilmente venire alla mente il Pachino di Disfrutar, il quale, tuttavia, è frutto di un escamotage “tecnologico”, dal  risultato certamente ludico e goloso ma meno “sottile”.

Un’immagine fedele del Baronetto di ora si ritrova, poi, in Espardenya (cetriolo di mare) di seppia e foie gras, in cui la seppia viene tagliata a strisce e cotta versandovi sopra dell’acqua bollente non salata – ancora, la gestualità – : la texture rimanda immediatamente al cetriolo di mare mangiato al Nerua pochi mesi fa. A lato, viene servito del foie gras sciolto in padella da cospargere sul boccone bianco: la golosità – e quel sapore tipico del pesce cotto in padella – grazie ad un solo accenno di materia grassa. In Albume d’uovo come una steak tartare, una mirepoix d’albume viene condita come fosse una classica tartare: in questo caso, il gioco di corrispondenze non funziona – mancano cremosità e parte ematica – ma non lascia indifferenti poiché “l’errore” consente di analizzare la genesi del piatto e il meccanismo di funzionamento delle similitudini. Un passaggio straordinario – forse quello più incisivo – è Verza e civet di radicchio, in cui la salsa civet è preparata con radicchio e sangue di volatile (rispetto alla tradizione francese la carne scompare dalla salsa e dal boccone): la lucidità della salsa è quella che conosciamo e la complessità gustativa rara, tra l’amaro e l’acido del cioccolato (che non c’è), oltre a quella nota ematica che ci era mancata nel piatto precedente. In Gianduiotto di gelatina di brodo di manzo e maionese al sugo di carne la texture del nervo bollito o stufato viene riprodotta con una gelatina di brodo di manzo (qui, però, il gusto della carne è presente, a differenza della tradizione, dove si mangia “la consistenza”): un piatto che fa venire alla mente “Gnocchi and parmesan sauce“, servito da Aduriz proprio in questa cucina, in un rapporto di specularità (lì il tendine c’era ed era dissimulato sotto la forma di uno gnocco ricoperto di salsa al parmigiano). Da ultimo, la “memoria storica” di Passione Gourmet deve necessariamente tenere traccia di Animella e mozzarella – un piatto assaggiato nella precedente visita di luglio -, uno dei più straordinari dello scorso anno (e non solo): due ingredienti distanti – ma dall’identica testura – e un assaggio sorprendente, che sfugge alla razionalità. La cucina di Matteo Baronetto è una voce solitaria – unica -, attualmente una delle più fertili nel panorama europeo, insensibile al contesto gastronomico attuale, inespressiva di tendenze e, per questa ragione, tremendamente affascinante.

IL PIATTO MIGLIORE: Verza e civet di radicchio.

La Galleria Fotografica:

Matteo Baronetto, La Table du Chef e la Nuova Cucina Italiana

Matteo Baronetto è stato per diciotto anni al fianco di Carlo Cracco, nel periodo in cui il cuoco di Creazzo era considerato uno dei massimi esponenti della cucina d’avanguardia a livello internazionale. Nel 2014 il trasferimento alle redini di Del Cambio, un ristorante le cui origini risalgono al 1757 e che ha visto sedersi ai propri tavoli, tra gli altri, Friedrich Nietzsche e Honoré de Balzac.

L’incarnazione di una città e, nel contempo, un baluardo della tradizione. Di primo acchito, due mondi distanti e dalla difficile convergenza. Se non ché, come spesso accade, a fare la differenza sono le persone, la loro passione – od ossessione – e la capacità di fronteggiare la complessità, individuando legami e connessioni invisibili ai più. Ad oggi, la cucina di Matteo Baronetto ha raggiunto una profondità tale da saper soddisfare chiunque. Dal turista che si reca da Del Cambio con il desiderio di assaggiare un classico della cucina torinese eseguito magistralmente all’appassionato più incallito, perennemente alla ricerca di una cucina autenticamente autoriale, anche sfidante.

A questi ultimi – ma anche a chi, più semplicemente, desidera esplorare nel profondo l’idea di cucina del cuoco – è rivolto il “Tavolo dello chef”, un bancone di marmo affacciato direttamente sui fornelli e capace di ospitare un massimo di quattro commensali. Sin da subito, ci si rende conto di come lo scopo di questa soluzione sia quello di instaurare un dialogo e un confronto con l’avventore, una sessione di cucina jazz in cui le due parti si scoprono e si influenzano vicendevolmente, in una dinamica che trascende il cibo in senso stretto per sfociare in una relazione umana, elemento verso cui il cuoco piemontese dimostra di voler investire molto, anche accantonando alcune sovrastrutture che spesso – e soprattutto negli ultimi anni – caratterizzano il rapporto chef-cliente. 

Misteriose risonanze e avanguardia come riflessione sulla tradizione

Il percorso servito a le Table du Chef corre lungo due fili conduttori che si alternano o coesistono. Da un lato, vi è la ricerca di “similitudini” tra le diverse portate – spesso servite “in parallelo” – ma anche all’interno del singolo piatto dove ingredienti apparentemente distanti si mostrano imprevedibilmente affini in un inesauribile gioco di rimandi e collegamenti, estremamente stimolante. Dall’altro lato, molti passaggi evidenziano uno sguardo inedito – ma estremamente rispettoso – nei confronti della tradizione. 

Un manifesto di questo binomio è rappresentato da Ostrica alla Rockfeller il mitile e gli spinaci sono ricoperti da un’ostia inumidita e brunita, cui si aggiungono due gocce di limone – a cui viene affiancato, in un parallelo, Alga nori, cavolo nero, caviale, crema di latte e olio al cavolo nero. I due piatti sono accomunati da un perfetto equilibrio tra note “verdi”, sapide e iodate e, nel contempo, l’accoppiata cavolo nero-alga nori evidenzia un’inaspettata somiglianza tra le consistenze dei due ingredienti. Un passaggio di rara eleganza è, poi, costituito dagli scampi al vapore, meringa salata all’italiana, olio di nocciola e marmellata di limone salato: un caleidoscopio di stimoli gustativi in perfetto equilibrio, cui viene affiancata una brunoise di kiwi giallo e patate, in un altro gioco di corrispondenze. 

In Moscardino e foie gras, il fegato grasso – sciolto delicatamente in padella – è chiamato a “sostituire” le interiora del mollusco, in un risultato complessivamente davvero notevole: l’inganno funziona sia in termini di vista che nella percezione delle textures al palato, ma a colpire è soprattutto il gusto. In Seppia e lardo e Lardo di mandorla gli spunti sono ancora una volta numerosissimi, nonostante l’estetica monacale e la monocromia del piatto: la corrispondenza tra il colore e la texture di seppia e lardo, la grassezza di quest’ultimo e della pomata di mandorla, le poche gocce di tintura al rosmarino che rievocano le tipiche note aromatiche del lardo. Quanto ai ravioli di gnocco alla bava, sono a loro volta il frutto di una riflessione su un piatto della tradizione: per assicurare il perfetto equilibrio quantitativo – e, quindi, gustativo – tra gnocco e condimento, entrambi vengono racchiusi in un raviolo di pasta fresca finissima: i limiti della tradizione vengono superati attraverso un utilizzo strumentale della stessa e, così facendo, un “difetto” diventa un’occasione di valorizzazione e consapevolezza. Accade anche nell’accoppiata tra rognoncini di coniglio e salsa alla luciana, in cui la nota animale delle interiora arricchisce il piatto in termini di complessità, oltre a ovviare a un inconveniente della preparazione classica, in cui spesso il polpo – dopo aver disperso i propri umori nel pomodoro – risulta privo di sapore.

Da ultimo il dessert, in cui la golosità del gelato di bonet trova come contrappeso una granita di Barolo chinato, a conferire note amare e aromatiche. Insomma, un pranzo a Del Cambio è un percorso ricco di stimoli, sfumature, citazioni e rimandi, alcuni dei quali difficili da trasporre per iscritto ed altri che necessitano di qualche tempo per essere metabolizzati. In particolare, il tema delle “similitudini” rappresenta una riflessione davvero personale e originale, carica di suggestioni: ci si accorge che ingredienti che si somigliano per consistenza, texture o resa estetica quasi magicamente si sposano anche al palato. C’è qualcosa di inspiegabile, quasi misterioso, che forse ha a che fare con la natura nel suo profondo. Un approccio lontano da cliché e un’avanguardia sussurrata fanno di Matteo Baronetto uno dei migliori interpreti dalla cosiddetta “nuova cucina italiana”. 

La Galleria Fotografica:

Ritorno al futuro, i piatti senza tempo dello storico ristorante torinese

Com’è la cucina di Matteo Baronetto? Moderatamente avanguardista, inevitabilmente e volutamente legata al passato, ma allo stesso tempo proiettata nel futuro. Mai una sbavatura, mai un eccesso. Matteo sa spingere sull’acceleratore sul rettilineo, ma sa anche usare il freno con maestria prima di raggiungere la  curva. Inserito in un contesto bellissimo e restaurato in modo sublime Del Cambio rappresenta la quinta essenza della cultura torinese: mai sopra le righe, mai eccessivo nel più rigoroso stile piemontese.

Aperto nel 1757 ha ospitato celebri politici, artisti, scienziati, industriali e imprenditori. Qui veramente si respira la storia, quella passata e quella attuale.
Il Cambio è quindi un ristorante di altissimo livello, uno dei più belli d’Italia dove si entra con grandi aspettative e non si esce delusi. Che scegliate piatti alla carta o uno dei menù studiati dallo chef Matteo Baronetto ritroverete sempre lo stesso stile, lo stesso disegno, lo stesso tratto inconfondibile e autoriale.

Noi abbiamo scelto alcuni piatti dal menu “nel tempo” ovvero le versioni tradizionali di grandi classici della cucina, affiancati dalla reinterpretazione contemporanea dello chef, consigliatissimo e divertentissimo per fare un viaggio nel tempo in stile “Ritorno al futuro”, dove a ogni boccone sentirete il brivido dell’accelerazione della DeLorean del celebre film.

Menu dal tratto inconfondibile e autoriale

Ma non ci siamo accontentati, o meglio lo chef ha voluto farci divertire con altri signature dish e new entries veramente interessanti. Su tutti l’insalata piemontese sapientemente abbinata dal sommelier a un Moscato d’Asti; e qui si è aperto un mondo di sapori, profumi, consistenze, textures, colori che non hanno eguali. In pochi centimetri quadrati troverete tutto. Un piatto che potrebbe essere persino un unico per una pausa pranzo senza eguali.

E poi una new entry come le scaloppine di vitello al vino bianco. Un piatto che tutti abbiamo mangiato da piccoli preparato dalla mamma o dalla nonna. E Matteo è così straordinario che riesce a ricrearti lo stesso profumo al naso che ti fa ancora una volta andare indietro nel tempo, ma, quando il boccone si adagia sul palato, ecco che l’acceleratore spinge al massimo e la magia dello chef ti fa immediatamente tornare al presente della sua rivisitazione con una materia prima di alto livello, cotture perfette e i ricordi (belli) del passato che riaffiorano dolcemente.

Parlando di passato e presente fra tradizione e innovazione, come non citare il primo piatto ovvero il riccio di mare, sugo di carne e limone. Difficile descrivere la sensazione assaggiandolo perché in questo piatto c’è tutto. Semplicemente perfetto, rivoluzionario, ruffiano e goloso.

Venite gente, venite… e ci vorrete ritornare presto, magari allo Chef’s Table, dove Matteo vi preparerà un menu sartoriale cucito addosso a voi come solo un grande sarto sa fare.

Bravo, forse il più bravo, sicuramente il più famoso ed il più citato dei secondi, ma si può rimanere sempre “un secondo” quando si può aspirare ad essere uno dei migliori primi?
Vent’anni lunghi e fondamentali, vent’anni di un rapporto strettissimo fra due cervelli pensanti di prim’ordine.
Un ragazzino che inizia a collaborare con un giovane uomo dal curriculum già impressionante ed apprende, impara, cresce.
Un rapporto che assomiglia a quello di un padre con un figlio.
Un figlio che lentamente affianca il padre fino a diventarne l’alter ego, il suo braccio, ma anche, in parte, la mente in grado di mandare avanti in solitaria una macchina ben rodata e, complice i sempre più frequenti impegni del padre, lo sostituisce spesso nella conduzione.

Questa in breve potrebbe essere la storia di Carlo Cracco e di Matteo Baronetto.
Una storia che, come accade in una famiglia, ha un inizio ed inevitabilmente anche un termine.
Un’evoluzione naturale in cui Matteo ad un certo punto non si è più sentito di  essere il secondo, ma ha accettato una sfida, anzi una grande sfida, un’offerta di quelle che non si possono rifiutare.
Un’avventura in cui era necessario rischiare tutto, perché quando si accetta di diventare lo chef di un’istituzione come il Del Cambio di Torino, c’è sì la possibilità di guadagnare molto in termini di credibilità e non solo, ma avendo tutti i riflettori puntati addosso e, dato l’investimento importante della proprietà e le attese di critica e pubblico, il rischio di bruciarsi diventa una possibilità da prendere in considerazione.
Oggi, a meno di due anni dall’apertura, dopo una stella Michelin conquistata e lodi quasi unanimi da parti della critica,  possiamo dire senza tema di smentita che la sfida intrapresa da Matteo Baronetto è stata vinta.
Il Del Cambio oggi funziona a pieno regime, i numeri sono buoni, i circa settanta coperti a disposizione sono spesso occupati.
La cucina di Baronetto ha ormai raggiunto la piena maturità espressiva. Come già ai tempi dell’esperienza milanese, Matteo riesce a trovare equilibrio e piacevolezza gustativa con ingredienti all’apparenza poco compatibili, dimostrando un palato di rara sensibilità ed una capacità di pensare il piatto propria soltanto dei grandissimi.
La tecnica qui non è mai fine a sé stessa, ma soltanto un mezzo per ottenere piatti compiuti facendo risaltare al massimo gli ingredienti.
La cucina di Baronetto è molto personale, lontana dalle mode, frutto di un percorso e di un background che ha portato il nostro chef a costruire un proprio modo di vedere la cucina che rivela molto della sua personalità.
Una cucina schiva che permette di essere scoperta soltanto se la si guarda con occhio attento, si concede un po’ per volta e piatto dopo piatto rivela tutta la sua forza ed il suo carattere, ma anche eleganza, potenza e capacità di spiazzare e di sparigliare le carte.
Insomma, se si cerca un luogo dove capire e scoprire in profondità il messaggio del suo interprete, Del Cambio è il posto giusto; lasciate carta bianca a Baronetto e lasciategli raccontare la sua storia attraverso i suoi piatti senza remore e senza preclusioni mentali, riuscirete ad entrare in sintonia con lui ed uscirete felici per aver incontrato uno dei migliori interpreti della cucina italiana.

Gli stuzzichini iniziali.
stuzzichini, Ristorante Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
Sfoglie di riso croccanti.
sfoglie di riso, Ristorante Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
Il pane di due tipi, entrambi ottimi.
pane, Ristorante Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
I grissini.
grissini, Ristorante Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
Insalata, uova, cialda croccante piccante: la prima dimostrazione della capacità dello chef di dominare l’elemento vegetale e naturalmente l’uovo, l’ingrediente feticcio di Carlo Cracco.
insalata uovo, cialda, Ristorante Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
Riccio, caviale, acqua tonica: eleganza pura, equilibrio perfetto.
riccio, Ristorante Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
Foglia di grano saraceno, polpacci di rana e soncino.
foglia di grano saraceno, Ristorante Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
Insalatina di piselli, fragoline di bosco e bianchetti: la primavera nel piatto, tre semplici elementi assemblati insieme, ma che meraviglia.
insalata di piselli, Ristorante Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
Cappasanta cruda, semi di zucca piccanti, tarassaco e uovo: una cappasanta dolcissima, l’amaro del tarassaco, il grasso morbido dell’uovo, il croccante ed il piccante dei semi. Cosa si può volere di più da un piatto?
capasanta, Ristorante Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
Gamberi appena scottati con salsa dolcissima ottenuta dalle teste.
Gamberi, Ristorante Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
Baccalà in bianco, salsa ottenuta con la carcassa: piatto classico e anche in questo campo lo chef non perde un colpo, semplicemente perfetto. E che salsa!
baccalà, Ristorante Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
Spinacio al burro, sedano rapa cotto nel grasso del prosciutto: un gioco di prestigio, una illusione, il sedano rapa cotto col grasso del prosciutto che diventa, chiudendo gli occhi, lui stesso prosciutto.
Sensazioni lattiche che si rincorrono con lo spinacio che riequilibra il tutto.
sedano rapa, spinaci, Ristorante Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
Spaghetti burro e parmigiano: vengono reidratati per due ore in acqua fredda fino a diventare stracotti ed elastici, sono poi immersi in un vaso di vetro contenente burro chiarificato leggermente salati. Nel forno a vapore a 100 gradi subiscono una seconda cottura, che li rende traslucidi e quasi trasparenti.
Spaghetti burro e parmigiano, Ristorante Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
Insalata, cioccolato bianco, salsa al prezzemolo: altra grande insalata, servita senza condimento, ma completata dalla grassezza untuosa del cioccolato bianco che smorza le sensazioni amare e dona quella piacevolezza che altrimenti sarebbe mancata.
Insalata cioccolato bianco, Ristorante Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
Lasagna di alga di mare e lattuga con ragù di vitello: una lasagna a tutti gli effetti dove al posto della sfoglia ci sono alghe e lattughe, ottima.
lasagna, Ristorante Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
Ravioli di scarola, acciughe e capperi.
ravioli, Ristorante Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
Scorfano, acqua di parmigiano, anice stellato: terra e mare che si incontrano con l’anice stellato che rende il piatto meno monocorde.
Scorfano, Ristorante Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
Tonno e musetto di vitello: ancora terra e mare, un tema caro allo chef; qui sono le sensazioni grasse e morbide a farla da padrone, ma gestite alla grande.
tonno e musetto, Ristorante Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
Sasso ripieno di crema di pistacchio e sorbetto di mora.
sasso ripieno, Ristorante Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
Frutta disidratata.
frutta disidrata, Ristorante Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
Piccola pasticceria.
piccola pasticceria, Ristorante Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
Praline finali.
praline, Ristorante Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino

Entrare al ristorante Del Cambio di Torino è un’esperienza memorabile. Lo chef che da un anno vi officia, Matteo Baronetto, sta mostrando tutto il suo sapere culinario, la sua cultura enogastronomica, la sua passione e le sue innate doti tecniche, dando vita così ad una cucina tanto personale da trovare il suo equilibrio solo specchiandosi in sé stessa, accettandosi, capendosi e dichiarandosi liberamente. Siamo al cospetto di uno dei più grandi cuochi del panorama nazionale, degnamente supportato da un edificio all’interno del quale è stata scritta parte della storia dello Stivale.

È inspiegabile come di colpo, nonostante si faccia parte di una delle più belle sale da pranzo d’Italia, ci si guardi intorno come storditi, senza riuscire ad apprezzare fino in fondo tanta bellezza, quasi fosse superflua.
I velluti rossi, gli specchi anticati, gli enormi lampadari a goccia di fine ottocento si limitano a fare da cornice all’opera che lo chef sta mandando in scena, svestendosi così naturalmente di quel ruolo da protagonisti che hanno svolto per centinaia di anni.
Certo anche Baronetto avrà sentito il peso di dover essere all’altezza di un luogo come questo.
Oppure no?
Quell’eleganza, quella gentilezza, quella capacità di rispettare ingredienti e preparazioni che solo in pochi grandi, anzi grandissimi, hanno, vengono portati a braccetto da una grande personalità, da una intrigante decisione di intenti e da una formidabile schiettezza. Che tutto questo sia frutto di un compromesso per poter convivere con un luogo dalla tale potenza evocativa? Probabilmente no, anzi, certamente no.

Matteo Baronetto qui pare esprimersi con la libertà leggiadra di un innamorato. Concentra due, tre, quattro gusti in un solo piatto, riuscendo nell’ardua impresa di scinderli nettamente ad inizio degustazione, per poi, via via, accostarli, farli toccare fino ad arrivare a fonderli tra di loro. È un momento di grande ispirazione artistica per Baronetto, in un percorso iniziato da poco eppure già così vicino allo zenit. E’ comparsa anche qualche acidità secondaria, lieve ma penetrante nei suoi piatti. La testa dello chef è libera da schemi mentali fissi e spazia proponendo passaggi che sfiorano il bucolico, altri che richiamano e rincorrono la grande cucina classica francese, per poi arrivare al territorio, quello piemontese tanto ricco di tradizione gastronomica quanto restio alla sua modifica, alleggerendolo senza però metterlo in discussione.
È contento Matteo Baronetto, forse felice. Lo si capisce per quella sua vena ironica che si riscontra in diverse preparazioni. Ironica non perché irride ricette classiche codificate ed eseguite nella medesima maniera da secoli, ma perché riesce nell’intento di far sorridere il commensale ad ogni boccone. Riesce a creare un collegamento schietto e diretto con la ricetta di riferimento, migliorandola, rendendola indimenticabile, senza però mai umiliarla. Il piatto “acciughe affumicate al rosmarino e burro morbido al limone” è la dimostrazione di quanto appena raccontato, in cui la genialità di affumicare e aromatizzare gli elementi dà vita al più buon boccone di pane, burro e acciughe che si sia mai assaggiato, senza però far perdere la voglia, una volta rientrati a casa, di tornare a cenare con la ricetta classica. Sinonimo di grande educazione, che si accosta ad un occhio critico e vigile di rara finezza.

Il benvenuto offerto dalla cucina è un trionfo di frutta estiva, marinata, condita, farcita e glassata che fa il giro di tutti i gusti (dolce, amaro, acido, salato) in modo da preparare il palato alla degustazione. Ma è il cervello a subire continue scosse. L’insalata di fiori e germogli, con brodo caldo al sedano rapa, caviale e fragoline di bosco è un ideologico passo temporale all’indietro in cui l’anima viene contestualizzata al calore estivo che avvolge fiori ed erbe, ammosciandoli e facendoli appassire, rinvigoriti però dalla nota iodata del caviale che richiama il mare e le vacanze estive, e resi freschi dalla brezza montana delle fragoline di bosco. Piatto geniale, concettuale ed appagante.

Tutto il resto è un continuo gioco di consistenze, richiami attraverso ingredienti esotici a gusti tradizionali, illuminazioni classiche e qualche piccola provocazione volta a far riflettere e forse a soddisfare la vanità dello chef.
La valutazione, in questo caso arrotondata per difetto, complici anche i tre piatti ordinati alla carta di un livello lievemente inferiore rispetto al degustazione, vuole essere uno stimolo per lo chef ed un incentivo per tutti gli appassionati che ancora non hanno fatto visita alla sua corte, per poter ripetere la nostra esperienza, indubbiamente una delle più convincenti di questo anno solare.

I piatti classici avrebbero bisogno di maggiore “classicità” e forse una lettura meno ardita. Il servizio avrebbe bisogno di una marcia in più. Per il resto siamo veramente di fronte ad una delle tavoli migliori d’Italia.
Ma ricordatevi, date mano libera allo chef: questo percorso è sicuramente il più congeniale per approcciarsi qui al Cambio in maniera corretta, al cospetto di un grande interprete.

Frutta: Anguria marinata al Martini, lampone farcito con crema pasticcera alla curcuma, ciliegia farcita alle olive e finocchietto, pesca tabacchiera con alici, fico con basilico e colatura di alici. Inizio grandioso.
Frutta, Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
Insalata di fiori e germogli con brodo al sedano rapa, caviale e fragoline di bosco.
insalata di fiori, Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
Gamberi rossi con ceci, nocciole e cacao. Piatto con un forte riferimento al territorio. Boccone dopo boccone in bocca si crea una consistenza e un gioco di sapori che ricorda il gianduiotto. Ottimo.
Gamberi rossi con ceci, Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
Bisque 1970-2015.
Bisque, Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
Il piatto completato. Il mascarpone di capra, la menta e il frutto della passione vengono coperti da una bisque leggera, amalgamandosi e fondendosi con essa. Si beve direttamente dalla tazza. Il gusto dolce con fondo tostato della bisque si lega al mascarpone acido e vellutato e viene verticalizzato dal frutto della passione. Altro piatto da KO.
bisque con mascarpone di capra, Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
Baccalà, bagnetto rosso, foglie di capperi croccanti e tuorlo d’uovo. Spettacolare.
Baccalà, bagnato rosso, Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
Acciughe affumicate al rosmarino e burro morbido al limone.
acciughe affumicate, Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
Musetto di maiale, salsa verde essiccata, melassa di cipolle e chinotto. La salsa verde prende la consistenza e ricorda il tè matcha. Il chinotto si rivela un ospite molto gradito all’interno del piatto.
muretto di maiale, Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
Vitello tonnato. Piatto ordinato alla carta. Buono, nulla di più. Avremmo preferito una salsa forse meno atavica ma più lenta e arrotondante.
Vitello tonnato, Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
Ravioli di yogurt, fave bianche e tartufo liofilizzato. Unico primo piatto presentato durante la degustazione. Provocatorio, svolge il compito di ripulire il palato e prepararlo al resto del pranzo. Il sorbetto del 2020.
ravioli di yogurt, Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
Rognoni di coniglio al vapore, semi di coriandolo e lattuga bagnata al moscato d’asti. Forse il piatto della giornata. Rognone cotto alla perfezione, il coriandolo si sposa bene con la nota aromatica dolciastra della lattuga bagnata al moscato d’asti. Favoloso.
Rognoni di coniglio, Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
Branzino cotto in lattuga di mare, liquirizia e semi di finocchio. Materia prima strepitosa e rispettata religiosamente nella cottura. La laccatura alla liquirizia gioca in contrasto con la vena salata delle alghe.
Branzino cotto in lattuga di mare, Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
Agnolotti al sugo. Altro piatto ordinato alla carta, forse anche qui avrebbe giovato una salsa meno tirata e l’assenza del croccante, pleonastico.
agnolotti al sugo, Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
Vitello brasato al vino. La scaloppa di vitello è cruda, spruzzata con vino rosso, mentre la brunoise di sedano carota e cipolle viene posta a lato del piatto e tenuta croccante. Geniale.
vitello brasato, Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
La finanziera, anch’essa ordinata alla carta.
finanziera, Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
Bonet, caviale, cavolfiore e mais croccante.
bonet Caviale, Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
Un dettaglio della splendida sala.
Sala, Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
Ingresso della Farmacia, locale adiacente al ristorante dove è possibile acquistare leccornie dolci e salate da poter gustare a casa.
ingresso farmacia, Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
Alcuni dei dolci esposti nelle vetrine della Farmacia, locale posizionata accanto e degno di un passaggio.
dolci, Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
dolci, Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
dolci, Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
pasticcini, Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
pasticcini, Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino
pasticcini, Del Cambio, Chef Matteo Baronetto, Torino