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L’Ambroisie

Un’esperienza senza tempo seduti alla leggendaria tavola di Bernard Pacaud

Cerca il bel prodotto. Cucina senza problemi. Offri semplicemente il meglio“. È la “cucina di civiltà” di Bernard Pacaud, uno dei sommi cuochi francesi viventi, che paragona i suoi piatti nientemeno che all’ambrosia – da cui il nome del ristorante, L’Ambroisie – ovvero “il nettare degli Dei”. 

Un pensiero, una filosofia, un credo che riassume perfettamente quello che accade tra le mura di questo storico ed elegante tempio della ristorazione parigina, aperto nel cuore della labirintica Marais, sotto i portici di Place des Vosges nel 1986 proprio nel luogo in cui, un tempo, c’era la bottega di un orafo. Con il suo arredamento in stile settecentesco con arazzi di Aubusson, pavimenti in parquet originali e mobilio d’epoca, questo tempio della gastronomia offre qualcosa che non tutte le grandi tavole del mondo possono permettersi: un viaggio nel tempo.

A L’Ambroisie la semplicità del prodotto stagionale e la sua sublimazione sono il frutto del connubio sempre rinnovato tra ricerca dell’eccellenza e rispetto della tradizione. Un ristorante leggendario in cui si vive un’esperienza capace di emozionare anche il più navigato degli appassionati gastronomi, come dimostra il fatto che un importante critico gastronomico francese ha scritto che un pranzo a L’Ambroisie è una festa, intima e senza clamori, per gli occhi e per il palato, centrando in pieno la sensazione che si prova seduti a questa tavola e ad ogni singolo assaggio di questo cuoco discreto, ossessionato dalla perfezione.

Il ristorante, tuttavia, è stato spesso criticato per il servizio, considerato in alcune situazioni troppo distaccato e supponente, o poco attento verso i clienti, circostanza che, in un tre stelle parigino, è lecito non aspettarsi. E circostanza che durante il nostro pranzo, fortunatamente e puntualmente, non abbiamo riscontrato; anzi, possiamo ben dire che tutta la sala, dal maître al più giovane cameriere, ci ha accompagnato con modi di fare discreti e gentili, di estrema professionalità.  

La perfezione di piatti “datati” più che attuali

Ad ogni modo Bernard Pacaud lascia parlare i suoi piatti riuscendo a farsi perdonare anche madornali scelte poco eleganti, se non scorrette, allorquando, ad una settimana dalla prenotazione, riceviamo una mail che ci informa che il menu prenotato ad un prezzo “favorevole” per il pranzo non sarebbe stato più disponibile a seguito dell’apertura post-covid (per intenderci, alla carta si spendono dai 280 ai 400 euro per 3 piatti, mentre il menù déjeuner era prezzato 180 euro!). Peccato averlo saputo solo dopo aver prenotato tutto in funzione di quel pranzo, ma tant’è.

Ciò detto, tornado al cibo, c’è poco da dire, se non esaltare all’ennesima potenza la classe, la magnificenza e la straordinaria esecuzione dei piatti di Pacaud, da più di trent’anni sulla cresta – concreta – dell’onda. La scelta dei sui tre piatti leggendari (feuillantine al sesamo con scampi, spinaci e salsa al curry; le scaloppine di branzino selvaggio, lamelle sottilissime di carciofi e caviale e la torta al cacao amaro) è tassativa per chi volesse scolpire il parametro della perfezione sulla propria erudizione gastronomica.

Ogni ingrediente occupa un posto preciso e determinante all’interno del piatto. Il disco di sesamo croccante che nasconde gli scampi, meravigliosamente carnosi, seduti su un altro croccante di sesamo adagiato su un letto di spinaci, ha sapore leggermente amarognolo ma intensissimo. Il tutto a sovrastare il bagno dorato di una incredibile salsa al curry. Lucida, densa, elegante e raffinata, a legare insieme l’intero piatto. Ci sono sapori dolci, aciduli, perfetti. Il branzino è tenero, appena cotto dal vapore, che lascia la carne con una persistenza iodata che ti fa piacevolmente sprofondare nel mare. Stesso sussulto per i carciofi, meravigliosi per sapore, consistenza e marinatura e, ça va sans dire, per la generosa salsa al caviale, tutt’altro che pleonastico. Poi si chiude con la torta al cacao e gelato alla vaniglia: anch’essa capace di toglier il fiato per l’eterea consistenza e gli intensissimi sapori. Uno dei migliori dessert mai assaggiati in vita nostra.

Nonostante il figlio Mathieu abbia ormai da anni intrapreso una strada separata da quella del padre, ora ultrasettantenne, il perfezionismo di monsieur Bernard è sempre più vivo e riscontrabile, in maniera più che tangibile. Certo, l’homard e l’agnello rispetto al predetto trittico di capolavori sono soltanto eccellenti, quel tanto che basta per farti venire la voglia di tornare a provare altri piatti di stagione.

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L’alta cucina classica francese rifiorisce ad Ivrea

“Hai un nuovo messaggio Instagram da Giovanni Passerini”

“Alberto, ti scrivo per segnalarti un matto che ha lavorato da me per un anno e mezzo e che ora ha ripreso le cucine di un locale di Ivrea. È un fuori di testa che serve germano e lumache di mare in vineria, un ossessionato di tecnica francese. Non lo conosce nessuno e so che su queste cose tu ti esalti. Un abbraccio a presto!”

Già, Giovanni mi conosce bene. E per una volta abbandoniamo lo stile classico della recensione per introdurre un ragionamento che ci sta molto a cuore. Perché in questa semplice frase c’è la quintessenza della nostra professione, fatta di immensa, sconfinata passione. Passione nello scovare sempre una novità che stimoli noi e che stimoli il nostro lettore, fare chilometri per una liévre à la royale, per un timballo, per un nuovo piatto avanguardista; insomma, per scovare un talento che non si era ancora svelato.

Siamo noi che, mossi dalla passione, abbiamo la responsabilità di raccontare queste meravigliose storie e veicolarle affinché luoghi e persone vengano visti, visitati, celebrati. È il nostro compito, ancor più in momenti difficili, come questo. E dovremmo tornare a farlo con tanta intensità e frequenza ancor più a breve, perché ciò sarà il motore di una ripresa ci auguriamo essere rapinosa perché, ecco, questo settore non è solo la nostra passione ma, non dimentichiamolo, è anche una delle più importanti e straordinarie risorse di cui dispone il nostro Paese: il comparto agroalimentare e tutta la straordinaria filiera che vi ruota attorno.

Nel regno di Roberto Bordone e Alessandro Esposito

Eccoci quindi effettuare una prenotazione fulminea alle Cantine Morbelli e intraprendere un viaggio che, di questi tempi, tanto scontato non è. Arriviamo e subito rimaniamo colpiti dalla varietà di bottiglie e di produttori non scontati che scorgiamo sugli scaffali. Merito di Roberto Bordone, titolare di questa splendida realtà che, con grande passione e capacità, vi saprà regalare abbinamenti forieri del suo talento, della sua personalità e della sua sensibilità. È lui che ha preso in mano il tutto, 6 anni fa dalla famiglia Morbelli, lanciandosi letteralmente nell’ignoto.

Oltre che le sue grandi doti di sommelier e di wine-scout, Roberto ha anche il ruolo fondamentale di mecenate di Alessandro Esposito, giovane poco più che trentenne eporediese che ha trascorso qualche anno a Parigi facendo esperienze in cucina che lo hanno segnato indelebilmente. Da Christophe Pelé a Le Clarence, con il grande Giuliano Sperandio come co-partner in crime, ha attinto la grande passione per il classicismo francese rivisitato e una quasi-ossessione per l’abbinamento ittico-cacciagione. E poi il passaggio dalle cucine di quel cavallo di razza dal talento jazz e un filo punk di Giovanni Passerini, che gli ha consentito di approfondire ancor più l’irriverente manipolazione dei classici con un tocco di folle ma lucida, eretica pazzia.

Il risultato? Beh, pur nella sua verde e ancora lievemente acerba elaborazione, siamo al cospetto di una delle cucine più interessanti che abbiamo avuto modo di trovare in questo periodo girovagando l’Italia. Le ingenuità non mancano, la tecnica è ancora sporca, l’errore è dietro l’angolo, ma quanta personalità e quanta passione! E ancora quanto rigore, quanta voglia di crescere, migliorarsi, emergere! Un progetto ambizioso quello di Alessandro e Roberto, ambizioso e qualitativamente elevato, al pari del rispettivo talento.

La grande scuola francese al servizio di una cucina di mercato

L’intento qui è quello di portare una grande cucina di mercato tutti i giorni, frutto di improvvisazione e tecnica, tanta tecnica, contaminando i grandi classici con spunti creativi. Il legame tra il regno del mare e quello della caccia è una costante ereditata dall’esperienza a Le Clarence, la grande passione per la pasticceria classica e la voglia di cimentarsi con ricette tanto importanti quanto complicate completa il cerchio di questo luogo davvero magico.

E nel nostro pranzo un tripudio tra liévre à la Royale, tourte de pigeon, le turbot en vessie, mille feuilles e via di seguito, non disdegnando nemmeno un risotto e dei tortelli, anch’essi francesizzanti, forieri di storia, tecnica e un condensato di passione davvero elevatissimi.

Il giudizio, non ancora pieno, è prospetticamente e velocemente raggiungibile ma soprattutto è l’auspicio che qui si continui a fare questa rivoluzione lenta ma continua in una piazza tutt’altro che facile. E allora largo ai temerari di Cantina Morbelli, inondiamoli della nostra presenza!

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La riconferma di una tavola che riesce sempre a stupire

Il Miramonti l’Altro è, da anni, un avamposto saldo e rinomato per tutti i gourmet itineranti.

La classicità proposta all’ennesima potenza è un marchio di fabbrica che Philippe Léveillé, coadiuvato dall’imprescindibile apporto della sous-chef Arianna Gatti, non smette di perseguire con un’eleganza e una perizia tecnica semplicemente squisite. Dati i presupposti, poteva quindi sorgere una domanda: cosa aspettarsi ancora (e di più) da una cucina con un’impronta così ben delineata?

La riconferma, avremmo potuto pensare di prim’acchito, e in parte avremmo avuto ragione. Ma non totalmente perché fermandoci a questo assunto ci saremmo incamminati lungo il sentiero dell’ovvietà, mentre il Miramonti è riuscito a stupire sfornando un coup de théâtre che solo uno chef dal palato fine e intelligente come quello del bretone Philippe poteva garantire. Sì, perché nella nostra visita abbiamo (ri)provato il piacere della riconferma filtrato attraverso il registro della rivisitazione.

Nella prima parte del percorso siamo infatti rimasti sorpresi e compiaciuti nel saggiare una cucina fondata su portate aventi una freschezza e una pulizia semplicemente irresistibili. E a ciò si è unita una predisposizione a un aspetto ludico delle preparazioni, un camouflage estetico, che ha svelato una natura della proposta lieve e scherzosa, atta a coinvolgere attivamente la vista. Non a caso il menù si chiama “Sapori e colori”.

 Un menù diviso tra freschezza e robustezza, in perfetto equilibrio

In tema di “freschezza ludica” abbiamo cominciato con un ottimo Volevo essere un pomodoro, dalla matrice estetica di vesuviana memoria, con all’interno una squisita rotondità di tartare di gambero rosso ed emulsione di burrata, smorzata in chiusura da un gazpacho in guarnizione e un sorbetto al basilico d’accompagnamento.

Secondo step con le alici nel giardino delle meraviglie, rivisitazione culinaria del classico di Lewis Carroll, splendido quadro composto da verdure marinate e farcite con maionese ai funghi e alle acciughe e salsa verde. A chiudere e donare lunghezza, un nuovo sorbetto, stavolta di Bloody Mary.

Cetriolo, ostrica e lime si è rivelato un altro piatto completo sotto tutti i punti di vista grazie al contrasto di consistenza tra il vegetale e il mollusco, a cui poi si è aggiunto un ottovolante di rimbalzi tra lo iodato dell’ostrica, l’acidità della marinatura in miele e aceto del cetriolo e la spuma di acqua di ostriche e lime, a garantire struttura all’insieme. La nota alcolica del mini Moscow Mule ha completato il quadro.

Se la prima parte del menù ha stupito per pulizia e inventiva, nella seconda il registro ha dato vita a una proposta caratterizzata da struttura e rotondità.

Intorno al coniglio ne è stato un esordio fulminante: un wafer croccante ha accolto la pancia e le interiora fredde del leporide con puntarelle e fiori eduli a chiudere il cerchio. Morbidezza delle carni, persistenza delle frattaglie, amaricante della parte vegetale e croccantezza del wafer hanno costruito una portata di un equilibrio disarmante.

Ma era solo il preludio di quello che è stato il miglior piatto del servizio: animella come un capretto al coccio. Portata semplicemente magnifica, emblema delle competenze tecnico-concettuali del suo ideatore e dello staff che lo aiuta. La ghiandola, scottata e lasciata riposare una notte nel latte, è stata terminata in padella con burro e fondo di capretto: il risultato? Uno splendido gioco di consistenze delle carni tra croccantezza esterna e morbidezza interna, a cui ha fatto seguito una lunghezza dai toni affumicati semplicemente micidiale. Piatto elegante, preciso e indimenticabile.

Un plauso, quindi, a quest’ottima tavola, al suo chef e al giovane staff, perfettamente sincronizzati nel regalare al commensale un’esperienza davvero emozionante. Chapeau!

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Un cuoco tristellato ha lasciato i fasti delle cucine più blasonate di Francia per aprire il suo bistrot

Chi ha detto che meno si fa e meno si vorrebbe fare? Christophe Saintagne è la personificazione del relativismo della cultura popolare. Alla corte di Monsieur Ducasse (dal 1999 al 2016) lo chef normanno sembra aver sviluppato un approccio scientifico all’arte della semplificazione. Pregio e limite allo stesso tempo di un locale, il Papillon di cui è chef patron, dai tratti tecno-eleganti ben delineati, che mostrano il fianco solo quando le emozioni cercano un rifugio sicuro.

A Parigi, tra l’XIII e il XVII arrondissement, il rigore di un tre stelle Michelin si mostra attraverso le vetrate che lasciano intravvedere i profili dorati dei tavolini ravvicinati e le sedie di legno. Il neo bistrot di Saintagne non lascia spazio a interpretazioni. Il talento eleva a scelta valoriale la comodità estetica dell’arredamento del locale, affiancato a una cucina tagliente come la lama di un rasoio, diretta come un insulto e ricca, palatalmente parlando, come le tasche di un milionario.

Cultura mediterranea e tecnica francese con la miglior materia prima

Il servizio squisitamente francese, parsimonioso nei sorrisi e molto professionale nella sua informalità, accompagna l’evoluzione di una degustazione che abbraccia la cultura mediterranea, a cavallo tra Europa e Nord Africa. Date le indubbie qualità tecniche maturate negli anni di gavetta dorata, Saintagne firma il suo menu attraverso la selezione del prodotto, raggiungendo vette in materia che superano la comune comprensione. Gli asparagi crudi, la rucola e soprattutto lo scalogno servito con l’insalata dettano nuovi parametri di valutazione in grado di rappresentare non solo il centro della composizione del menù, ma addirittura di fare ricordare lo stesso per la sua violenza gustativa e non per la tecnica, ineccepibile, espressa dalla brigata di Saintagne. Tecnica millimetrica, forse troppo, che anche a causa di una deformazione culturale italiana (la nostra), stempera il carattere dei piatti, che invece per concezione e risultato ambirebbero a una maggiore libertà, a una anarchia tecnica controllata e non a un controllo tecnico sul loro spirito anarchico. L’irruenza dei sapori è tale da lasciare immaginare che ogni giorno, a ogni servizio, al Papillon si possa trovare uno spunto nuovo, una sfumatura diversa, un’idea intrigante. Il “fattore ritorno” diventa dunque un tema da considerare nella valutazione di questo locale che si identifica nel continuo cambiamento, tanto da renderlo uno dei punti di forza che ne determina il successo.

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Maison Blanc, una cucina da Highlander nella campagna di Bresse

“Who wants to live forever?”
Pensando all’esperienza ‘Chez’ Blanc, in testa risuona la voce di Freddie Mercury dei Queen, mentre intona la colonna sonora del film “Highlander”.
Sì, perché nel fascinoso e pittoresco villaggio di Vonnas, in Francia, si celebra una cucina immortale. Scolpita nei gesti e nella storia in divenire di questa magica Maison.
Lui, Georges Blanc, è ancora lì. Con spirito immutabile, come la bontà dei suoi piatti.
Chef icona di una dinastia di grandi cuochi. Sguardo luminoso, chioma argentea e tempra d’acciaio, mentre a 75 anni si aggira pacioso per la sala.

150 anni di storia, tra successi, mutamenti e quattro generazioni di cuochi

Un percorso da predestinato il suo, che lo ha visto muoversi con agilità dai fornelli delle navi militari (durante la leva), fino a prendere in mano con classe indiscussa l’eredità culinaria di mamma Paulette e della nonna Élisa Gervais. Lei, la “Mère Blanc”, che assicurò le 2 stelle Michelin al ristorante di famiglia, già negli anni ’30.
Questione di DNA? Poco importa, perché, dopo aver fatto il suo ingresso in cucina (a soli 25 anni), il prode Georges comincia a rimaneggiare e alleggerire con rispetto i ‘cavalli di battaglia’ e le ricette di famiglia. Tesori culinari tramandati dal 1868. Un nuovo stile dunque si afferma: riconoscibile e affinato nella forma e nel gusto. Evoluzione sussurrata con intelligenza, che lo porta negli anni a segnare un’epoca: elevando Vonnas a imprescindibile meta gourmet. Identità propagata con ardore verso la conquista delle 3 stelle Michelin (dal 1981 a oggi) e nell’Olimpo dei ‘Mostri Sacri’ di Francia. Cuochi del calibro di Bocuse, Robuchon, Loiseau, Chapel e Guérard.
Non solo, il suo piccolo villaggio nel cuore della Bresse ha visto sorgere nel tempo nuove strutture e progetti: hotel, cinema, parchi, resort, un’azienda vinicola. Oltre al bistrot ‘Ancienne Auberge’, che sforna piatti in omaggio alla formidabile nonna. Una storia troppo densa e romantica, per essere riassunta in singoli assaggi. Ma che trova comunque nei piatti una corrispondenza energica, piena e vitale.

Attualità classica, dal valore inestimabile

Oggi ai fuochi troviamo Frédéric Blanc, figlio di Georges, ma il valore immutabile di questa cucina non è stato compromesso. Al contrario, è un immenso piacere perdersi tra sapori vellutati, evocativi e confortanti, che riescono a far primeggiare un gusto attuale. Grazie alla padronanza impareggiabile di salse e cotture classiche declinate al moderno. Alla ricerca di materie prime eccezionali. Una tavola senza tempo insomma, che detta ancora il tempo.
Così, dal boccone ghiotto, profondo e iodato dell’Ostrica in gelatina della sua acqua e caviale; si passa in eleganza alle impeccabili Rane con carciofi, rinvigorite dall’acidità di una salsa all’acetosa dalla struttura esaltante. La possanza materica del Rombo in salsa di molluschi, trova dinamicità e freschezza nel tocco sensibile del finocchio all’anice e dello zafferano gestiti al millimetro. L’Animella al burro affumicato con salsa di cipolle e “corona” di patate soufflées è un limpido trattato di succulenza e finezza.

E poi c’è lei, la Poularde de Bresse AOP, che da sola varrebbe il viaggio. Perfetta nella sua opulenza leggiadra e soave. Manifesto della cucina di Blanc, rimarca come la storia di questa tavola abbia un significato inestimabile. Vigore tradizionale elevato alla massima potenza, trasmesso al palato con orgoglio e solidità spiazzanti. Un’esperienza da vivere e contemplare così com’è, senza interpretazioni nostalgiche.
Sorprende infine la pasticceria: incredibilmente tecnica, lieve e dai pulsanti contrasti moderni. Il servizio sfreccia a ritmi da record, narrando una cantina di rara foggia e recapitando in tavola pani e burro da assuefazione.
Forse Georges Blanc non vivrà per sempre come un Highlander.
Ma la sua cucina sì, continua a vivere. Ancora vibrante, autentica e immortale.