Il cuoco-Samurai, tra gli allievi prediletti del maestro Marchesi, ha compiuto un altro salto verso il cielo. Ha sviluppato nel menù Mo(vi)menti, con quella “vi” tra parentesi che apre a mille significati, una serie di colpi da K.O. tecnico rendendo protagonisti ingredienti quali riccio di mare, barbabietola, cetriolo, radicchio e merluzzo. Nomi brevi, asciutti e concisi in perfetto stile kaiseki, che identificano l’ingrediente principale su cui Enrico Crippa costruisce una sinfonia di variazioni di gagnairiana memoria. L’ispirazione del piatto principale accompagnato da satelliti è la medesima del cuoco transalpino, ma il contenuto è assai diverso. La differenza sta nel fatto che Pierre Gagnaire improvvisa, dematerializza il concetto di variazione a favore di un’interpretazione totalmente jazz dei comprimari, che a tratti, molto spesso, diventano protagonisti più della portata principale, a cui dovrebbero asservire ma che molte volte schiavizzano il protagonista, in una rincorsa egotica davvero interessante.
Un concetto simile ed articolato anche in queste variazioni del cuoco albese d’adozione, in cui troviamo un grande piatto principale nel riccio, favoloso in abbinamento al pecorino, ma in cui i due satelliti Sorbetto di ricci di mare e lardo e Mandorla e ricci di mare (sorbetto alle mandorle e ricci di mare ghiacciati) sono decisamente sopra ogni aspettativa. Così come nel cetriolo in cui il riso soffiato e la salsa bernese verde sono un capolavoro assoluto. Il merluzzo salato da noi e cotto a bassa temperatura ricoperto con sfoglia di patate, funghi e salsa di funghi – in cui il merluzzo in tutta la sua declinazione è decisamente stupendo – è seguito da Porcini a lamelle e polvere di anice, Cialda di riso allo zafferano e funghi al prezzemolo, Brodo di funghi da bere. Imperioso e imperiale. Difficile e a tratti discontinua la variazione-esaltazione della barbabietola, interessante e stimolante il radicchio. Molto vivace e intrigante la zucchina: servita in albume croccante, tuorlo morbido e spaghetti di zucchine in carpione, Bijoux al Parmigiano e Zucchina al brusco (zucchina al vapore e salsa bernese).
Un intreccio di classicità transalpina, finiture nipponico-orientali con un uso sapiente e continuo delle erbe. Uno stile ormai tutto personale, decisamente di impronta unica, che ci ha convinto molto, questa volta anche sul versante dolce con due capolavori come il Monviso, rivisitazione della nocciola e dintorni, e un assoluto Profiteroles, un’interpretazione post-moderna davvero fenomenale.
Molto buono anche il Vacharin alle fragole: cilindro di meringa ripieno di sorbetto alle fragole e spuma di latte di mandorle, spolverato con polvere di yogurt. Il tutto coronato da un servizio – capitanato dall’immenso Vincenzo Donatiello – simpatico, giovane, dinamico, preciso come un orologio svizzero di grande classe e che non ha dato il minimo accenno di esitazione.
Un grande ristorante, un grande cuoco, un grande maître che si confermano ancora una volta.
Mai una sosta. Mai un segno di cedimento o un accenno di volersi adagiare sugli allori. Nella cavalcata inarrestabile di una delle cucine più estrose, vive e tecnicamente evolute dello Stivale.
Enrico Crippa, il “cuoco samurai” delle Langhe, è in grande forma e l’esperienza a tavola sottolinea lo stato di grazia del suo lavoro e di tutta la squadra del ristorante Piazza Duomo. Sono scesi a pioggia, negli ultimi anni, nuovi e ambiti riconoscimenti nazionali e internazionali, ma nulla di tutto ciò ha potuto scalfire la costanza creativa e la produttività di questa insegna, situata nel cuore di Alba.
Crippa si conferma un cuoco vero, stakanovista ai fornelli: sempre presente in cucina, sempre sul pezzo, costantemente a contatto con le sue amate verdure, provenienti ormai al 100% dall’orto con serra curato in maniera certosina dalla famiglia Ceretto. Un “parco giochi” confezionato in maniera sartoriale, che rilancia in chiave significativa l’amore e la sensibilità estrema dello chef per ogni elemento del suo ecosistema vegetale (eredità di Scuola Michel Bras).
Tra mille varietà di erbe, ortaggi, frutta e verdure dimenticate, la cifra stilistica di Crippa trae linfa espressiva perpetua, generando esercizi che gravitano con eleganza tra tonalità pacate, acuti contaminati e contrasti accesi, riassumendo sempre esemplare chiarezza e pulizia gustativa. Una sintesi perfetta tra sapori langaroli e tutto il fascino del rigore orientale: abilità, polso e pensiero, armonizzati con una padronanza tecnica che pochi cuochi possiedono. Costruzioni di equilibrio minuzioso si sommano ad un’estetica impeccabile, senza sottrarre spazio al gusto.
Impressionante (per volume di assaggi e per esecuzione) la batteria di piattini dell’Antipasto all’Italiana: una sequenza a raffica di mini-preparazioni che sovrastano il tavolo dei commensali, partendo dalla logica di nobilitare un gesto classico e conviviale in una futuristica visione attuale. Un crescendo di note erbacee e iodate, improntate su leggerezza e delicatezza, si susseguono per approdare alla sostanza sfrontata del tramezzino finale, con una sorta di bloody mary a tonificare e pulire il palato. Evoluzione e crescita applicata a tutto, anche ai grandi classici: l’assaggio elettrizzante di Mandorla e ricci di mare rinvigorito dalla cialda al wasabi e dal finto involtino di lattuga, alghe e maionese di ricci, da apprezzare con le mani; o ancora l’eleganza pungente dell’Insalata di uova e uovo (caviale, tuorlo marinato, cagliata di latte e brodo di merluzzo). L’oriente viaggia poderoso in background insieme allo spirito langarolo, facendo capolino nei colpi di classe, assestati con destrezza: profondità e ritmo nella Zuppa di olio e semi di vinacciolo, con verdure alla piastra, uovo di quaglia pochè, cumino, spezie e peperone di Senise bruciato.
Sorprende sempre, pur essendo una conferma, l’abilità nel trattare le carni, in cui il tocco classico è proiettato coerentemente al moderno, come nel Cuscus di riso fritto servito con pancia di agnello scottata, costolette di agnello glassate, funghi e brodo di funghi da sorseggiare in un dinamico mangia e bevi.
Novità anche dal comparto dessert: un’Insalata di spaghetti, pomodoro burrata e basilico in veste di sorbetto del nuovo millennio; per poi atterrare nel seducente Cannolo di bietola, crema di ricotta alla cioccolata, pistacchio, arancia e sorbetto di acacia.
Crippa sembra aver raggiunto una pace dei sensi che fa apparire tutto facile, anche se naturalmente facile non è: merito anche del suo formidabile alter ego di sala, Vincenzo Donatiello. Vero fuoriclasse e mattatore, dal profilo appassionato, che rilancia l’operato in cucina conservando leggerezza, competenza e rara professionalità applicata al dettaglio.
Un grande cuoco è certamente colui che crea una cucina personale, con molta tecnica celata ma al contempo efficace, con idee originali e centralità gustativa, non dimentichiamolo, ai massimi livelli.
Un grande cuoco però si vede anche alla prova del nove, ovvero quando deve, nel solco della tradizione più spinta, far esprimere uno o più ingredienti al meglio. Con tecniche e manualità classica, perchè nulla è più da inventare.
Ricordo ancora nitidamente il racconto che mi fece il compianto e mai troppo ricordato Stefano Bonilli, in merito alla sua prima spedizione a Cala Montjoi. Era ancora il secolo scorso e Ferran Adrià, forse il più grande cuoco di questo secolo, accolse la sparuta truppa giunta in missione dall’Italia con una cena, memorabile a detta dei partecipanti, a base di grandi classici francesi.
Nello stupore e nell’incredulità di tutti, a fine cena, il maestro catalano disse : “Stasera vi ho dimostrato che sono un cuoco e so cucinare, domani vedrete quanto questa conoscenza mi sia servita a creare innovazione”.
Ebbene si, un grande cuoco si vede anche alla prova sui temi classici. E ad Alba cosa c’è di più classico che la valorizzazione, in chiave moderna s’intende, di un ingrediente principe di langa come il Tartufo?
Ecco quindi Enrico Crippa alla prova con l’esaltazione e la sublimazione del divin Tubero: iniziamo col dire che l’obiettivo è stato colpito ed affondato. In questo lungo percorso non mancano citazioni, rimandi, riflessioni anche storiche e molti luoghi comuni sfatati. Il primo, che racconta dell’esaltazione del tartufo attraverso il veicolo del calore, posto sotto al prezioso tubero. Vero, ma solo in parte. La realtà, anche provata dalla scienza alimentare, è che il veicolo per gusto e profumo migliore per il tartufo è il freddo, o il tiepido, ben calibrato. Più che il caldo.
E in questo caso la classe, l’esperienza e le grandi capacità del cuoco Crippa sono saltate fuori alla grande. Piatti originali, ben pensati, ottimamente eseguiti, con una gestione di proporzioni e temperature che sfiora il maniacale. Tutti quanti tra il perfetto e l’ottimo.
I nostri preferiti? L’albese, il capriolo e il molto discusso al tavolo, ma a nostro avviso migliore, riso al cardamomo e tartufo. Un concentrato di eleganza in cui il cardamomo, e la tiepida temperatura del riso, amplificava ed esaltava il divin pregiato.
Chapeau a questa sequenza, dando spazio alle foto, ogni piatto fotografato con e senza Tartufo…
Il protagonista della giornata.
La sequenza, forse fintanto eccessiva, dei fantastici amuse bouche.
Noce e tartufo bianco.
Nocciola e tartufo.
Fantastico ragout di coniglio e polenta, come rendere un classico un piatto di alta cucina d’autore.
Capesante, purea di radici. Un piatto in cui la temperatura, oltre che gli abbinamenti, giocano un ruolo chiave.
La sublime albese, davvero fantastica.
Merluzzo e Zucca.
L’ormai classico crema di patate e Lapsang Souchong.
Animelle e bietole.
Straordinario riso e cardamomo.
Plin in fonduta.
Capriolo e foie gras.
E il suo secondo servizio.
I vuoti dell’impegnativa giornata…
…e un fantastico fine pranzo.
I colori della vigna.
Un rinfrescante cocktail.
I saluti finali.
Mela campanina.
L’arrivederci.
Ve lo avevamo promesso: nel corso dell’anno saremmo tornati più volte a visitare i ristoranti da noi ritenuti più importanti, per fotografare e commentare ogni cambio menù, per tenervi aggiornati sulle novità, “le collezioni” dei grandi chef italiani. Quindi, eccoci di nuovo ad Alba.
Tra i grandi interpreti della cucina italiana, c’è chi decide di modificare poco il menù creativo nel corso dell’anno e c’è chi invece fa della variabilità quasi una bandiera.
Enrico Crippa fa indiscutibilmente parte del secondo gruppo.
Ma non potrebbe essere altrimenti per un cuoco che vive quotidianamente la Natura: ogni suo piatto, ogni ingrediente, ogni dettaglio, è un inno alla vita, alla potenza della Terra.
La stagionalità, la territorialità, la sostenibilità, diventano concetti quasi ovvi, banali, talmente parte del tutto da risultare scontati.
Il menù diventa una progressione ordinata di sensazioni e contrasti: se una portata avrà una prevalenza di note acide, la successiva virerà su sensazioni dolci o amare, e così via, secondo una armonia e un ritmo pensati e voluti fino al minimo dettaglio.
Una sorta di Kaiseki tricolore, dove le regole del servizio sono dettate da stagionalità e ritualità, dove l’ordine è funzionale al gusto e servo dell’ingrediente.
Cotture limitate, massima freschezza, ingredienti semplici per il massimo risultato.
Proprio come nella cucina Kaiseki giapponese, lo sforzo è quello di raggiungere l’essenzialità del gusto, scartando ogni orpello che potrebbe distogliere dall’obiettivo.
Tutto ruota intorno agli ingredienti, trattati con rispetto e intelligenza.
Non c’è un forte pensiero di fondo dal quale partire per costruire il piatto, ma esattamente il contrario: è il piatto stesso, il modo in cui viene costruito, che genera il pensiero, la riflessione.
Non c’è lo stesso impatto “filosofico” di altri grandi interpreti italiani, chef che portano il “concetto” a sfondare i muri del ristorante e ad assumere una valenza sociologica importante e impagabile.
La mancanza di questo forte pensiero alla base della realizzazione può essere forza, e può anche essere limite, perché, per fare questo, la cucina Kaiseki può contare su secoli di storia, in Italia è invece un racconto tutto da costruire. Senza dubbio un aspetto su cui ragionare.
Ma sul risultato gustativo del piatto e sulle dinamiche che assume il menù, Enrico Crippa è l’indiscutibile numero uno della cucina italiana.
Piatti fini, dal profilo sottile, che richiedono grande attenzione all’assaggio per poterne cogliere ogni sfumatura.
Coerentemente al pensiero Kaiseki, si potrebbe lavorare ancora sull’estetica, sull’impiattamento, alle volte monotono, altre caotico, ma è indubbio che il miglioramento nell’ultimo anno è stato evidente: basta osservare preparazioni come “Colori crudi” o “Panna cotta Matisse” per cogliere l’evoluzione.
Qui vince la cucina, vince la Natura, vince l’Ingrediente, vince il ristorante, che non ha bisogno di null’altro che di sé stesso.
Un ristorante, il Piazza Duomo, completo in tutte le sue componenti: se la cucina sorprende, non è da meno il servizio. Vincenzo Donatiello guida una squadra straordinaria che ha deciso di gestire la sala con una moderna classicità: uno dei migliori servizi mai incontrati nelle nostre mille peregrinazioni.
Non di meno la carta dei vini, ricca di perle difficili da reperire (frutto di ricerca nonché ottime relazioni con produttori e distributori) e grandi nomi, a cui manca solo un po’ di profondità di annate per essere superlativa.
Un ristorante davvero unico, che meriterà senza dubbio qualche altra visita in questo lungo 2015.
Sempre entusiasmante il giro di appetizer iniziali:
Finte Olive.
Royale di miso.
Spuma di ginger, mais croccante e foie gras.
Cialda di arachidi.
Cialda di patate, patè di fegatini di coniglio.
Pak Choi, semi di sesamo, alghe e pesci essiccati.
Ficoide e limone.
…con la salsa di ficoide da bere.
Portulaca e olive.
Panino al vapore, consommé di gamberi.
Il ripieno del panino è di insalata russa di gamberi.
Da bere, il brodo di gamberi.
Omaggio all’Acino: sorbetto di salsa verde.
Sfera di isomalto, sorbetto di salsa verde, cagliata di latte di capra.
Latte vegetale.
Cetriolo, mandorle, foglie ed emulsione di yogurt, maionese, cetriolo, cipolle, curry.
Da gustare con una sfoglia al curry da condividere con il resto del tavolo.
Fave e parmigiano.
Fave crude, battuta di fassona conciata come una salsiccia di Bra, salsa di parmigiano.
Gola di branzino e salsa teriyaki.
Due parole su questo piatto sconvolgente, nel gusto quanto nell’idea. Un piatto che si potrebbe trovare in un Izakaya di Tokyo, portato al massimo livello possibile, a toccare le vette della perfezione. Alta cucina in pochi centimetri quadrati.
Spinacini e ponzu.
Insalata di uova e uova.
Insalata 21…31…41.
Insalata del vignaiolo.
Zucchine in carpione.
Zucchina al vapore in carpione di zucchina e salvia, brodo freddo di zucchine.
Colori crudi.
Frolle salate con diverse aromatizzazioni -oliva, cappero, acciuga, pomodoro, prezzemolo- e sgombro crudo.
Bietola e Yuzu.
Scampo e ciliegia.
Scampo crudo, ciliegie fresche e sott’aceto, succo di pomodoro e arancia.
Merluzzo in bianco.
Merluzzo salato in casa, cotto sottovuoto, servito su una salsa legata della sua acqua di cottura.
Uovo, pomodoro e tagliatelle.
Uovo all’occhio di bue, concentrato di pomodoro crudo, tagliatelle di sfoglia di pomodoro.
Asparagi al brusco.
Asparagi cotti in padella, salsa brusca (salsa tradizionale piemontese a base di uovo e aceto).
Carciofo alla giudia.
Riso Rosa e gamberi.
Piccione alla cacciatora.
Piccione rosolato in padella, carotine, funghetti alla cacciatora.
Minestra di frutta e verdura.
Banana e litchi.
Banana rosolata nel burro, sorbetto di litchi, Nicaragua Rum 12 y.o. Helena Fuentes.
Sorbetto all’acetosella.
Sorbetto di acetosella accompagnato dalle foglie di acetosa di diverse varietà.
Rosa del deserto.
Sfoglie di ceci, caramello, crema di nocciola, tisana speziale.
Panna cotta Matisse.
Panna cotta servita con 8 patch di frutta e verdura, a ricordare l’Escargot di Matisse: mela e liquirizia, pisello e menta, fragola, lampone, mora, mango, ananas, pesca.
Crostate di frutta.
Frolle aromatizzate- lampone,cacao,the matcha, liquirizia- banana, maraschino, crema pasticcera.
“Non so come riescano molti miei colleghi ad incastrare consulenze, nuove aperture e collaborazioni. Per me già è dura gestire come vorrei primo piano e pian terreno…”
Questa sincera frase, un passaggio di una veloce chiacchierata con lo chef, racchiude l’essenza di Enrico Crippa e del suo Piazza Duomo: massima dedizione, estrema passione, duro lavoro.
Poco spazio a tutto ciò che non poggia su un piano in inox, nessuna distrazione da quello che è il suo focus principale: la perfezione.
Nonostante le ragguardevoli dimensioni della “macchina” Piazza Duomo, quello di Crippa è un approccio decisamente poco executive, ma molto, molto chef: ore ed ore passate in cucina a pensare, a provare, a riprovare, a migliorare, a lavorare. Giorno dopo giorno, tutti i giorni.
Senza mai deconcentrarsi.
Certo, la famiglia Ceretto alle spalle è in grado di assicurare una notevole stabilità, questo è fuori discussione. Ma non ci si nasconda dietro un dito: è sufficiente guardare negli occhi Enrico mentre racconta i suoi piatti, o solamente sedersi alla sua tavola, per capire in tempo zero che l’unica cosa che a lui davvero interessa, oltre la bicicletta, è l’assoluta, completa e totale riuscita delle sue creazioni.
Non bene, non ottimo, ma solamente il meglio, il massimo.
Non un lavoro ben fatto, ma fatto nel miglior modo possibile.
Oggi. E domani si lavorerà per migliorare, ancora ed ancora. Per ogni singolo giorno.
“Go hard or go home”, per dirla in maniera yankee. Nel caso di Crippa, che unisce invece concretezza e tangibilità brianzole ad un pragmatismo ed un rigore ereditati dalla formazione giapponese, potremmo interpretarla più come “non conta essere bravi, ma soltanto i migliori”… e tirando le somme del nostro pranzo, è questa la miglior definizione possibile per Piazza Duomo.
Piatti che non escono dal pass con la voglia di sorprendere, stupire, di “schiaffeggiare” il cliente. Non nascono con la volontà di essere ricordati, o con il solo fine di fare breccia nel cuore dell’appassionato.
Sono la naturale conseguenza di uno studio ed un lavoro maniacale, sono la trasposizione gastronomica delle ossessioni di un perfezionista.
Rigorosissimi nella concezione, nella realizzazione, nel cromatismo ed altresì nell’impiatto, recentemente parecchio evolutosi verso il rigore e la pulizia.
Ma non è soltanto questo il punto, ovviamente.
L’assaggio, travolgente, coinvolgente, di precisione e pulizia a tratti imbarazzanti, si rivelerà ben oltre i “soliti” concetti di equilibrio, concentrazione, definizione, piacevolezza. La sensazione dominante di tutto il pranzo è quella di una perfezione a tratti onirica, come se ogni singola portata fosse realizzata nell’unica e sola maniera possibile: la migliore.
E’ la sorpresa che lascia il posto all’emozione.
L’attitudine che si fa da parte, in favore del genio.
La consapevolezza, che subentra all’azzardo.
E questa strabiliante disciplina, questa sezione aurea gastronomica, non viene percepita saltuariamente, due o tre volte, ma si presenta con la prima portata e rimarrà con voi a lungo, ben oltre le innumerevoli portate servite, come un unico sorprendente e lunghissimo fil rouge.
E’ questo ciò che strabilia, che stupisce, che colpisce nel profondo.
La sensazione preminente non è quella di esser di fronte ad un talento istintivo o improvvisatore, ma è più volta ad una ricerca mirata, a un’immane opera di estrapolazione dell’essenza dell’ingrediente a favore della riuscita del piatto. Un gran lavoro di ricerca svolto sulla sfera vegetale, ma per il quale non è possibile parlare di “svolta”, bensì di una naturale evoluzione di pensiero; non una sterzata netta, ma una progressione continua e graduale.
Al contempo però, c’è una capacità atavica, profonda ed istintiva di adattarsi alla situazione, riuscendo a presentare piatti meravigliosi anche “a braccio”, in funzione dell’offerta o della necessità giornaliera.
E queste due anime non convivono pacatamente nella stessa cucina, ma sono due facce della medesima medaglia, certo in simbiosi ma in chiara e continua competizione, in grado di offrire il massimo, ambedue ai vertici delle rispettive categorie.
Predisposizione naturale, sorprendente talento, costante e continuo studio e tanta, tantissima cognizione, senza il minimo servilismo, senza adulazione, effetti speciali o secondi fini, pressioni, oppressioni, doveri, né dogmi da rispettare. Solo cucina, nel senso più nobile del termine.
E se all’altissima espressione culinaria andiamo a sommare una meravigliosa gestione della sala, con un personale giovane ma spigliato, dalle movenze nonché dalle piccole attenzioni di grandissima scuola, senza la minima ingessatura, imposizione o forzato classicismo, ma con la volontà di offrire un servizio oltre il servizio, con il sorriso sincero e un piglio deciso, ecco lo Zenith, la chiusura del cerchio di un’esperienza rivelatasi davvero illuminante.
In un momento affollato, confuso ma soprattutto profondamente inflazionato per la ristorazione, certezze come questa sono fondamentali per il nostro paese. Si riparte con addosso la voglia di tornare, magneticamente attratti dalla piazza principale di Alba, attuale baricentro dell’alta cucina italiana.
Nel suo complesso, Piazza Duomo è oggi il miglior ristorante d’Italia?
Per noi è così, senza il minimo dubbio.
Dettagli della sala, con gli affreschi di Francesco Clemente.
Una sottile e quasi impalpabile farinata di ceci, per iniziare.
Una bella sequenza di amuse bouche, tecnici e piacevoli, per iniziare a sintonizzarsi:
Finte olive,
Royale di miso,
Spuma di ginger, mais croccante e foie,
Barbabietola, aringa e mousse di panna affumicata.
I grissini, con strutto e farina di mais.
Pak Choi, semi di sesamo, alghe e pesci essiccati. Si inizia a fare sul serio, con dei germogli di pak choi appena intrisi nel mix di furikake, alghe e semi di sesamo. Terra, umami, freschezza, aromaticità, oriente.
Pioppino, pomodoro, olive. Si rientra prepotentemente in Italia, con una mirabile concentrazione di decisi sapori. Bella la viscosa tenacità del pioppino, che impegna la masticazione e allunga la persistenza dell’insieme.
Tetragonia e pasta di limoni salati. Fresco, amaro, acido e sapido, bilanciatissimo, con tre grammi di materia, forse quattro, da mangiare con le mani.
Cavoletti di Bruxelles macerati nella senape, salsa verde e semi di senape. Il carattere deciso del cavoletto, nonché la sua tenacità, vengono domati dalla maceratura, restituendone una base perfetta per la sapida piccantezza della senape e della salsa verde. Salse davvero da urlo, concentrate all’inverosimile e tirate in maniera perfetta, lucide e morbide.
Spinacino, salsa di soia, sesamo bianco, yuzu. Sorprendente l’equilibrio tra la sapida spinta del dashi e la freschezza agrumata dello yuzu, a condimento di un croccante e tenero spinacino. Italia-Giappone A/R.
Bresaola di daikon fermentato, miso, pepe nero, parmigiano, rucola, olio. Altro rapidissimo viaggio occidente-oriente, con le note pungenti e ossidative della fermentazione del daikon, del pepe e del miso che vengono ammorbidite dal parmigiano e dall’olio.
Rape candite, lardo, soncino. Qui si vira verso la dolcezza, mantenendo al contempo estrema eleganza.
Il pane.
Bietola, yuzu, barbabietola, vinaigrette, mandorla, peperoncino. Altro gioiello con tre grammi di materia: al naso ed all’attacco emerge la nota pungente della vinaigrette, che lascia in breve il posto al dolce/terroso vegetale per poi andare a chiudere con la lieve ma estremamente persistente piccantezza del peperoncino. La mandorla viene sapientemente utilizzata esclusivamente come texture.
Broccolo romano, crema di cozze e lime. Cottura che intenerisce ed ammorbidisce la cima del broccolo, veicolo vegetale verso la travolgente freschezza sapido iodata della crema, lievemente acidificata sul finale dal lime. Un’impepata di cozze del quarto millennio.
Caviale, cialda di noce e rapanello, da mangiare come un sandwich con le mani…
…intermezzandolo con sorsi di brodo di merluzzo, servito a parte. Il Re è nudo: il caviale viene prepotentemente detronizzato, usato solo come tenue nota sapida. Il piatto è chiuso dal brodo, servito caldo, che permette una forte estrazione degli aromi e sapori della noce. Un’accelerazione vorticosa, dal sussurrato al gridato in qualche secondo.
“Insalata del vignaiolo”: raschera, testina, noci, senape ed insalata…
…ed il suo interno. Piatto dalla lettura estremamente stratificata, sicuramente goloso ma non per questo primario anzi, tutt’altro, complesso e profondo. L’insalatona estiva, anch’essa del quarto millennio.
Insalata affumicata con carbone vegetale, Katsuobushi e ricci di mare. Affumicato e sapido del carbone, poi fresco e terroso vegetale, poi lo iodato dei ricci, infine nuovamente affumicato e sapido dal Katsuobushi. Un rettilineo, una veloce chicane, poi nuovamente rettilineo, in un percorso perfettamente in traiettoria. Se le “insalate”, termine in questo caso enormemente riduttivo, fossero tutte come questa, la fame la patirebbero i dietologi, non certo i pazienti.
Porro, crema di cipolle, tarassaco e bottarga di tonno. Note questa volta più lievi, dolci e sussurrate. Una pausa estremamente sensata all’interno del percorso.
Merluzzo al pomodoro. Si vola in Sicilia: sotto una collosa pellicola fatta di acqua di pomodoro vi è il merluzzo, le olive, origano, capperi, e briciole di pane, per un boccone che urla Sud. Ulteriore capitolo della saga dei classici trasposti nel futuro.
Carciofo alla Giudia con animelle di coniglio, salsa verde, polvere di liquerizia e cialda di cardo. Un turbine, con protagonista un cuore di carciofo reso dolce (!) dalla cottura, contenente delle tenere animelle di coniglio, addolcite dalla liquerizia e leggermente inasprite dalla salsa verde, con la cialda che apporta tenue croccantezza ed acidità. Kalòs kai agathòs firmato Crippa.
Rognoni di coniglio in salsa bernese. Sorprendente interpretazione di “High comfort food”, una coccola composta da dei rognoncini tenerissimi, soltanto un paio di gradi troppo freddi, ed una salsa semplicemente perfetta.
Rape gialle in cassoeula con tartufo nero e purea di patate. La chiusura della serie, IL piatto neoclassico per eccellenza, ci si scioglie ed arrende di fronte a tanta bellezza, novelli Anton Ego dinanzi alla propria ratatouille. Rape lavorate come una cassoeula coprono un morbidissimo ed etereo purè di patate, con il tartufo leggermente aromatico. Un piatto attuale nel secolo scorso, nel corrente e nel prossimo. Totale.
Consommé di vitello, cotechino e lenticchie. Il caldo e concentrato consommé estrae dalle sfere il concentrato, profondo e persistente mix di cotechino e lenticchie. Il capodanno per astronauti nello spazio.
Rombo, polenta di grano saraceno, broccolo fiolaro, cipollette, carote, burro nocciola. Ecco l’esempio del “piatto di mercato”, la composizione jazz di un rombo. Piatto più estraneo al percorso, forse più adatto alla carta ma non per questo meno valido.
Riso, rosa e gamberi. Un sorprendente risotto, che paga forse la posizione nel percorso (insomma, alla ventesima portata, l’appetito…) per essere apprezzato a pieno. Barbabietola, fiori in carpione e burro alla rosa a portare dolcezza, profondità, acidità ed una marcata aromaticità, con i meravigliosi gamberi a fare da fondamentale ponte, da un prezioso collante.
Maialino glassato al burro di ginepro, cipolla glassata ai frutti rossi. Nonostante la magistrale cottura della carne, il piatto sta nel burro di ginepro sul fondo, goloso intingolo, e nelle commoventi cipollette glassate, oltremodo dolci ed acide.
Capitolo dessert, meno usuale e coinvolgente ma sicuramente piacevole e stimolante.
Banana, cardamomo, curry, cialda di burro alle arachidi. Un esperimento sull’utilizzo della banana come veicolo grasso per le spezie. Illegalmente golosa la cialdina di burro di arachidi da mangiare in chiusura…
…con un divertente finto Gin Tonic in accompagnamento, fresco e pulente.
Chiusura iperclassica: Bonet
Dopo ventiquattro portate, la definizione “piccola pasticceria finale” è causa di vertigini…
I degni compagni del “pranzo praticamente perfetto”: