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Gianni Doglia

Una famiglia per il Moscato e per il Monferrato

Nelle terre di confine si nascondono storie che diventano occasione per dare forma prima che importanza a luoghi abbandonati dalla memoria collettiva e che offrono invece – e con molta più potenza – motivi di racconto. Negli anni Novanta/Duemila le grandi Denominazioni del Piemonte erano ad appannaggio di pochi, oltremare, nonostante la presenza di numerose realtà che dal secondo dopo guerra si sono cimentate nella produzione di vino in maniera decisamente più seria. Non per auto-consumo e nemmeno per vendere le uve o lo sfuso alle cooperative, ma per sviluppare un progetto. Un cambio di approccio alla produzione quando l’azienda appena costituita, della famiglia Doglia, conta sulla forza lavoro interna e lo fa al punto da mandare uno dei figli a studiare alla Scuola Enologica di Alba. Ecco, è in questi casi che l’azienda in questione investe e rappresenta il futuro.

A pochi chilometri da Barbaresco, nel paese di Castagnole delle Lanze, in cima alla collina della Frazione Annunziata, sopra il “Bosco delle Donne” – così battezzato all’epoca e così rimasto –  Eugenio Doglia compra terra per metter su casa e piantare nuove viti. Pochi gli ettari, non più di sei, tutti intorno alla casa-cantina che, nel tempo, diventa “diffusa” perché la produzione si amplia e se si vuole aumentare la quantità c’è bisogno di spazio. E di uffici.

Negli anni Novanta è il Moscato a iniziare ad aprire i mercati, a far parlare di sé: sono molte, a quel tempo, le cantine che si buttano nella sua produzione e, in forza di esso, crescono. Gianni Doglia, figlio di Eugenio, fresco di studi decide di puntare su questa uva bianca aromatica, la vuole libera ma adesa “assieme” a lui. Aderente alle sue idee. Gli bastano pochi anni per creare un nuovo linguaggio che si diffonde rapidamente e in costante dialogo con le altre interpretazioni di Moscato. Così, fresco e diverso, si convince anche papà Eugenio. E allora si pianta, ancora, e nasce una sorta di conversazione, privata, con l’uva, nei i diversi terreni in cui si coltiva al confine con le Langhe già in terra monferrina.

Casa di Bianca

È il luogo di nascita della madre di Gianni, da cui arriva il nome del vino, e già si intuisce un carattere diverso. Qui il Moscato matura diversamente e c’è un grande potenziale evolutivo. Ha la stoffa per diventare una Riserva, il Moscato d’Asti Canelli Docg Casa di Bianca, arriva sugli scaffali delle enoteche o nei ristoranti dopo almeno un anno di vetro; in sé c’è un’aria balsamica, una sensazione come gessosa pur mantenendo una concertazione di profumi e gusto che rendono il sorso cremoso smorzato da salvia e fiori. 

Ed è così, con Gianni, che “Doglia” diventa un nome, un brand, direbbero quelli bravi; gli ettari arrivano a 17, si investe anche nel Nizza Docg, ad Agliano, per una Barbera da lungo invecchiamento. A cui fa seguito la nascita di una nuova linea di vini, un progetto moderno, battezzato come “I Volti” in omaggio a tutte le cultivar tipiche del Monferrato (Grignolino, Freisa, Barbera). Ogni vino un disegno per rappresentare il carattere dell’uva. La sua indole. Ci sono Re, Regine, Principi e Principesse. I vini vanno dritti al gusto del frutto, sono espressivi, sinceri. Comunicativi. 

Ma l’azienda con l’impronta di Gianni è banchista. Siamo, anzi, con un “moscatista” con la passione per i rossi. Proprio in questi giorni sta piantando un nuovo vigneto di 2,20 ettari. Un appezzamento sognato. Esposto in pieno sud. Il cambiamento climatico lo preoccupa ma le uve rispondo bene in questi suoli bianchi, ricchi di marne calcareo – argillose. Nell’accoglienza, comunicazione e tutto quello che non concerne la produzione c’è Paola Doglia, insostituibile sorella di Gianni.

La degustazione

Barbera d’Asti Bosco Donne Docg 2022

È la prima Barbera prodotta da una località, vicino al bosco, adibito a nascondino durante la guerra. Poco distante dalla cantina, si chiamava così già nell’atto di compravendita – tengono a precisarlo i Doglia. Succosa, fragrante, vivace. Un sorso che ingolosisce per la sua croccantezza e una buona dose di potenza.

Grignolino d’Asti Doc 2022

Arrivato dopo un lungo e lineare processo – Gianni è un metodico – nasce da una vigna a 300 metri slm, un Grignolino che si inserisce di diritto nella lista dei vini da avere sempre in cantina. Rimane aderente al vitigno al netto degli andamenti climatici, anche in un’ annata come questa, più secca; un colore più accesso può ingannare ma il vino rimane concentrato sui sui tannini, sulla sua leggerezza e la sua capacità di avvolgere il palato prima di concedersi totalmente. Elegante, su note di pepe bianco e punte di sale.

Moscato d’Asti Canelli Casa di Bianca Docg 2021

Uno dei migliori esempi di come il Moscato riesca a tenere testa al tempo. Il mosto viene conservato a -1,5° C fino al momento della vinificazione in autoclave. Cinque soli i gradi d’alcol che sostengono materia e restituiscono complessità soprattuto in questa versione Riserva. Naso sui fiori, salvia, idrocarburi e tanta distensione al palato. Un tuffo nel mare nel finale. Freschissimo. Da riassaggiare e riassaggiare. 

* I vini di Gianni Doglia sono distribuiti da Partesa.

La storia del metodo classico italiano

Carlo Gancia non ebbe incertezze, quando nel 1848, dopo gli studi in enologia partì alla volta di Reims per apprendere tutti i segreti dello champagne, rientrerà dalla Francia nel 1850 per fondare insieme al fratello Edoardo la Fratelli Gancia, puntando su ciò che quella terra meravigliosa forniva in abbondanza, le uve moscato.

Mettendo a frutto le competenze conseguite Oltralpe, nel 1865 darà vita al primo Metodo Classico italiano, una data memorabile che getterà le fondamenta di un comparto oggi più florido che mai. Quella che fu una felice intuizione diede impulso alla sperimentazione che proseguì nei decenni successivi, tenendo fede a un patto con la terra e con l’uomo, combattendo la battaglia quotidiana con le condizioni atmosferiche, determinanti nel definire la qualità dell’annata, tenendo la barra a dritta nel produrre vini dallo stile inconfondibile che sono arrivati nei cinque continenti confermando il valore del brand.

Un’affascinante vicenda imprenditoriale, da rivivere in un coinvolgente tour, attraverso la visita alle plurisecolari cantine Gancia, riconosciute patrimonio mondiale dell’umanità, vere e proprie cattedrali scavate nel tufo sotto alla città di Canelli, dove si svolge la pressatura soffice con la monumentale pressa Marmonier, la vinificazione e naturalmente l’affinamento, grazie alla temperatura costante di 12-14 gradi, perché i mesi e gli anni che attendono i preziosi millesimi possano ultimare il processo. I 170 anni di vita della Gancia ripercorrono la storia del vino italiano e la passione di uomini determinati, che hanno creduto fortemente in un’idea, tanto da realizzare un progetto fino ad allora solo sognato, andando all’estero per fare proprie le competenze necessarie.

Il brand Alta Langa

E ora solo conferme grazie al brand Alta Langa, una denominazione che riunisce i più rilevanti produttori di Metodo Classico piemontese, e racconta di un territorio non solo vocato a monumentali vini rossi ma anche a grandi bollicine. Un’area ben definita, che ci parla di un Metodo Classico prodotto con uve Pinot Nero e Chardonnay, in purezza o insieme, in percentuale variabile, che affina lungamente, rimanendo sui lieviti non meno di 30 mesi e da Disciplinare dichiara in etichetta il millesimo della vendemmia.

È il 1996 quando prende forma la proposta di un disciplinare di produzione che, sulla base di minuziose ricerche, avrà il nome di Alta Langa ma, come detto, le sue radici sono molto più antiche e si estendono fino alla prima metà dell’Ottocento, per cui oltre due secoli di sperimentazioni in vigna e in cantina ne hanno scolpito la reputazione. Il 10 maggio 1999, si brinda per la prima volta con lo spumante piemontese metodo classico Alta Langa, ufficializzando il momento presso la sede della Comunità montana, a Bossolasco, mentre è già in atto l’iter che porterà al riconoscimento della Denominazione di Origine Controllata. Il 15 giugno 2001, alla presenza di 48 soci di cui 41 viticoltori e insieme alle prime sette case vinicole produttrici – Barbero 1891 (Enrico Serafino), Bersano & Riccadonna, Giulio Cocchi, Fontanafredda, Gancia, Martini & Rossi, Vigne Regali (Banfi) – viene costituito ad Asti il Consorzio Alta Langa. Il 20 novembre 2001 viene approvata la richiesta della Doc. Il 23 novembre 2002 arriva la Denominazione di Origine Alta Langa. Il 9 marzo 2011 si ottiene la DOCG e nel 2018 presso il Castello di Grinzane Cavour ha luogo “La Prima dell’Alta Langa”, numero zero di un evento nel quale i soci produttori del Consorzio, pongono in assaggio le nuove annate.

La degustazione

Gancia 120 Mesi Alta Langa 2009

Una grande riserva, frutto della plurisecolare esperienza nel metodo classico della famiglia Gancia, l’ideale per scoprire le potenzialità e i valori espressivi di questa giovane ma radicata denominazione piemontese, forse l’unica che mancava a questa straordinaria regione del vino così famosa nel mondo. Un tributo all’Alta Langa, grazie a un severo disciplinare e a un uvaggio sapientemente dosato di uve Pinot Nero e Chardonnay raccolte nei migliori vigneti DOCG Alta Langa di proprietà della storica famiglia piemontese. Una cuvèe di pregio, vendemmiata in piccole casse, pressata soffice, che dopo la vinificazione fermenterà in bottiglia per 40 giorni e affinerà lentamente sui lieviti per oltre dieci anni, spostando l’asticella ben oltre i normali invecchiamenti, dando vita a uno spumante che rappresenta la più alta espressione identitaria della casa di Canelli. La bottiglia ha un packaging raffinato che ricorda un elegante abito da sera, la bolla è finissima ed eterea. Al naso esprime profumi ben definiti, con sentori di pompelmo rosa, clementine, mela golden, uva sultanina, anacardi, croissant, miele. Al palato corpo, struttura raffinata e grande armonia, fresco, sapido, con una bella acidità e note sapide, di pane appena sfornato, frutta gialla e vaniglia. Il lungo e persistente finale denota un notevole potenziale di invecchiamento. Il sorso super buono, lascia intuire che lasciando trascorrere anche solo pochi anni potrà evolversi ancora in piacevolezza e struttura.

Vitigni: pinot nero 80% e chardonnay 20%

Suoli: Calcare

Allevamento: Guyot

Zona: Alta Langa.

Prezzo: 95€

E se vi è piaciuto, ecco tre etichette che ho trovato per certi versi simili e altrettanto coinvolgenti:

Dall’osteria alle stelle (Michelin)

Quanto tempo ci vuole per comprendere una cucina? Quante volte bisogna tornare in un ristorante, prima di inserirlo tra i “favoriti”? Beh, quando i piatti racchiudono la storia e i gusti delle migliori materie prime, selezionate da amici, prima ancora che da fornitori, si entra dentro una stanza annebbiata da un incenso che crea due effetti: riportarti indietro nel tempo – accade a chi i gusti tipici, quelli veri, li conosce – o inebriarti, sino a spingerti a viverne il “momento zero”, quello della scoperta. In entrambi i casi si deve aspettare una pacca sulla spalla di Piercarlo Ferrero, patron del ristorante San Marco e noto trifulau piemontese, prima di esser riportati al mondo, ovvero in sala.

Il San Marco di Canelli, culla del vino Moscato, nel 1969 è osteria, diventerà ristorante dopo l’incontro tra Piercarlo, appena ventiduenne, e la diciottenne Mariuccia Roggero. Che si appassiona alla cucina, la studierà, sviluppando i gusti delle materie prime piemontesi che scoprirà giorno dopo giorno. Così facendo inventa nuove ricette e gusti che ammalieranno anche Gualtiero Marchesi di cui ne ricorda ancora oggi insegnamenti e consigli. 

Nel 1989 arriva l’ottenimento della prima Stella Michelin, un riconoscimento che accende i riflettori sulla coppia che diventa così una tappa indiscussa per i turisti stranieri, e non, che da lontano sognano la battuta, i cardi di Nizza, la fonduta, i plin, il bollito, la bagna cauda. Piatti, tutti, che nella stagione autunno – inverno sono innevati da una tempesta di tartufo.

Divisionismo (storico) gustativo

Per intenderci: trent’anni fa il cannellone ripieno di baccalà o il cardo proposto come tartare assieme all’uovo poché erano “innovazione”.

Michelin assegnava l’ambito riconoscimento valutando parametri che, nel tempo, sono mutati. Forse. Fatto sta che, arrivati a quella cucina poi definita  “contemporanea” è subentrata (anche) la ricerca, sia in termini di cotture che di materie prime. Il San Marco non si è mai allontanato dalle sue origini – è rimasto un ristorante classico – continuando a proporre i piatti che lo hanno reso celebre per trent’anni, quelli consecutivi di stella Michelin, affiancando a poco a poco nuove proposte che comunque non lo hanno mai reso catalogabile come “ristorante con cucina moderna”. La spaccatura in termini di percezione è piuttosto netta ma, alla base, ci deve comunque essere la qualità, in termini di sapori e cotture, al netto della creatività. 

Ordunque il San Marco è un ristorante che è riuscito a creare una propria e solida identità, e che non lascia dubbi circa la qualità. È rovente la passione che coinvolge tutti, dagli addetti in sala alla cucina, quando si presentano i piatti simbolici che definiamo come “per sempre in carta” ossia gli agnolotti “plin” al tovagliolo, cremosi e gustosi in cui la sottile velina di pasta raccoglie la carne magnificamente accompagnata dal brodo; ma anche i mitici tajarin ai 40 tuorli che si palesano come fili lunghissimi, disomogenei tra loro e per questo ancora più divertenti, da scoprire in un gusto che appare come una nuvola, il cui sapore rimane come sospeso. Indimenticabile: ecco il valore della ricetta.

La stessa sensazione arriva con il bollito misto di bue grasso accompagnato da verdure e bagnetti della tradizione in cui la carne non solo è come un mantello di sapori, ma è anche un esempio per chi consuma con una sola mano: la carne si sfalda, come il burro. E cosa dire dell’assaggio fatto di finanziera nobile astigiana? Delicata, pura, e fin leggera grazie a quella goccia di Marsala aggiunta, che regala una sorta di accelerazione acetica.  La conferma della luce tradizionale arriva con la bagna cauda piemontese, saporita e un poco troppo oleosa, ma certo emozionante e ossequiosa nei confronti della tradizione.

Ciò detto, lo scorso anno il ristorante ha perso la stella. Dal canto nostro, ci limitiamo a qualche piccola esortazione: puntare più sui piatti tipici, impreziosire la carta dei vini e inserire, pacatamente e senza troppe misture, nuovi piatti, così che, dopo il gelo causato dalla pandemia, sul ristorante possa tornare a splendere il sole e, chissà, anche la luce di una nuova stella.

La Galleria Fotografica:

Chef Luigi Taglienti

Distillerie Bocchino, Lo Spirito del Tempo, Chef Luigi Taglienti

Distillerie Bocchino, Lo Spirito del Tempo, Chef Luigi Taglienti

Comincia oggi un nuovo progetto di Passione Gourmet in collaborazione con la storica Distilleria Bocchino di Canelli (AT).
Durante i nostri quotidiani e golosi viaggi alla ricerca dell’eccellenza ogni mese assaggiamo in media oltre 150 piatti, dai più creativi ai più tradizionali. Il nostro è quindi un osservatorio privilegiato che indaga e studia costantemente l’evoluzione e i cambiamenti dell’alta cucina che tanto amiamo.
In omaggio alla filosofia aziendale della Distilleria Bocchino, un brand che ha radici antiche, ma che si propone oggi con un’anima moderna e attuale, ogni mese decreteremo il miglior assaggio fra tutti quelli effettuati premiando il piatto che avrà saputo tradurre una ricetta storica della tradizione culinaria italiana attraverso un’interpretazione creativa, nuova e contemporanea.
Da gennaio a settembre assegneremo mensilmente a 9 chef e ai loro piatti il premio “Lo Spirito del Tempo”. Tra tutti coloro che saranno premiati in questi mesi ne sceglieremo 3 che saranno protagonisti di una serata di Gala a novembre, occasione in cui ad uno solo di essi verrà assegnato da una giuria di giornalisti e appassionati gourmet il Premio finale “Lo Spirito del Tempo 2014” by Distilleria Bocchino.

Distillerie Bocchino, Lo Spirito del Tempo, Chef Luigi Taglienti

E’ tempo quindi del primo verdetto: a gennaio, tra tutti gli assaggi effettuati, vince il premio “Lo Spirito del Tempo” by Distilleria Bocchino il piatto “Il cotto e il crudo di minestra campana” dello Chef Luigi Taglienti del Ristorante Trussardi alla Scala di Milano.

E’ con grande piacere che assegniamo a lui l’onore di fare da apripista a questo nostro progetto. Luigi Taglienti, nelle numerose visite che molti di noi hanno effettuato nel 2013 e in questo breve scorcio di 2014, ci ha sempre stupito per una cucina pura, tecnica, essenziale, materica e di interesse assoluto nel panorama italiano. Il premio “Lo Spirito del Tempo” è anche un giusto riconoscimento a tante emozioni che ci ha regalato in questi mesi.

Il cotto e il crudo di minestra campana by Luigi Taglienti.

Il cotto e il crudo di minestra campana, Distillerie Bocchino, Lo Spirito del Tempo, Chef Luigi Taglienti

Quando in un solo assaggio ti rendi conto di come la povertà materica di una preparazione tradizionale può diventare alta cucina nelle mani di un grande chef. Fusione ideale tra elementi puri: broccolo campano, cime di rapa, sottocotenna, pomodoro. Il gioco del gusto ruota intorno all’elemento amaro, che dona freschezza snellendo la grassezza e la collosità della sottocotenna. Nella sua semplicità un’armonia di sapori perfetta. Un grandissimo piatto.

La ricetta di Luigi Taglienti

Ingredienti: 2 mazzi di cavolo campano, 1 mazzo di cime di rapa, 4 pomodori perini, 80gr sottocotenna di maiale, 200ml brodo di pollo.
Ricetta per 4 persone:

1⁄2 bicchiere vino bianco

2 cucchiai olio di oliva monocultivar taggiasca

1⁄2 peperoncino piccante

1 spicchio d’aglio.

Preparazione: 
centrifugare 1 mazzo di cavolo campano e tenere da parte la “minestra” ottenuta. Sbollentare e pelare i pomodori perini. 
In una pentola mettere: olio d’oliva, aglio in camicia e peperoncino e far rosolare.
 Aggiungere l’altro mazzo di cavolo campano e le cime di rapa e regolare di sale e pepe. Dopo qualche istante sfumare col vino bianco, lasciar evaporare ed aggiungere il brodo di pollo ultimando la cottura. 
In una padella far rosolare la sottocotenna tranciata in medie dimensioni senza aggiungere grassi, fino a ottenere la doratura della stessa. 
Adagiare la cima di rapa e il cavolo arrostiti alla base del piatto (meglio se fondo), completare con la cotenna arrostita e le falde dei pomodori.
 Ultimare versando la minestra centrifugata in precedenza.

Lo Chef

Luigi Taglienti (1979) inizia la sua avventura in cucina all’Antica Osteria del Ponte con Ezio Santin, dove comincia fin da subito una instancabile ricerca nella materia prima e un profondo studio sull’ingrediente e sulla tecnica d’avanguardia. Su consiglio di Carlo Cracco, suo mentore fin dal principio, lavora negli anni a seguire nelle cucine che formeranno la sua personale filosofia di cucina, fra tradizione e innovazione. Prima a Cannes al ristorante Le Palme D’Or, poi dallo stesso Carlo Cracco a Milano, per poi ricoprire il ruolo di executive chef a La Meridiana di Garlenda Relais & Chateau. Nel 2007 approda al ristorante Delle Antiche Contrade di Cuneo che, sotto il suo comando, mantiene la stella Michelin mentre, nel 2009, la Guida “I Ristoranti d’Italia de L’Espresso” riconosce il suo merito premiandolo come Giovane Chef dell’Anno.
Nel luglio 2012 inizia la collaborazione con il Gruppo Trussardi come Executive Chef de Il Ristorante Trussardi Alla Scala che, sotto la sua abile gestione, conserva anche qui il riconoscimento della stella Michelin.

Il Ristorante Trussardi Alla Scala
Piazza della Scala
5
20121 Milano
Tel +39.02.80688201
www.trussardiallascala.com