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D’O

Da Davide Oldani la classicità non è mai stata così moderna

Anatra in due servizi. La parte del petto cotta a bassa temperatura e, quindi, leggermente arrostita e scaloppata. Sopra, una cialda croccante, tartufo nero pregiato di Norcia e Salsa Perigueux. A lato, filetto di petto marinato e la nota amara del Pak choi. A seguire il secondo servizio: la coscia brasata e sfilacciata, all’interno di una sfoglia di pane arrostita, sopra una polvere di limone nero. Ci siamo dilungati un po’ nella descrizione perché, pur essendo ancora all’inizio dell’anno, l’anatra presente nel nuovo menù del ristorante D’O si candida seriamente a essere uno dei nostri Piatti Top del 2024.

Magistrale per esecuzione e concentrazione gustativa, questo capolavoro di classicità – sia detto per inciso che pochi cuochi italiani hanno una conoscenza delle basi fondamentali classiche della cucina (che parlano francese, ça va sans dire) paragonabile a quella di Davide Oldani – proviene da un cuoco che oltre a essere stato uno degli allievi prediletti di Gualtiero Marchesi, si è formato nelle cucine di giganti quali Alain Ducasse e Michel Roux jr. E come lui, il bravissimo sous chef Alessandro Procopio che lo stesso Davide Oldani ha voluto maturasse a sua volta esperienze a Le Gavroche, al ristorante di Troisgros, a Roanne, e al Plaza Athenée di Ducasse, a Parigi.

Una cucina in grande equilibrio

Ma torniamo in Italia perché è giusto parlare anche di un Risotto meraviglioso che, sul piano estetico ma anche su quello più squisitamente tecnico, non sbaglieremmo a definire marchesiano per pulizia e purezza quasi sacrale degli ingredienti. Che qui è un solo ingrediente, la seppia, declinata in diversi modi: alla base del piatto una Royale di nero di seppia, all’interno seppioline scarpetta, sopra un disco di gelatina al nero di seppia e mantecatura con burro e purea di seppia. Un solo ingrediente a tutt sapidità, iodio, consistenze, armonia. E che dire della riproposizione di quel capolavoro dolce e salato che è la Cipolla caramellata nella versione “a portata di mano” scomposta, da mangiare all’orientale avvicinando il piatto al viso con una posata particolare, ideata dal Davide Oldani designer. Un grande menù, insomma, che è anche un ragionato crescendo in cui si raggiunge il corretto equilibrio dei contrasti tra dolce e salato, caldo e freddo, acido e grasso, morbido e croccante, e una grande cucina che guarda all’essenziale e in cui non c’è spazio per il superfluo o per “aggiunte decorative”, tale che anche il pane – Pane sfogliato e Fougasse strepitosi, sia chiaro – hanno un ruolo centrale al D’O.

La brigata, giovane e coesa, si armonizza con la sala, popolata di ragazzi bravissimi, intelligenti, garbati, sui quali vegliano fuoriclasse come Davide Novati e il premiatissimo sommelier Emanuele Pirovano. In sintesi un luogo, questo, nel quale si respira aria buona, un clima sereno, e non è scontato soprattutto a questi livelli.

IL PIATTO MIGLIORE: Anatra.

La Galleria Fotografica:

Vessillo zoomorfo di tutta l’alta cucina, specie di quella classica francese, la lepre è il grimaldello della consacrazione gastronomica di qualunque chef sin dai tempi di Archestrato da Gela che nella seconda metà del quarto secolo a.C. scriveva che: “Sono molti i  modi e i precetti per preparare una lepre, ma eccellente è mettere la lepre arrosto calda, condita di solo sale, in mezzo a commensali di buon appetito, con la carne ancora un po’ crudetta, strappata a forza (…).” Inopportune ed esagerate sarebbero tutte le altre preparazioni, sosteneva il poeta siceliota, sebbene in tanti, dopo di lui, l’avrebbero smentito.

Ecco le migliori versioni degli ultimi anni.

Nel ripieno delle paste

Massimiliano Alajmo, Le Calandre, Rubano (PD)

Presso uno dei migliori ristoranti d’Europa, paradiso non solo per gli appassionati ma anche per i profani, la lepre è, come tutto, del resto, uno dei motivi stagionali di Massimiliano Alajmo. Qui, la si ritrova ben avviluppata nel menù di novembre: autunnale per antonomasia.

Antonio Biafora, Hyle, San Giovanni in Fiore (CS)

Presso il piccolo gioiellino-giocattolo di Antonio Biafora, un ristorante bomboniera con poco più di una decina di coperti, lo chef si esprime in tutto il suo talento e la sua profondità, la stessa con cui ispezione il territorio, in una veste contemporanea. E l’obiettivo è ampiamente centrato e riuscito, con una cucina davvero sottile, elegante e moderna come questi agresti bottoni di lepre, borragine e succo d’albicocca: paradisiaci!

Cristophe Pelé, Le Clarence, Paris

Piccolo luogo di incanto, già sede di Château Haut-Brion, a Parigi, con una cave da fare invidia a molti. È qui che Cristophe svuota i frigo a ogni servizio, proponendo una cucina di totale e completa improvvisazione. Perché salse, fondi e tutte le basi dell’alta scuola classica francese sono preparate fresche ogni giorno, con un tocco impeccabile, partendo da quanto offre il mercato: in questo caso, solo il fondo della lepre a impreziosire un raviolo ripieno di funghi porcini su cui è assiso il fegato grasso d’oca. Chapeau!

Risotti

Davide Palluda, All’Enoteca, Canale

Da Davide Palluda il palato fa fatica a comprendere dove finisca la tradizione e inizi la modernità. I suoi sapori s’impongono alla coscienza perché importanti, decisi, centrali, complessi ma senza un ingrediente di troppo come nel riso, ginepro e lepre: un Carnaroli cotto in acqua, mantecato con burro, ginepro e aceto, servito al tavolo direttamente sul piatto dove è gia stato posizionato il ragù di lepre con un ristretto di barbabietola. Un piatto bellissimo, oltre che golosissimo.

Enrico Bartolini al Mudec, Milano

All’alba dei suoi quarant’anni, onusto di successi e riconoscimenti, Enrico Bartolini ha compiuto una scelta coraggiosa quanto inattesa: quella di reinterpretare i propri piatti più celebri, alla luce della contemporaneità. Kaiser Soze di questa rielaborazione, il riso e latte, dove alla salsa si melograno e al civet di lepre si aggiunge la pungenza del pepe verde, a rendere l’insieme incredibilmente multisfaccettato.

Tentazioni agresti: lepre e lumache

Giovanni, Restaurant Passerini, Paris

Giovanni Passerini, seppur quarantenne, è già un cuoco e un imprenditore maturo. Ha creato un luogo d’elezione, vicino alla Bastiglia, che è il regno dell’italianità più pura. Semplice, ma non per questo non ricercato, dove con puntiglio e maniacalità si ripropongono assiomi della cucina italiana, come questa insalata improvvisata di erbe aromatiche, lumache e cuore di lepre.

Massimo Bottura, Osteria Francescana, Modena

Un piatto che è in tutto e per tutto trompe-l’œil di un paesaggio, una suggestione, un ricordo, e che è vessillo di una maturità che corrisponde, nel caso di Massimo Bottura, all’interiorizzazione di una verità: quella di esistere nella relazione e nella comunione col mondo, di cui il piatto è tributo. Anche in questo caso lumache e lepre si uniscono, per dare vita a un paesaggio campestre.

Il famoso “civet” di lepre

Nicola Portinari, La Peca, Lonigo (VI) novembre e gennaio 2019

Era scontato che una preparazione tanto classica non poteva che trovarsi se non nella casa della grande, alta cucina del ristorante di “lusso”. Una caratteristica che, a La Peca, convive tuttavia con uno squisito senso di familiarità: la valorizzazione della “casa” e la capacità di far sentire qualunque cliente come avvolto in una nuvola di comfort. Il lusso spogliato della altezzosità e portato al livello della vera eleganza, come questo piatto, tanto elegante quanto succoso e disinvolto.

Cristophe Pelé, Le Clarence, Paris

Torniamo dunque a Le Clarence dove, nella stessa visita, Cristophe Pelé ha dedicato alla lepre alcune memorabili declinazioni, come in questa personalissima e affascinante preparazione, in cui gli sfilacci di lepre convivono con l’aragosta e con importanti lamelle di tartufo bianco. Una combinazione sublime, e nobilissima.

Tra Civet e Royale

Davide Oldani ne “Il Tinello”, Cornaredo (MI)

Non di rado, la grandeur sta nel mezzo e, in questo caso, nel punto di incontro tea il civet e la royale. E se il primo è un mla royale è, come vedremo, il punto più alto di realizzazione della lepre, in congiunzione con funghi, foie gras e tartufo nero pregiato: qui le due tecniche s’incontrano in una doppia declinazione, dove il colore è restituito nella sua più naturale essenza.

Christian Milone, Trattoria Zappatori, Pinerolo

La cucina di Christian Milone è dichiaratamente, profondamente legata alla terra; è una cucina dell’orto, di elementi vegetali, di sensazioni amare, acide, a volte terrose. Una cucina che, anche quando osa, mantiene una componente di concretezza e senso del gusto che non rende mai le preparazioni eteree o fini a sé stesse. Marcate note vegetali, freschezza, leggerezza, ma anche omaggi alla classicità d’Oltralpe nella sua lepre, a metà strada tra civet e royale visto che il fondo è tirato proprio con foie gras e tartufo nero.

À la royale

Cristophe Pelé, Le Clarence, Paris

Ancora una volta Pelé, dove la lepre alla royale acquisisce una piccola licenza sulla ricetta classica (1775), che qui vi riportiamo. La preparazione originale, a opera del cuoco di corte Marie-Antoine Carême, prevede una lepre disossata e marinata col Cognac. Per la farcia vengono usati i tartufi neri del Périgord, insieme ad altri funghi, come le trombette dei morti, il lardo tagliato sottile e a cubetti. Il fegato e il cuore vengono spadellati con burro e scalogno, e deglassati col Cognac per poi essere aggiunti alla farcia della lepre stessa. Completano il ripieno blocchi interi di foie gras  di anatra, distesi lungo l’intera superficie dell’animale. Con ago e spago la lepre viene chiusa e ricucita. Segue una marinatura nel vino insieme alle spezie, per circa 6 ore, fino al momento in cui viene infornata e cotta a temperatura molto bassa. Viene servita tiepida, cosparsa con il fondo di cottura ridotto della lepre, ottenuto dalla carcassa arrostita e deglassata più volte con il Porto. Ecco, non pago a tutto questo Pelé aggiunge, sulla sommità, un cubetto di anguilla caramellata.

Luigi Taglienti, Lume, Milano 

Da Luigi Taglienti la chiusura della parte salata del menu viene affidata a un’icona della cucina borghese transalpina, presentata in chiave moderna. La sua lièvre à la royale viene farcita con foie gras, tartufo, rognone e nappata con la sua salsa di cottura, legata fuori fuoco, e servita con patate noisette e uno spinacino di fiume.  Sontuosità ai massimi livelli.

Antonio Guida, Seta, Milano

Apparentemente semplice, direte voi, la strada verso la classicità. Niente di più falso, se è vero com’è vero ch’essa è lastricata di difficoltà, non ultimo il paragone indefesso coi giganti della cucina. Stavolta, tuttavia, la lièvre à la royale di Antonio Guida è ancora più intensa e vibrante, nonché vessillo di una cucinapiù gagnairiana che mai, con tanto di capriccio: la ruota di pasta di Gragnano, a indicare le origini dello chef.

Gian Piero Vivalda, Antica Corona Reale, Cervere (CN) coming soon

Una delle migliori royale dell’anno, qui veramente realizzato a regola d’arte. Equilibrio perfetto tra farcia e carne, salsa da manuale tirata col sangue, come vuole la tradizione, morbidezza e tenerezza filologicamente rispettate, ma con una turgidità delle carni che non ne smaterializza la consistenza, anche se la tradizione lo vorrebbe.

Eugenio Boer, Bu:r, Milano

Una cucina con una timbrica classica davvero importante, quella di Eugenio Boer, che corona in questa splendida royale di lepre, ingentilita e rinfrescata dalla provvidenziale riduzione di vino e di visciole. Un piatto in cui salse, fondi, riduzioni, concentrazioni e dove l’uso, imperioso, delle componenti lipidiche, corona un piatto dai sapori molto precisi e definiti.

Braci, salmì & co.

Massimiliano Poggi, Trebbo (BO)

Il goloso filetto di lepre al pepe verde rappresenta per Massimiliano Poggi l’occasione di una rivisitazione importante, nonché la realizzazione di una salsa che ci ha costretto alla scarpetta: una demi-glace molto persistente che strizza l’occhio alla scuola francese, a conferma di quanto le basi siano, qui, decisamente solide.

Gianluca Gorini, Da Gorini, San Piero in Bagno (FC)

Menzione d’onore per la lepre, mandarino, estratto di ginepro e timo cedrino di Gianluca Gorini: una materia prima quasi indescrivibile (la scioglievolezza di questa carne va toccata con mano per essere creduta) e una perizia nella gestione di equilibri gustativi (ematicità, balsamicità, acidità) e strutturali, da vero fuoriclasse.

Mauro Uliassi, Uliassi, Senigallia (AN)

La Lepre in salmì con croccante di carbonella (oliva nera marchigiana) sfoggia, oltre a una materia prima strepitosa, una maestria assoluta nella gestione degli equilibri interni, con una salsa di un’eleganza e di una leggerezza sopraffina, cui il tocco “marchigiano” conferisce vivacità texturale e gustativa. I piatti di cacciagione non fanno altro che confermare la grande mano di Mauro Uliassi anche su questo versante, dove le grandi preparazioni classiche diventano letture attualizzate e alleggerite, appropriate anche durante le torride estati marchigiane.

Trittici iberici

Mateu Casañas, Oriol Castro ed Eduard Xatruch, Disfrutar, Barcellona

In soli quattro anni questo ristorante si è imposto sulla scena gastronomica mondiale vantando uno dei pedigree più creativi. Disfrutar è un ristorante al contempo magico e informale, in cui rimanere semplicemente e felicemente estasiati a ogni assaggio, tra effetti speciali mai fini a se stessi, momenti divertenti ma anche didattici, che generano l’equazione perfetta della felicità.

E il trittico di lepre che segue ne è la dimostrazione:

 

L’evoluzione del D’O dal 2003 al 2020: dal pop al top

D’O. Da popolare a sostenibile. Da povera ad opulenta. Da tradizionale a classica. Il tutto, sempre, in ottica democratica.

Se dovessimo indicare una cucina che negli ultimi 5 anni ha saputo evolversi, oggettivamente, in maniera evidente, senza mai perdere o mutare la personalità che l’ha sempre contraddistinta, probabilmente la nostra scelta ricadrebbe su quella di Davide Oldani a Cornaredo, una ventina di minuti di macchina da Milano.

Non pensiamo che sia soltanto merito di una maggiore definizione della centralità gustativa dei piatti o dell’accattivante svolta di una materia prima più opulenta; piuttosto, ci sembra che accanto ad una linfa sempreverde che sgorga proprio nella vena creativa dell’ex Marchesi boy, mai così viva come oggi, si sia affermata la capacità di Oldani di fare squadra e di far crescere un paniere di talenti – come i suoi sous chef Alessandro Procopio e Wladimiro Nava in cucina e Davide Novati e Manuele Pirovano in sala, registi di un servizio che gira ormai ad altissimi livelli – che fanno brillare, oggi più che mai, il D’O e la stella del loro mentore.

Protagonista del piatto è sempre stata quella melodiosa trasversalità gustativa che potremmo metaforicamente assimilare all’orecchiabile ritornello di una canzone “pop” (guarda caso), caratteristica alla quale si è aggiunto, negli ultimi anni, un arrangiamento prettamente più rock. L’evoluzione della cucina di Oldani da trattoria gourmet a ristorante di alta cucina in veste (ancora) democratica, è un dato di fatto che si può osservare, in maniera tangibile, ripercorrendo l’evoluzione delle creazioni feticcio dello chef, come ad esempio l’emblematica cipolla caramellata, che se nella versione originaria privilegiava solo la rotondità rasentando non di rado la stucchevolezza assieme ad alcune imperfezioni delle consistenze, oggi si ritrova sapientemente trasformata in Grana Padano riserva caldo e freddo: cipolla caramellata, un antipasto al cucchiaio che privilegia una maggiore finezza, consistenze più interessanti e non ultimo preserva il gusto del piatto originale. Ancora, si può ricordare l’eccessivo rigore dell’essenzialità dell’offerta che, si limitava alla concretezza di ciò che il cliente ordinava senza focalizzarsi sulle “coccole” di contorno che spesso contribuiscono a rendere memorabile l’esperienza. Tutto ciò che sembrava mancare a questa tavola, infatti, oggi non solo c’è, ma spicca anche per accuratezza e pensiero.

Cucina, ambiente e dettagli dal forte tratto identitario

Quello che è sempre stato chiaro al D’O, è il pensiero e la filosofia del suo cuoco. Una lettera d’intenti che il cliente ha saputo cogliere e metabolizzare nel corso di quasi un ventennio. Le stoviglie, le sedute e il tavolo stesso sono un mirabile esempio di estetica e funzionalità applicata al pensiero pragmatico dello chef, che ha iniziato a conferire dettagli personalizzati al luogo da lui creato, e in tempi non sospetti. Filosofia che si riflette completamente anche sul cibo che arriva a tavola, dov’è sempre più evidente un accentramento verso la cucina classica, di stampo francese, che dalle salse ai fondi di cottura (a dire il vero qui sempre meravigliosi)  ripercorre la formazione di Oldani e i suoi trascorsi da Alain Ducasse e Michel Roux come un revival necessario. Ed è stata probabilmente questa svolta del suo ritorno al passato a regalargli le ultime meritate soddisfazioni dalla Francia.

Passando all’esperienza concreta, si comincia con l’aperitivo, presagio della piacevolezza complessiva che percorrerà tutto il pranzo: lo scenico olio al timo con cera d’api da spalmare sulla spugna con povere di aceto o la golosa oliva all’ascolana, finemente ricompattata ma dal gusto concentrato, degno della migliore espressione della tradizione marchigiana. Il carciofo ripieno è disarmante per la semplicità ma concentratissimo nel gusto, la scenografica campana in cui vengono cotte le ostriche precede un altro affascinante boccone, la pita soffice, yogurt, salsa tartara e la parte callosa del mollusco, servita cruda. Poi entra in scena il risotto (o “riso“, come ama chiamarlo lui) che spicca sempre per innovazione ed esecuzione:  mantecato al grana padano, zucca, ricotta infornata e amaretto sbriciolato è  sensazionale per il millimetrico equilibrio che trova, ciascun ingrediente, nell’ensemble del piatto. Seguono un concentrato di “cassoeula”, che ricorderemo per la sua lunghezza al palato e due grandi piatti di scuola transalpina.

In chiusura, un divertente gioco sui formaggi, una rivisitazione non scontata della Barbajada, con i frutti rossi che spezzano il legame con la tradizione, e un assaggio di PanD’O con canditi cedro, ciliegia e corniolo ed un intenso gelato alla vaniglia. Tutto è dosato con cura e intelligenza, perfino il pane (notevolissimo), i grissini e la piccola pasticceria.

Ultima, ma non meno importante, menzione per il servizio di sala che, senza troppe parole, possiamo definire all’altezza della cucina.

La Galleria Fotografica:

Quali sono i piatti che più ci sono mancati in questo 2020 appena trascorso? Eccovi una carrellata di piatti memorabili: bocconi che ci hanno fatto sobbalzare dalla sedia e che si sono impressi con così tanta efficacia, e altrettanta ferocia, nella nostra memoria, che ci è ancora possibile rievocarli, in attesa del tanto anelato bis.

Alberto Cauzzi

La lièvre à la royale, mio piatto feticcio, di Luigi Taglienti al Lume. Un piatto che, pur mantenendo legame e attinenza filologica con la trazione, si proietta nel futuro attraverso piccoli tocchi e dettagli che lo rendono raffinato e avanguardista.

Andrea Grignaffini

Mi manca la cucina di caccia che infiammava gli antichi inverni di Igles Corelli. Per un ritorno alla normalità, però, non vedo l’ora di gustarmi la super-classica Carbonara dell’Osteria Angelino di Milano.

Orazio Vagnozzi

Riso, pane e pepe nero con riduzione di Marsala, di Davide Oldani al D’O. Piatto goloso e raffinato, che interpreta in modo del tutto originale il piatto tipico della cucina lombarda, il risotto, usando ingredienti poveri. Il risultato è da leccarsi i baffi.

Alessandro Pellegri

Uno dei piatti di cui più sento la mancanza è Acqua Olio Limone Liquirizia, di Luigi Taglienti: questa entrée mi manca non come piatto a sé, ma in quanto costante preludio dei sublimi menù degustazione di Luigi Taglienti, sempre presente, negli anni, in tutti i ristoranti in cui ho avuto il piacere di provare la sua cucina. E non vedo davvero l’ora di tornare a farlo.

Davide Bertellini

Senza ombra di dubbio la lièvre à la royale dello chef Antonio Guida al Seta. Un piatto che ho assaggiato diverse volte, un confort food d’eccezione di cui ho sentito parecchio la mancanza… Fortunatamente presto colmerò il vuoto.

Erika Mantovan

Le Cicale di mare, tapioca e bergamotto di Enzo Di Pasquale  ad Aprudia. Un tuffo nel mare, il sale invade ogni cosa. Stuzzica, solleva, agisce: al palato c’è un velours che non lascia intravedere i confini, il piatto afferma quanto promette, arricchendosi di parti più acide e amare, grazie alle perle di tapioca.

Leila Salimbeni

Le capesante, il midollo e il brodo di fagioli di Matteo Baronetto, e l’abilità di utilizzare il veicolo lipidico del midollo come prisma per modulare almeno due tipi di sapidità: quella, umamica, del brodo di fagioli, e quell’altra, più dolce, della capasanta. Un piatto che è la conciliazione perfetta tra libido e intelletto.

Leonardo Casaleno

L’inimitabile vitello tonnato di Diego Rossi, da Trippa. Un vuoto quasi incolmabile nella normalità della vita milanese di un appassionato di cibo.

Giovanni Gagliardi

Dim Sum ripieni di coscia di piccione al brodo con thè nero e anice di Silvio Salmoiraghi, ovvero della concentrazione dei sapori. Ti resta a lungo in bocca e per sempre in mente. Entusiasmante. 

Claudio Persichella

Patate, caviale, dragoncello, burro affumicato, spinaci e coquillage del sommo Troisgros, ovvero quando artigianato e arte hanno confini che diventano sfumati e indistinguibili: sensibilità, raffinatezza e gusto sono legate in un ricordo che scatena, parimenti avvicendate, malinconia ed euforia.

Giacomo Bullo

Il cappuccino murrina del Gran Caffè Quadri degli Alajmo. Non ci stancheremo mai di questo piatto e di tutte le sue declinazioni, sempre centrate! Tuttavia la golosità di questa versione, in ogni boccone, è un caleidoscopico viaggio tra i sapori nella laguna veneziana. La cremosità della crema di patate unita alla sapida carnosità dei molluschi catapulta l’avventore nel più bel salotto del mondo: Piazza San Marco. Conturbante!

Gianpietro Miolato

Il mare di frutta all’arancia, a Le Calandre di Massimiliano Alajmo: l’Alajmo-pensiero fatto piatto, e, per di più, come antipasto. Gioco di contrasti tra consistenze e sapori, alternanza tra morbidezza e croccantezza, eleganti passaggi tra dolcezza e acidità, il tutto senza dimenticare pulizia e golosità in chiusura. Confortevole per chi ama la rotondità; ragionato per chi ama l’introspezione. In una parola: universale.

Adriana Blanc

L’entraña del The Brisket è un tenerissimo taglio di manzo, nello specifico Black Angus americano, allevato libero. Il morso sprigiona i succhi sapientemente conservati all’interno, rivelando un boccone particolarmente ferroso e saporito. Attenzione, però, alle controindicazioni, perché questo piatto dà dipendenza.

Silvia Izzi

La mano delicata e decisa di Davide Caranchini a Cernobbio nel piccione cotto in crosta di sale e fave di cacao in due servizi: un viaggio di andata verso Oriente, e ritorno, qui in un succulento petto di piccione con burro alle spugnole, biete scottate ed estratto di alloro. Il burro alle spugnole trova il suo contraltare nella nota amaricante dell’estratto di alloro. Una gioia per le papille gustative.

Francesco Zito

Il risotto alla pescatora di Antonio Zaccardi al Pashà di Conversano: un piatto classico della tradizione italiana reinterpretato in chiave contemporanea. Riporta alla mente gli anni Ottanta, è ricco e gustoso, richiama il mare del Sud e, in un certo senso, riporta alle feste di una volta, che tanto ci mancano. 

Carlo Nicolo

Insalata 21, 31, 41… 121 di Enrico Crippa al Piazza Duomo di Alba. Un piatto che nella sua apparente semplicità scatena reazioni sinaptiche complesse che attivano e stimolano tutti i sensi; un giardino lussureggiante, un dedalo di vegetali nel quale è un piacere perdersi  dolcemente. Capolavoro!

Antonio Sgobba

I ravioli di melanzana con ventricina e crema di olive Nolche di TrippaDiego Rossi è un bravissimo cuoco di cui tutti celebrano le capacità di valorizzare gli ingredienti poveri e il quinto quarto; tuttavia, ritengo che il meglio di sé lo dia coi vegetali. Infatti, a un’attenta selezione della materia prima affianca un’ottima tecnica con cui riesce ad esaltarne tutti i sapori. Questi ravioli dalla sfoglia sottilissima racchiudono un fondente di melanzana dolce e concentrato che trova nella salsa di olive il contrasto amaro. La ventricina dà la parte grassa al piatto e un piacevole finale piccante al boccone. Un piatto assaggiato a fine estate, fortemente evocativo di cui ho sentito la mancanza nelle fredde giornate di “forzata reclusione” autunnale.

Luca Nicoli

Il riso all’aglio nero di Riccardo Camanini. Forse anche per i ricordi legati al Lido 84, oltre che per la perfezione del piatto in sé: il riso contemporaneo per definizione. Eccellente anche quello con scampi olio di fragole e acqua di governo provato nell’ultimo menù: cremoso e perfettamente equilibrato nella sua dolcezza.

L’italianizzazione dello chef’s table 

Il tinello vanta, tra le sue accezioni semantiche, un impasto di frugalità e intimismo. E ciò è tanto più vero nel tinello di Davide Oldani che, all’uopo, su una fabula sweet ordisce un intreccio bitter & sour e crea un congegno così ben oliato da sembrare la sua diretta estensione.

La similitudine narrativa, del resto, non è casuale: perché ciascuno dei piatti di Davide Oldani costituisce il tassello (il testo) di cui si compone un menù – il Tinello – da leggersi come un ipertesto tanto è coerente da un punto di vista strutturale e formale. Un’opera la cui caratterizzazione autoriale è data dalla ritmica con cui si alternano, e compenetrano, riferimenti classici provenienti dalla sua solida esperienza professionale – la sua è una tecnica totale tanto da sembrare, in alcuni tratti, austera e anaffettiva – con altri attinti invece da una dimensione più domestica e personale fatta di concessioni al regno enciclopedico del comfort e, come tale, indulgente verso gusti che sono tanto levigati quanto rassicuranti e senza farsi mancare, per giunta, pure momenti dichiaratamente, felicemente ludici.

In questa alternanza tra registri risiede buona parte della grandezza dell’esperienza. In “a portata di mano” l’invito è quello di mordere l’intera struttura dopo averla afferrata con le mani; simile ma ancora più ascendente il climax del gambero rosa dorato al cucchiaio, che rappresenta anche il momento in cui realizziamo la presenza dell’ipertesto di cui si parlava dianzi, e che si manifesta grazie alla coerenza nell’uso del colore: una progressione cromatica ton sur ton, per la precisione, e per lo più incentrata sul timbro del colore naturale degli alimenti, prediletti nelle tonalità del nude. Il senso è quello di un profondo bon ton, che si manifesta anche nello spaghetto al cartoccio, ovvero coperto perché vestito di un etereo e svolazzante velo argenteo da lasciar svaporare sulla cremosissima base di cacio, pepe, limone e rafano e che ritroviamo anche nella serica e fondente mantecatura del riso con forma di quadrello, riduzione all’eucalipto e frutta secca.

Coi secondi, poi, si fa ritorno a una cucina d’impronta più tecnica dove cotture e guarnizioni sono sempre ragionate e precisissime, come nel caso del trancio di lucioperca gratinato, sedano rapa e litchi o nell’“a fuoco lento” di pesci e aglio invecchiato. Così, in una progressione che dal faceto è andata via via verso il serio, si chiude il cerchio con la grandeur del civet di lepre alla royale e col piccione al nero e salsa di tartufo nero pregiato: due piatti scuri, quasi impenetrabili, dove il colore è restituito nella sua più naturale essenza.

Sempre a proposito di tecnica, infine, impossibile tacere sull’esecuzione del soufflé alla granadilla, grappa, uva e anice: impeccabile.

La galleria fotografica: