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Cracco

Ritorno al futuro

Da un ascensore ad un altro. Il primo si addentrava in uno scantinato, l’altro, quello attuale, ascende a una cornice meravigliosa, nel cuore della Galleria Vittorio Emanuele II, dove ha trovato odierna collocazione il ristorante di Carlo Cracco. Il cuoco vicentino si divide tra format televisivi divertenti e la cucina del suo ristorante che continua sorprendentemente, nonostante l’inversione motoria dell’ascensore, ad essere uno dei più innovativi e audaci del panorama italiano. Del resto dietro ai fornelli c’è Luca Sacchi, executive chef di indiscutibile caratura tecnica, diventato con gli anni – prima sotto Baronetto e oggi direttamente con Cracco – la trasposizione attuale del suo mentore. Tutto quello che si faceva da Cracco vent’anni fa – e che pochissimi in Italia erano capaci di replicare – si fa oggi in Galleria.

Una cucina di innegabile maturità espressiva, consapevole dei propri mezzi e del proprio passato. Idee chiare e scelte mirate anche in ottica di sostenibilità che vanno incontro ai tempi duri che corrono. Nel panta rei della ristorazione, l’eccellenza e l’attualità di questa tavola rischiano quasi di passare inosservati tra diversivi mediatici, attacchi gratuiti e una miriade di nuove aperture; bastano però biglietti da visita come l’Insalata russa caramellata o il famoso Tuorlo d’uovo marinato – oggi servito come un irresistibile burro – a far riaffiorare rosei ricordi di una cucina che, tanti anni fa, era uno dei fiori all’occhiello dell’avvenire gastronomico italiano e che ancora oggi è in grande spolvero e sembra essere tornata ai fasti del passato.

Un ristorante in forma smagliante

In verità, escluso l’inevitabile periodo del complesso rodaggio, il livello di creatività di questa tavola è sempre stato costante. Lo dimostrano piatti come l’ormai classico – ma già migliorato – Salmerino in crosta, di elegante voluttuosità, o la nuova Sogliola “alla cacciatora” in crepinette con una straordinaria quenelle di ketchup ai funghi porcini a latere, capaci, insieme alle spiccate note acetiche e quelle abbrustolite del peperone, di regalare sprazzi di alta cucina mista a sapori della grande trattoria, che rappresentano creazioni complesse ma con tanta profondità gustativa e dimostrano come i dogmi della cucina classica possano essere rispettati anche sostituendo gli ingredienti insostituibili nell’immaginario collettivo. Lo Spaghettino ai ricci di mare, dragoncello e cocco è un altro piatto dal virtuoso equilibrio di sapori, dove l’echino, ingrediente feticcio di Cracco, funge da collettore iodato di note lattico-vegetali ed erbacee aromatiche. Imperioso anche il doppio servizio del coniglio, con la Sella con salsa di frutta secca e cacao che esteticamente ricorda una “royale” ma in verità presenta un gusto italianissimo e la Coscia fondente in cappuccino di lumachine di mare, polenta bianca e midollo, per un finale quasi dolciastro. A chiudere il pasto un’altra creazione iconica ma attualissima nell’articolato registro di sapori: Crocchetta di gianduja, crema di chinotti al maraschino e caviale, un dessert-non-dessert che non vede nè vincitori nè vinti nell’affascinante confine tra dolce e salato.

Il servizio di sala, guidato dal bravo Gianluca Sanso, con una predominante quota rosa, trasuda apprezzabile entusiasmo. Finanche la monumentale carta dei vini che è notoriamente enciclopedica e profonda, oltre che proibitiva, può riservare sorprese inaspettate, così come inaspettatamente piacevoli si sono rivelati alcuni abbinamenti tra il cibo e bevande, non solo alcoliche.

Bisogna tornarci oggi da Cracco, per riprendere il filo di un discorso interessantissimo sulla cucina moderna e d’autore, perso con il passare del tempo e la troppa luce mediatica che si è abbattuta su uno dei più grandi cuochi italiani del nostro tempo. Come vent’anni fa, ancora oggi, vi potrete sorprendere ed emozionare. 

IL PIATTO MIGLIORE: Sogliola alla cacciatora.

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La giusta ribalta per un talento e un territorio

Le ambasciate aperte dei grandi cuochi in luoghi altri rispetto alla “casa madre” vengono spesso percepite dall’appassionato come cloni sbiaditi – e vocati alla serialità – di un pensiero gastronomico spesso ben più complesso (con meravigliose eccezioni, chiaramente). Nel caso del ristorante aperto da Carlo Cracco a Portofino, la scelta è stata coraggiosa: si è deciso di concedere fiducia e libertà a un giovane, Mattia Pecis, sì da consentirgli di proporre la propria idea di cucina, esponendosi in prima persona (l’ennesima riprova delle doti da pigmalione del “cuoco di Creazzo”).

Il compito di nobilitare – in termini di rappresentazione – la cucina ligure è stato curiosamente affidato a un ragazzo nato in Val Seriana: un occhio alieno che – è lampante – si è innamorato di un territorio e sta lavorando con contagioso entusiasmo per condividere la propria meraviglia (forse è proprio questo approccio felicemente distante, candido, a restituire una visione così nitida). Nell’approccio al contesto, si percepisce il lascito del periodo trascorso al St. Hubertus (e la vocazione universale e non solo montana del Cook the mountain): lo strettissimo legame con i produttori della zona – ciascuno valorizzato e personificato nel menù – e il fascino della memoria gustativa del popolo ligure (prebuggiun, presciseua, cappon magro, focaccia, pansoti, …). In fin dei conti, concetti già sentiti ed “esauriti”? No, semmai abusati: in quest’ambito, il discrimine tra narrazione e autenticità è netto, decisivo, tant’è che non è ardito affermare che siamo dinanzi a una delle più convincenti interpretazioni della Liguria partorite da una cucina autoriale in tempi recenti (gli ultimi esempi illuminanti – passaggi episodici inseriti in percorsi meno “tematici” – recavano la firma di un figlio di questa regione, Luigi Taglienti).

Ciononostante, si riconosce immediatamente il forte legame intercorrente con la sede milanese, sintetizzabile in termini di stile ed identità: una cucina didascalica – l’alta cucina come ambasciatrice di una cultura gastronomica (fondamentale per la clientela internazionale di Milano e Portofino) – e, nel contempo, un lavoro sulle sfumature capace di intrigare anche il gourmet più esigente: come in un quadro di Hieronymus Bosch, vi è una narrazione principale composta da infinite vicende periferiche.

Un percorso fatto di territorio, materia e personalità

I benvenuti, come di rado accade, sono precisi nel sintetizzare l’identità del ristorante, nell’anticipare i tratti salienti del percorso: ci sono il mare ed il lavoro sulla maturazione del pesce – Orzo fermentato e speck di mare -, la materia nella sua immediatezza – Tartelletta di zucchina, cetriolo e prescinsêua -, il legame con la casamadre – l’Insalata russa “Portofino”: l’interpretazione di un’icona, incisiva l’aggiunta delle note agrumate e aromatiche – e la tradizione locale, rappresentata dal corzetto di tuorlo d’uovo marinato, pinoli e maggiorana (bella la citazione dell’uovo marinato, omaggio a Carlo Cracco).

In alcuni passaggi, colpisce la capacità di Mattia Pecis di dar vita a piatti incisivi, dall’identità chiara, chiusi con notevole precisione: su tutti, Crostatina di alici, bieta, cipolla caramellata, pinoli e olive – un intreccio equilibratissimo tra iodio, amarotico, dolcezza ed acidità, oltre ad un bel morso – e Fusillone con estratto di ragù di tonno, velo di siero di parmigiano e profumi locali, un piatto in cui le cucine regionali si confondono felicemente, il chiaro esempio di come la componente didascalica di cui si diceva non significhi necessariamente semplificazione bensì chiarezza espressiva, intelligibilità (una portata che consentirebbe ad un cliente straniero di comprendere molto della nostra cucina, al di là degli stereotipi: la regionalità, la pasta – cottura e qualità ineccepibili -, il condimento alla bolognese, l’utilizzo delle parti povere della materia…).

La precoce maturità del cuoco emerge, poi, nei passaggi in cui vengono impiegate tecniche contemporanee – anche di tendenza (spesso un pericolo, il prodromo all’omologazione) – come la brace e la maturazione del pesce, qui non estremizzata bensì concepita come strumento al servizio dell’identità della cucina e della migliore valorizzazione dell’ingrediente: Collare di tonno alla brace, erbe selvatiche e morchella ripiena ne è l’esempio lampante, un assaggio che colpisce per l’eleganza e la pulizia (il collare spesso ha note forti, simili a quelle della ventresca, qui smussate dalla maturazione e dall’abbinamento vegetale). Nella stessa direzione, Anguria in conserva come un peperone, capperi, olive, mandorla e basilico: l’anguria che si fa peperone è una tecnica già sperimentata, ma maneggiata con intelligenza, non solo per stupire bensì per dipingere i profumi e i sapori della macchia ligure. 

Al termine del pranzo, la sensazione che rimane è quella di essersi imbattuti in un cuoco di talento non comune, il cui percorso alla ricerca di un linguaggio sempre più personale potrebbe regalarci grandi soddisfazioni.

IL PIATTO MIGLIORE: Fusillone con estratto di ragù di tonno, velo di siero di parmigiano e profumi locali.

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Carlo Cracco e Luca Sacchi: l’indissolubile legame tra passato e presente

Nel 2007, Bob Noto e Alessandra Meldolesi davano alle stampe un meraviglioso libro dal titolo “Autoritratto della cucina italiana d’avanguardia” – introvabile, qualcuno si prenda la briga di dedicargli una ristampa (!) -, un movimento in cui venivano ricomprese le figure di sei cuochi: Lopriore e Crippa – allora indicati come giovani promesse – nonché  Bottura, Cedroni, Scabin e Cracco, già riconosciuti a livello internazionale (affascinante pensare alla diversità dei successivi percorsi). Il cuciniere di Creazzo era stato peraltro il primo italiano a venire invitato a Madrid Fusión – il capostipite dei congressi gastronomici internazionali – nella seconda edizione, quella del 2004 (insieme a talenti rampanti come Blumenthal e Aduriz oltreché mostri sacri quali Marchesi, Senderens e Arzak).

Questa premessa – che non vuole essere una agiografia – è indispensabile per comprendere il Cracco di oggi ed anche per rammentare il ruolo focale che lo stesso ha svolto nella cucina italiana degli ultimi vent’anni, percezione spesso compromessa e falsata dalla memoria a breve termine. L’abbandono della storica sede di via Victor Hugo in favore della galleria Vittorio Emanuele aveva fatto presagire – anche a chi scrive – una transizione verso una cucina meno autoriale, più incline a soddisfare una clientela internazionale, magari autoreferenziale (i piatti iconici a disposizione sarebbero stati sufficienti per poter vivere di rendita). Il pranzo qui descritto ha invece dimostrato il contrario e messo in mostra un cuoco che ha uno stile consolidato (ancora, l’avanguardia che si trasforma in stile) – rinvigorito dall’apporto di un giovane talentuoso come Luca Sacchi, a cui viene lasciato ampio spazio per brillare – e un’offerta gastronomica che si risolve in una celebrazione sobria e sottile dell’italianità, scevra da scorciatoie, una cucina dotta che richiama alla mente le radici marchesiane e le affinità elettive con colleghi che hanno condiviso la stessa scuola (Riccardo Camanini e il Lido 84, su tutti). Sacchi esprime un’italianità declinata a tutto tondo, dalla calda accoglienza – capace di consentire un approccio disinvolto e privo di soggezione ad un luogo di rara bellezza e importanza -, alla densa ricorrenza di ingredienti del territorio (valorizzati in concreto anziché trasformati in appigli per facili narrazioni) e di riferimenti alle nostre radici gastronomiche.

L’abbattimento dei confini del gusto in corsi e ricorsi storici

Il filo conduttore del menù, di Cracco e Sacchi, che abbiamo degustato può essere rintracciato in un originale ed affascinante utilizzo delle note dolci, distribuite su tutto il percorso, una cucina androgina in cui il confine tra le diverse aree del gusto si dissolve. Una voce nuova, il naturale compimento di un percorso in cui i migliori cuochi nostrani avevano posto la loro attenzione sulle acidità, prima, e, più di recente, sui diversi gradienti dell’amaro. In questo senso, è esemplare Mari e montigambero d’acqua dolce (qualità sublime), bisque e fungo cardoncello -, in cui la dolcezza del crostaceo si combina con una trama sapido-agrumata e le note di terra del fungo, per culminare in un sussurro amaro, elegantissimo. In Sogliola al gratin, cavolo nero, ceci e vongole veraci, il pesce – quasi neutro – fa da supporto (anche in termini di morso) alla sapidità iodata delle vongole ed ai sentori, anche qui di terra, del cavolo nero e dei ceci, mentre la nota di dolcezza è conferita dal soffritto (la carota).

Un passaggio di infinita classe è, poi, Coniglio al mascarpone, spinacino e mele, perfettamente descritto da Leila Salimbeni (che l’aveva indicato quale piatto dell’anno) come “manifesto dell’italianità più colta e più elegante a tavola, anche quando si serve degli ingredienti più agresti e frugali, serviti in una maniera quasi monastica”. Ad un tratto ci viene però ricordato che la centralità del gusto nella sua interezza, senza “frazionamenti”, appartiene alla nostra cultura, rievocata dal Timballo – uno scrigno di pasta ripieno di rognone, maccheroncini, prosciutto affumicato, uovo di quaglia, crema pasticcera allo zafferano e cannella -, piatto che simboleggia altresì le innumerevoli influenze che hanno inciso sulla nostra memoria gustativa. La parte finale è coerente con il resto del percorso, come dimostra Gorgonzola dolce, pera e mostarda, un omaggio alle tradizioni lombarde e, nel contempo, un piatto difficilmente collocabile nei rigidi schemi in cui il gusto viene spesso imbrigliato. Una volta terminato il pranzo, viene naturale porre l’attenzione sull’esordio, l’iconica Insalata russa caramellata e ci si rende conto di come sia meravigliosamente coerente l’intero menù, quasi a dimostrarci come l’oggi non sia altro che l’ultima manifestazione di intuizioni risalenti a più di quindici anni fa.

IL PIATTO MIGLIORE: Mari e monti – gambero d’acqua dolce, bisque e fungo cardoncello.

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Chiudiamo l’anno con una carrellata di piatti memorabili. Non stupitevi se alcuni di questi piatti saranno solo frugali, altri regali, alcuni cerebrali, altri solo rassicuranti. Come ogni scelta, anche questa parla più di chi l’ha compiuta che dell’oggetto scelto. Al lettore lasciamo pertanto il compito di sbizzarrirsi con le più disparate supposizioni circa lo stato in cui versa non solo la cucina ma anche la critica contemporanea che noi, di Passione Gourmet, pretendiamo, e piuttosto orgogliosamente, lo ammettiamo, di rappresentare.

Leonardo Casaleno e la Pasta al tonno di Mauro Uliassi

In perfetto e affascinante equilibrio tra tradizione e tradimento, Uliassi rievoca uno dei piatti di pasta più banali e amati, reinterpretato con espedienti tecnici che rendono ogni forchettata un lampo di golosità ed eleganza. La mantecatura degli spaghetti viene fatta in un brodo di katsuobushi di tonno, poi un “dado” ghiacciato di sugo tradizionale di tonno, aglio, olio, peperoncino, capperi e prezzemolo viene grattugiato sulla pasta come una bottarga, insieme ad un trittico di ingredienti essiccati: uvetta sultanina, olive verdi, cucunci e capperi essiccati.

Alberto Cauzzi e il Broccolo e anice di Niko Romito

L’approccio al mondo vegetale, e conseguentemente sostenibile, è la nuova moda del decennio. Sembra che ormai non si possa parlare d’altro, della sostenibilità, della sconvenienza della proteina animale o ittica che sia, tanto che molti cuochi affrontano questo tema proprio perché attuale; perché la gente e tutto il movimento della comunicazione enogastronomica spinge in tal senso. E sebbene ci sia chi utilizza questo veicolo come semplice pretesto, c’è anche chi ne fa un punto di partenza: una leva per esplorare in maniera ancora più pervasiva e intensa il proprio talento e la propria ideologia di cucina, come Niko Romito. Non è un mistero, a questo proposito, che lo Chef del Reale affronti l’ingrediente da un punto di vista risolutamente inedito e personale. Da tempo immemore la sua concentrazione, la sua capacità di sviscerare tutte le peculiarità e le spigolature della materia, è il paradigma del suo stile culinario. Pensiamo all’Assoluto di cipolla, al Carciofo, alla Melanzana. Pensiamo alle laccature, alle concentrazioni di fondi vegetali, a lavorazioni che sono in pista, per il cuoco abruzzese, da molto più di un decennio. Questo piatto, in particolare, è l’elevazione di tutti gli studi compiuti sino ad ora, un binomio intenso e persistente quanto povero ed elementare. Cosa si può ottenere con una foglia di broccolo e anice? Una meraviglia!

Antonio Sgobba e le Lumache, peperone friggitello, origano, erbe soffiate di Mauro Uliassi

Lumache e friggitello un abbinamento azzeccatissimo di quel genio di Mauro Uliassi, un piatto giocato sui toni aciduli del vegetale che tiene a bada la terrosità della lumaca e al tempo stesso ne valorizza il sapore, senza ricorrere a un eccessivo aiuto dei grassi. Il sentore di origano e la consistenza delle verdure soffiate completano la sensazione di piacevolezza. Un piatto da applausi a scena aperta.

Orazio Vagnozzi e il Risotto al gorgonzola, ostriche e liquirizia di mare di Riccardo Monco alll’Enoteca Pinchiorri

Sobrio nella presentazione, concentrato ed equilibrato nel gusto. Squisito!

Fiorello Bianchi e la Verza, verza, verza di Michele Valotti a La Madia

Verza cotta nel grasso di pollo, emulsione, shiro koji e shiro miso sempre di verza con whisky torbato e burro affumicato, cavolo cappuccio fermentato per un piatto davvero emozionante per la complessità, originalità e intensità di gusto.

Giovanni Gagliardi e l’Indivia belga di Gaia Giordano da Spazio Milano

Indivia belga, mandarino tardivo e arachidi:  piatto di cottura impeccabile, in cui a rubare la scena è una crema di arachidi di eccellente equilibrio, accompagnata dal contrappunto agrumato del mandarino. Piatto superlativo che conferma la mano eccelsa della Chef nel trattare gli ingredienti di origine vegetale.   

Gianni Revello e lo Spaghetto al caffè, limoni di mare di Stefano Baiocco a Villa Feltrinelli

Perfetta crasi d’italianità: la pasta, il caffè, i frutti di mare.

Roberto Bentivegna e la Volaille de Bresse cotta intera in crosta di sale di Georges Blanc

È per piatti come questo che possiamo macinare centinaia di km, che spendiamo fortune alla ricerca dell’emozione più profonda. Cultura, storia, racconto: in questa preparazione c’è tutto. Da prenotare in anticipo e da provare almeno una volta nella vita. 

Leila Salimbeni e il Coniglio al mascarpone con spinacino e mele di Carlo Cracco e Luca Sacchi

Coniglio disossato, pressato e cotto a bassissima temperatura, impreziosito di cristalli di sale dolce, mascarpone, pinoli e spinacino e servito, da Carlo Cracco e Luca Sacchi, in Galleria, a una temperatura perfetta, fisiologica, a enfatizzare tutto il repertorio delle morbidezze. Un piatto che è manifesto dell’italianità più colta e più elegante a tavola, anche quando si serve degli ingredienti più agresti e frugali, serviti in una maniera quasi monastica.

Gianluca Montinaro e le Lumache di Cherasco ai porri di Cervere, mele renette e radici di Gian Piero Vivalda all’Antica Corona Reale

La cucina, oltre a parlare al palato, ha la capacità di parlare allo spirito. E quando in un piatto si intrecciano storie di luoghi e di persone, di affetti e di famiglia, di tradizione e di prospettiva, allora l’animo – almeno il mio – muove a trasporto. Il piacere di quella pietanza non si ferma alle quattro sensazioni, ma diventa poesia e trascende a quella «calma grandezza» di cui scriveva Johann J. Winckelmann. Ebbene, in questo 2022, il piatto che più mi ha commosso sono state le Lumache di Cherasco ai porri di Cervere, mele renette e radici, opera di Gian Piero Vivalda (ristorante Antica Corona Reale, Cervere). Una piccola ‘opera d’arte’ che un figlio ha dedicato a un padre che non c’è più. Che un uomo di cuore ha immaginato per raccontare la storia della propria famiglia. Che un grande cuoco ha ‘costruito’ con i prodotti della propria terra. Vera emozione!

Davide Bertellini e la Cassœula Oggi del Trussardi by Giancarlo Perbellini di Milano

Perché lo Chef ha saputo rivisitare in chiave contemporanea un piatto della tradizione milanese mantenendo intatto il gusto e la  concentrazione dei sapori ed elevando l’estetica.

Claudio Marin e gli Gnocchi di patate in brodo di buccia di patata e bergamotto, schie essiccate e fritte, timo e limone di Antonia Klugmann a L’Argine a Vencò

Un piatto di rara precisione ed eleganza, in cui colpiscono l’utilizzo inconsueto dello gnocco, la concentrazione e complessità del brodo – un esempio di come il no waste (spesso ridotto ad etichetta) possa tradursi in concretezza a servizio della preparazione – e la valorizzazione magistrale delle note sapide che compaiono a fine assaggio, a coronarne la perfezione. 

Adriana Blanc e il Colombaccio, salsa di artemisia, fave alla brace, liquirizia di Alex e Vittorio Manzoni all’Osteria degli Assonica

I fratelli Manzoni propongono una cucina che interpreta magistralmente il territorio. Una valorizzazione della materia prima a tutto tondo che, attraverso l’uso di lavorazioni rispettose del prodotto e di accostamenti audaci, porta in tavola piatti dai sapori sorprendentemente intensi e ben bilanciati. La carne del colombaccio è appena scottata, intrisa dei suoi succhi, ferrosa e potente. A fare da contrappunto vi è una balsamica salsa di artemisia, che unita alla dolcezza delle fave smussa ogni spigolatura e rivela un connubio di grande equilibrio e piacevolezza. 

Valerio De Cristofaro e la Trota fario, scaglie di ravanelli e mandorla fermentata di Giulio Gigli da UNE

Molto interessante l’accostamento fra la trota ed il fondo di ravanelli. Le mandorle fermentate incuriosiscono; la vera chicca è, però, la chips di pelle con lattume, tartufo nero e soprattutto acetosella. Quest’erba, perfettamente dosata trasforma il piatto. La sua nota rinfrescante la ricordiamo ancora con piacere… catartica. 

Erika Mantovan e il Risotto nascosto di Luigi Taglienti

Il Risotto nascosto di Luigi Taglienti copre il capriolo alla forchetta, e si completa con una salsa bianca e una polvere di caffè. La delicatezza non nasconde un’accelerazione dei gusti che appaiono come l’espressione di una manualità e di una tecnica al servizio degli ingredienti. Si raccontano i gusti primitivi e si rendono essenziali. Non importa il dove ma il come. La salsa resta lo strumento, la migliore connessione nei piatti, di questo Chef oggi all’IORistorante di Piacenza

Giacomo Bullo e i Tubetti al cavolo nero, stracciatella di canocchie e olive affumicate di Gianluca Gorini

In principio fu l’estrazione loprioriana, sintesi ed essenza estrapolabile dal singolo ingrediente. Poi, da San Piero in Bagno ad oggi, Gianluca Gorini con un singolo piatto a coniugare insieme il più bel mari e monti di questo 2022. Il profondo brodo di cavolo nero, nella sua austerità vegetale incontra il dolce stil gusto della canocchia, in polpa e nella sua proteica coagulazione dell’albumina in essa contenuta. Una stracciatella che non ha tradito la sua anima popolare: rifocillare nella sua (neo) golosa interpretazione. Stupire con una minestra? Con Gorini è possibile!  

Gianpietro Miolato e il Salmone e caffè di Alberto Basso

Ai Tre Quarti va in scena un piatto complesso, non certo accomodante ma assai intelligente. Acido, sapido, persistente, armonioso, un connubio capace di unire istanze non semplici in una forma accessibile e riconoscibile anche al commensale meno esperto. Chapeau.

Gherardo Averoldi e la Chimera di agnello e piccione, salsa alle olive nere di Kalamata di Alain Passard a l’Arpege

Alain Passard ha costruito la sua fama leggendaria soprattutto per la rivoluzione vegetale che ha coinvolto il suo ristorante, l’Arpege, dal 2001. Tuttavia non va dimenticata la sua maestria come rôetisseur, che trova uno dei suoi apici assoluti nelle così dette “chimere”, l’unione in un unico piatto e in un’unica cottura della carne di due differenti animali, i quali non sono solo giustapposti ma fisicamente uniti per creare una nuova e mitica creatura. La cottura è magistrale, la sensazione è quella di mangiare realmente un animale che non è più né piccione né agnello ma qualcosa di completamente nuovo, trasfigurato, il tutto accompagnato da un’eterea salsa alle olive nere di Kalamata e dalle splendide verdure dell’orto di Alain. Un piatto da pelle d’oca.

Marco Bovio e i Fagioli e Melone di Michele Vallotti a La Madia

Se la consapevolezza è rappresentata dai sapori acido e amaro, sono stato assolutamente consapevole di aver assaggiato il piatto più buono di quest’anno alla Trattoria la Madia dello Chef Michele Valotti. Il suo Fagioli e melone ti stende con un uppercut, il piacevole “fastidio” di un piatto della memoria, come una pasta e fagioli che si evolve in bocca grazie all’acidità del melone fermentato e la grassezza dell’olio al prezzemolo.

Giancarlo Saran e gli Gnocchi di patate con trippette di baccalà e ricotta affumicata di Mattia Barni da Alajmo Cortina

Mattia Barni è l’ennesimo talento valorizzato dalla premiata ditta Alajmo. Comasco di nascita ha fatto tutto un percorso all’interno della Maison. Calandre, Quadri, Marrakech. Ora hanno affidato a lui Alajmo Cortina. Intriganti gli gnocchi di patate al grano arso con trippette e gola di baccalà, salsa di ricotta affumicata. Ma il tocco malandrino è di un ingrediente non indicato nel menù, le lamelle fritte di porro che ti accompagnano nel girone dei golosi, ma ne vale la pena.

Vania Valentini e la Storia d’Amore di Fabio Vandelli all’Erbavoglio 

Trattasi di tortellini di pasta chiusa all’uovo dalle sfogline, con ripieno di orzo fermentato italiano biologico, anacardi, crema di Parmigiano Reggiano 24 mesi con certificazione di qualità. Semplicemente meravigliosi, saporiti, gustosissimi, forse più buoni degli originali. Parola di emiliana.

Il buen retiro di Carlo Cracco nel Golfo del Tigullio

La residenza estiva di Carlo Cracco non poteva che trovarsi a Portofino. Lo Chef, infatti, benché veneto di origine, ha finito per incarnare, nel corso della sua carriera, molte cose, tra cui la città di Milano di cui rappresenta l’estensione di un’italianità mercuriale, colta e cosmopolita, la stessa che colloca a Portofino la sua seconda casa al mare, o la raggiunge per celebrare gli anniversari più importanti. Ma questa storia, tuttavia, è anche una “fenice”, giacché rinasce dalle ceneri di quello che già fu il Pitosforo che, negli anni Cinquanta, attirava il jet set nazionale e internazionale nel Golfo del Tigullio, sempre per merito della capacità della famiglia Vinelli d’interpretare l’aire du temp. Cosa, questa, che fa magnificamente anche oggi affidando a Carlo Cracco, da luglio 2021, il timone della sua storia contemporanea. 

Qui, ogni elemento della natura è racchiuso in un ambiente diverso: due terrazze e un pergolato al sole, come vuole l’immaginario ligure; la roccia in cui è incastonato, invece, il bar, con l’imponente bancone a ferro di cavallo; ultimo ma non ultimo il mare che, oltre a dominare ogni affaccio, è anche l’elemento che abita la sala da “dentro”.

Quanto al menù, bisogna premettere che la brigata di Cracco Portofino è orchestrata, e ottimamente, da Mattia Pecis: giovanissimo talento – classe 1996 – Mattia è nato sotto il segno di Cracco dove approda nel 2015 dopo aver fatto il periplo delle migliori cucine dello Stivale. Ma è precisamente a Portofino che Pecis trova la sua casa contemporanea, introiettando lo spirito del tempo mediante un uso centrale dell’elemento vegetale, che diventa il proprio topos di riferimento: siamo pur sempre in Liguria, del resto, benché pied dans l’eau e, così, questo regno viene ritratto in ogni piatto, quasi come fosse un trompe-l’œil, in tutto il suo nitore, la sua intima fragranza, la sua turgidità caduca e, pertanto, preziosa. Ne è un esempio, e lapalissiano, “L’orto di Iva“, ovvero un segmento di porro cotto sotto la creta di cui la consistenza, croccantissima, magnifica la commovente freschezza. Un vegetale che, in tal guisa, assurge all’importanza di una carne complici alcuni passaggi come il bel servizio al guéridon e l’uso del fondo che, seppur vegetale, è profondo come fosse a base di carne, che ricorda pure nella masticazione. Siamo, dunque, al cospetto di un clou, che tale deve apparire sia esteticamente che gustativamente. 

Quanto al mare, esso si fa veicolo per la tradizione come accade nel bel Cappon magro cui, pure, avrebbe giovato, a corroborare, un giro d’olio più generoso o di salsa verde. Sempre in termini di eloquenza, e di Zeitgeist, si fa notare anche lo Spaghettone con estratto di amarena, scampo crudo e provola affumicata: non è la prima volta, infatti, che a uno spaghetto viene demandato il compito di introiettare un frutto, o l’essenza dello stesso, come a dire che buona parte dell’avanguardia gastronomica italiana possa passare proprio tramite un veicolo trasversale, e versatile, come la pasta: la nostra pasta nazionale.

Il menù, comunque, prosegue spedito, senza inutili complicazioni, servendosi dell’assist di un Leitmotiv importante: quello, appunto, dell’elemento vegetale. Ciascun piatto, infatti, è vestito e avviluppato da una salsa, una laccatura, un gel, un brodo, un fondo, sempre di verdure, capace di creare dinamiche gustative costantemente differenti ed evocando suggestioni da mondi lontani – vedi il Ramen – o vicini, se non vicinissimi come accade nel caso del pesto nel golosissimo Collare di ricciola con le verdure.

Anche stavolta, insomma, Carlo Cracco – anche qui a Portofino – ci regala un’altra grande prova d’autore, nonché la riprova che la cucina altro non è che un altro modo, alla stregua di ogni arte, di interpretare lo spirito del proprio tempo e del luogo in cui dimora.

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