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Contraste

I tre moschettieri di Milano continuano a stupirci

Molte parole abbiamo ormai speso per questo ristorante e per le tre teste che lo governano. Ma mai come questa volta abbiamo avuto la netta sensazione di trovarci di fronte a un modello, a un nuovo paradigma di ristorazione. Tre giovanissimi e affiatatissimi proprietari, complementari, un talento sterminato e intelligenza imprenditoriale. Un cocktail formidabile che ricorda il mitico Celler De Can Roca ai suoi inizi.

Anche qui la cucina è ottima, il servizio attento, moderno, preciso e puntuale, ma è l’insieme, la naturale commistione e compenetrazione sinergica di tutte le componenti a render veramente speciale questo luogo che, peraltro, miete successi di pubblico e critica continui e costanti. Merito di Thomas Piras che, spigliato, divertente, simpatico e, sopratutto, discreto, gestisce sala e accoglienza in maniera impeccabile dimostrando di essere sempre al posto giusto nel momento giusto. Sarà lui che vi farà divertire con abbinamenti inusuali e vini poco noti ai più ma dal carattere originale com’è il suo, d’altra parte.

E merito della cucina di Simon e Mathias, Mathias e Simon. Il braccio armato e la mente, nei due ruoli spesso interscambiabili. Un unico pensiero e linea di fondo in cui si stimolano reciprocamente, in continuazione. Sono amici tutti e tre, si vogliono bene, probabilmente discutono anche in maniera accesa a volte, ma ciò che ne sortisce è sempre e comunque una formula di sicuro successo, costruita con talento, confronto, umiltà ed intelligenza e, poche, rare volte, si è visto un connubio tra sala e cucina così spinto e intenso. Ed è questo, crediamo, il segreto del loro successo.

Venendo ai piatti, siamo rimasti impressionati dalla pasta e caviale, una fregola maturata in cera che assume il risvolto ossidativo-morbido-vellutato dell’amido, davvero intrigante, giustamente contrastato dalla sapidità del caviale. Ottimo, anche se per palati davvero forti, il coniglio in tartare a crudo, splendida la girandola di assaggi iniziali e davvero notevole la carne affinata di Motta, servita al termine del pasto quasi fosse un erborinato di lunga stagionatura.

Così, il palato collettivo di questo trio ci ha portato a scalare le montagne russe del gusto anche se, a dire il vero, l’unico leggero appunto che muoviamo a questa splendida macchina è che ci saremmo aspettati qualche punta di contrasto e di sapore più acceso, e penetrante, lungo tutto il percorso e non solo nei piatti citati. E anche qualche varietà sui piatti maggiore, un maggiore cambiamento di registro nel tempo. Ciò detto, ci troviamo di fronte ad una delle migliori tavole dello Stivale ed è esattamente per questo che non ci accontentiamo.

Sarà ancora una volta difficile prenotare ma ci auguriamo che la prossima volta il Contraste possa davvero rappresentare, a Milano, quell’esperienza che valga da sola non solo la visita, ma anche il viaggio.

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Il gioco di squadra di tre compagni d’avventura

Intraprendenza, dinamismo, apertura, understatement, gioco di squadra, unitarietà di intenti. Carte vincenti che hanno permesso ai compagni di avventura Matias Perdomo, Thomas Piras e Simon Press di portare in tempi brevissimi il loro Contraste nel novero dei locali gourmet milanesi più apprezzati, testimone il regime pressoché costante di sold out, soprattutto il fine settimana.

Contraste è un locale che coniuga abilmente classicismo e modernità, cui fa forse solo difetto una rumorosità poco consona alla tipologia di ristorante, quando la sala è interamente occupata. Al di là di questo piccolo neo, parliamo di un locale in cui ogni dettaglio, dall’illuminazione all’arredamento, è frutto di una ricerca maniacale. E si sta davvero bene, coccolati da un servizio puntualissimo ma scevro da inutili formalismi, dinamico e calzante come un guanto alle sensibilità dell’avventore.

Dinamismo e modernità, che coerentemente ritroviamo anche nella cucina di Perdomo, in un perfetto gioco simbiotico con la sala e le sue componenti: irriverente nel gesto estetico, nelle modalità di presentazione a tratti inusuali, aperta alle più svariate influenze internazionali, ma dove non mancano continui rimandi alla cultura gastronomica italiana. Una cucina, dunque, originale già fin dalle intenzioni, seppur il noto menu “specchio” abbia un po’ abbandonato gli intenti quasi esoterici – ma forse nella pratica difficilmente applicabili – degli esordi per abbracciare una maggior concretezza, dove il filo conduttore diventa la scelta della materia. Una cucina che, tuttavia, a tratti sembra voler più stupire e stimolare l’occhio che il palato, nella quale Matias sembra volutamente voler tenere il piede dell’acceleratore un po’ sollevato rispetto agli intenti di facciata. Il livello è alto, molto alto, ma dallo chef ci aspettiamo qualcosina di più.

La materia, la classicità e l’innovazione

Intendiamoci, non mancano i grandi piatti e li incontriamo fin da subito. La Sarda in saor e menta, presentata in un curioso scrigno chiuso a chiave, è un gioiello di finezza e perfetta simbiosi acido-balsamica. La Michetta, mortadella di triglia, lattuga e maionese di rafano spiazza (positivamente) ed evoca un classico milanese in un modo davvero originale. Mentre Cozze cacio e pepe  è un piatto di natura accomodante, ma perfetto nella gestione degli equilibri gustativi e texturali.

I Noodles di capesante, spuma di parmigiano, limone, sesamo, pepe, brodo dashi di tonno giapponese affumicato, è un complesso e azzeccatissimo incontro di culture vicine e lontane. Quindi la Torta di rose. Da manuale. Un classico presentato (giustamente) come tale.

In altri casi, al netto di un gesto estetico sempre stimolante e di sicuro impatto, dobbiamo rimarcare qualche occasione mancata, qualche costruzione che sulla carta prometteva un’esperienza più interessante.
Per esempio, al Rognone di coniglio, anguilla e sorbetto all’aceto, potenzialmente interessantissimo, avrebbe forse giovato un’acidità un filo più sferzante.
Mentre, ci aspettavamo che la Pluma di maiale, crema di ricci di mare e burrata portasse a una certa assuefazione palatale ancor prima della fruizione completa del piatto. Ci chiediamo se all’iconico e conosciutissimo Pulp Fiction, di impatto scenico, che certo non può lasciare indifferenti, ma al palato fin troppo canonico, non avrebbe giovato una gestione della barbabietola e delle sue poliedriche potenzialità che trascendesse esigenze di natura quasi puramente estetica.

Che dire ancora? L’accompagnamento al calice, che qua e là si concede qualche deroga extra-enologica, si rivela originale, moderno e onestamente prezzato. La carta dei vini impressiona per profondità.

La galleria fotografica:

C’è confusione sui navigli. Una zona urbana in cui, tra bar e pub che sfoderano happy hour a cinque euro, paninari ed etnici “all you can eat”, l’eccellenza gastronomica non è proprio di casa.
A fare giustizia nella movida notturna, regalando a Milano e alla fazione cittadina dei gourmet una valida alternativa al nulla, c’ha pensato la vena imprenditoriale e vincente della signora Maida Mercuri, proprietaria e oste dell’ormai celebre Pont de Ferr, al tempo talent scout di quel bravo e simpatico chef uruguagio che è Matias Perdomo, l’anima creativa di questo nuovo progetto.
Il loro Rebelot (che in dialetto lombardo è sinonimo di “confusione”) è un locale che punta a reinventare, in chiave evolutiva, l’ormai approssimativo aperitivo milanese (che spesso si protrae fino alla cena), missione questa che, a poco più di un mese dall’apertura, sembra già vinta col pienone che si registra ogni sera.
Gli ingredienti vincenti sono ormai quelli più ricorrenti nella nuova ondata di locali cittadini: grandi numeri, location strategiche e costi contenuti. Il tutto all’insegna della qualità, elemento che, per sbaragliare la concorrenza, in quest’epoca di crisi è la base imprescindibile per il successo.
Ma in questo caso c’è di più. Sono infatti pochissimi i potenziali competitors di questa nuova insegna che fonde la cultura gastronomica spagnola con l’informalità tipica del bistrot.
Il Rebelot è, infatti, un autentico tapas-bar, probabilmente l’unico degno di nota e non soltanto nel panorama cittadino. Un locale decisamente vivace, economico e, appunto, chiassoso ma, allo stesso tempo curato nei dettagli, a cominciare dalla prolifica proposta gastronomica di sorprendente qualità.
A districarsi dietro i fornelli c’è Mauricio Zillo, trentaduenne brasiliano che, fino a poco tempo fa, era tra le prime linee della cucina dell’adiacente Pont de Ferr. Zillo, che porta con sé un notevole curriculum internazionale nel quale si registrano esperienze in Sudamerica al DOM di Alex Atala e in quel di Sant Celoni dal compianto Santi Santamaria, ha una mano notevole e le sue tapas mostrano un’ampia conoscenza di diverse culture gastronomiche pur avendo, a tratti, una personalità incerta a causa dei diversi rimandi a stili già visti (è probabilmente anche l’unico difetto di Perdomo).
Piccoli assaggi dal gusto tradizionalmente iberico rivisti in chiave moderna con intelligenti innesti di ingredienti e sapori tipicamente italiani e qualche influenza della cucina classica francese. Una cucina dall’identità internazionale che, ove fosse confezionata in maniera più opulenta e curata, sarebbe a tutti gli effetti molto simile a quella proposta da Perdomo.
Ad arricchire la già allettante offerta c’è anche il bellissimo cocktail bar, con una proposta che snobba i soliti miscelati e propone cocktails ripensati da un esperto barman (Oscar Quagliarini), per un’alternativa differente e nuova che sta prendendo sempre più piede anche in ambito gourmet.
Un paio di avvertimenti ci paiono doverosi: occhio a non esagerare con le ordinazioni anche se è un tapas bar. Si rischia, infatti, di vedersi arrivare un conto abbastanza impegnativo. La scelta migliore per evitare spiacevoli sorprese e per farsi un’idea complessiva di come si mangia è quella di puntare sui menù da quattro a sei portate, appositamente studiate per contenere il costo dell’esperienza, una serie di tapas selezionate dallo chef (cambiano frequentemente) e con le quali si può restare in una fascia prezzo che non supera i 30 euro. Inoltre attenzione ai momenti di pienone del locale, in cui (e l’abbiamo riscontrato in una ulteriore visita) la qualità non potrebbe essere la medesima, il servizio potrebbe andare in affanno e le cotture e i piatti potrebbero subire imprecisioni ulteriori.


A regola d’arte il gazpacho.

Leggermente troppo sapido il merluzzo con pata negra.

Eccellente invece il Calamaro con la sua tinta, crema di mandorle e cedro, piatto semplice, capace di toccare le corde gustativo-emotive di tutti.

Buono il Tonnetto dell’Adriatico con zucchine trombetta, olive taggiasche e ricotta di pecora.

Ancora un assaggio di mare: Polpo grigliato con manioca fritta,

Per poi approdare in Spagna con un grandissimo piatto (sebbene soltanto d’assemblaggio): Tartare di vitello con anguilla affumicata, con l’insieme gustativo che rievoca il gusto tipico dello chorizo spagnolo. Abbinamento terra-mare riuscitissimo.

Poi c’è un intermezzo un po’ avulso dal contesto, ma anch’esso di riuscitissima fattura: la Scaloppina di foie gras, ciliegie, polvere di alga nori e cioccolato amaro in cui il classico abbinamento francese foie/frutta estiva viene sdoganato con l’utilizzo dell’alga.

Gustativamente parlando, si colloca tra Italia e Spagna la guancia di Maiale con peperone e salsa al pomodoro e peperone, il piatto più rustico e dal gusto più tradizionale della serata.

Si rimane in Spagna con la costoletta di agnello dei Pirenei con una salsa bbq fatta in casa e sentore di cannella. Altro piccolo pezzo di bravura.

Interessante, infine il Controfiletto di vitello arrosto con taccole e salsa allo chorizo.

Dolci freschi e prevalentemente a base di frutta di stagione: Albicocche glassate, mandorla e rosmarino.

Panna cotta alla liquirizia e ciliegie.

Pesca caramellata, panna e basilico.

e, a chiudere, Albicocca, rucola e yogurt.

La nostra bottiglia di accompagnamento (siamo tradizionalisti, non riusciamo proprio a pasteggiare con i cocktail).

Tavolo al bancone.

Questa recensione aggiorna la precedente  valutazione che trovate qui

Recensione Ristorante

Matias Perdomo, uruguagio di passaporto, nato a Buenos Aires e folgorato sulla via di Girona. Dai Roca l’esperienza che lui ritiene più significativa, e la cui traccia nei suoi piatti si ritrova costantemente, contaminata da una verve da giramondo che a volte trova il centro, forse quando si arrischia meno, e a volte no. Matias Perdomo è il nuovo fronte della neobistronomia milanese, in quel Pont de Ferr, posizionato nella movida navigliesca, sempre aperto e mai stanco, mai sazio, mai vinto.

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