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Osteria Arbustico

Cucina d’Autore all’ombra dei templi, nella nuova food valley italiana

In un ambiente reso più elegante dalla recente ristrutturazione, Cristian Torsiello continua ad animare la cucina dell’Hotel Royal a Paestum. La scommessa è quella di sempre, continuare a fare cucina innovativa e di ricerca con la sua Osteria Arbustico e, al contempo, curare con la medesima professionalità l’intensa attività di banchettistica e la conseguente laboriosa organizzazione di eventi e cerimonie dell’albergo. Osteria Arbustico, sì, il nome della sua creatura non è mai cambiato sin da quando, coraggiosamente, Cristian iniziò a proporre la sua cucina creativa in quel di Valva, piccolo centro sperduto nell’Alta Valle del Sele. Oggi è tutto più facile a Paestum, località che negli ultimi tempi sembra sia stata baciata dal Dio del food, con una concentrazione di ristoranti di livello che non ha uguali in nessun altro piccolo centro d’Italia. E Torsiello, chiaramente, ci sa fare. Lo seguiamo con attenzione sin dai tempi di Valva e possiamo dire che nel tempo ha consolidato le proprie capacità.

Una cucina classica e moderna, mai ridondante

La sua proposta, volutamente poco legata al dogma del territorio, tende a mettere al centro l’ingrediente ricercando sempre la nettezza dei sapori e un piatto come Gamberi e zucchine è qui a dimostrarlo. C’è un grande lavoro su un ingrediente  – non a caso suo Maestro è stato Niko Romito – come la zucchina, da cui estrarre gusto non è proprio la più facile delle imprese, qui nobilitato come più non si potrebbe: tra tallo, sfoglia e crema potremmo parlare di un “assoluto di zucchina con gambero”. Ci è piaciuta sia nel gusto che nella presentazione poi l’Insalatina di fagiolini e pomodori: estiva, fresca, ricca di colori e sapori, a conferma di una cucina pulita che vanta una concentrazione lipidica assai contenuta. Gli stessi Tortelli di ricotta, menta, pecorino e limone riescono a essere a loro modo leggeri anche grazie all’effetto sgrassante del limone e alla freschezza regalata dall’olio alla menta.

Lo Chef si conferma tecnicamente capace e la sua cucina sembra viaggiare ormai col pilota automatico senza cadute – fatta eccezione forse per le Eliche, peperone, aneto e curry, piatto che ci è sembrato squilibrato con la componente estremamente pungente dell’aneto scarsamente contrastata dalle altre componenti – ma anche, occorre dirlo, senza nessun passaggio realmente entusiasmante. Cotture precise, estetica dei piatti molto curata, un senso generale di grande leggerezza ma anche, a dire il vero, una concentrazione gustativa che, in alcuni passaggi, si fa desiderare. 

Il servizio sembra aver digerito la partenza per altri lidi di Tomas Torsiello, il fratello dello Chef, e compie con scioltezza e dinamicità il suo dovere contribuendo a rendere l’esperienza piacevole e appagante. La carta dei vini rispetto alla nostra ultima visita ci è parsa un po’ più strutturata anche se non ancora ampia come il contesto meriterebbe.

Cristian Torsiello si conferma dunque una certezza e la sua Osteria Arbustico una sosta assolutamente consigliata, al netto del salto di qualità che, continuiamo a ritenere, sia ampiamente alla sua portata. Diciamo questo pur essendo ben consapevoli della difficoltà – ma anche della necessità,  sia chiaro – di portare avanti un ristorante gourmet e una macchina da eventi e cerimonie di successo come la struttura richiede. E quindi, alla fine, non si può che dire, ancora una volta, chapeau a Torsiello e alla sua brigata.    

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Uomo e natura

Nel panorama vitivinicolo del Cilento, un personaggio rivoluzionario, carismatico e vulcanico in pochi anni è riuscito nell’opera di valorizzazione e rilancio di questa terra antica e dalla lunghissima storia. Parliamo di Giuseppe Pagano che, nel 2004, decise di creare un’azienda vitivinicola che si ergesse sulla cura e il rispetto della natura, la memoria agricola, l’innovazione, l’etica e la sostenibilità.

Nei territori di Paestum, Stio e Giungano, l’azienda agricola si estende su 164 ettari, di cui poco più di 42 vitati. Il restante viene destinato a ulivi, frutteti e boschi e all’allevamento di bufale per la produzione di latte e derivati. La conduzione biologica dell’agricoltura, mai intensiva, rispetta i ritmi della natura e l’identità di un territorio così vocato alla viticoltura. L’utilizzo di preparati biodinamici e la moderna cantina dotata di un impianto fotovoltaico, consentono a San Salvatore 1988 di essere autosufficiente e a zero impatto ambientale.

I vigneti sono due: il più esteso, vicino ai templi di Paestum, ai piedi del Monte Calpazio, è rivolto a sud-sud ovest, verso il mare, dove il sole scalda le giornate e la brezza marina accarezza le viti. L’altro è tra i boschi e le montagne di Stio, nel cuore del Parco Nazionale del Cilento, tra i 500 e i 600 metri sul livello del mare, da cui derivano uve di pregio come quelle che compongono il Cru fiano di Pian di Stio e il raro, per la Campania, pinot nero. La gamma produttiva, dunque, creata con la consulenza di Riccardo Cotarella, è ampia e diversificata e racconta di un territorio e della sua massima espressione.

La Degustazione

Corleto 2021 IGP Paestum Aglianico Vino Biologico

Nel suo scintillante colore rosso rubino, si schiude in note fruttate di fragolina di bosco e ribes rosso, per poi proseguire con note floreali e vegetali. Il sorso, di bella freschezza e profondità, suggerisce e conferma la bassa estrazione in vinificazione, armonizzato nella trama tannica che si rivela composta: un Aglianico godevole, complesso, intrigante, dal finale avvolgente.

Vetere 2021 IGP Paestum Rosato

Vinificato tramite macerazione a freddo e pressatura soffice delle uve aglianico, per estrapolarne questo vino color rosato tenue, il Vetere affascina per il gradevole bouquet floreale, di rosa canina e di frutto di bosco. Alla bocca esprime la sua essenza: intenso, iodato ed elegante.

Calpazio 2021 IGP Paestum Greco Vino Biologico

Questo greco che prende il nome dall’omonimo monte adiacente, esprime appieno il vitigno da cui proviene. Nel suo colore giallo paglierino, di luce e sole, apre in un bouquet di frutta gialla, come la pesca, la nespola, la frutta esotica e, infine, una nota di fiori bianchi. In primis polposo, poi fresco e asciutto alla bocca, evidenzia un bel finale lungo e dritto, affusolato e minerale.

Trentenare 2021 IGP Paestum Fiano

In questa bottiglia emerge del fiano la sua spiccata connotazione varietale: una veste color giallo paglierino con riflessi verdognoli porta al naso note di pesca, susina gialla ed erbe aromatiche. L’olfazione pulita e nitida, si completa con una bocca caratterizzata da bella sapidità, di medio volume e buona persistenza, che nella perfetta rispondenza naso-palato mostra tutta l’eleganza di un vitigno caratteristico campano.

Pian di Stio 2021 IGP Paestum Fiano Vino Biologico

Questa grande e insolita espressione di fiano nasce dalle fatate parcelle del piccolo e omonimo comune. Il Pian di Stio, già nella giovane annata, dimostra un’ottima intensità di frutta, come la susina gialla, e un’altrettanta suadente nota agrumata e vegetale. Strutturato e di potenziale longevità, si esprime in un sorso fresco, elegante, dalla chiusura prettamente minerale.

Pino di Stio 2020 IGP Paestum Rosso

Con il suo bel rosso rubino luminoso tendente al granato, questo pinot nero del Cilento si erge in tutta la sua eleganza. Unico nel suo genere nella terra campana, porta con sé afflati di frutta rossa matura e sentori di violetta, al sorso avvolge e scalda la bocca, esprimendo un tannino ben controllato e una contenuta acidità. Un vino piacevole e di estrema finezza.

Jungano 2019 IGP Paestum Aglianico

Energico e coerente, il Jungano è un Aglianico come ce lo si aspetta: materico, dal colore pieno. Al naso la ciliegia matura ben identifica il vitigno da cui proviene, è speziato e fresco; alla bocca il tannino è ben presente, ma bilanciato da una buona morbidezza e da una bella lunghezza.

Elea 2019 IGP Paestum Greco Vino Biologico

L’eleganza del greco e del suo luminoso color giallo paglierino con riflessi dorati si erge statuaria in un vino dove già l’olfazione esprime sentori agrumati, di frutta a pasta bianca e pietra focaia, oltre a una leggera nota vanigliata e di burro salato che richiama un’eleganza d’Oltralpe. Maturato per il 90% in acciaio e il restante in barrique di rovere francese, alla bocca è piacevole all’attacco ed espressivo, rivela una bella acidità, incisiva, e un’affascinante sapidità che invoglia il sorso.

Pian di Stio 2018 IGP Paestum Fiano

In questa evoluzione del Pian di Stio emerge la complessità degli anni trascorsi in affinamento già nelle note dorate al calice. Le note di fiori e frutta si fanno mansuete e avvolgenti richiamando quella morbidezza succulenta del burro cui si somma un sentore agrumato di scorza di limone e pompelmo rosa. Perfettamente rispondente al palato nella sua spinta acida, seduce per raffinatezza ed equilibrio nell’amplificazione della già ottima struttura del 2021.

Gioì Spumante Metodo Classico Brut Rosè Extreme Vintage 2017

100 % da uve aglianico, questo Metodo Classico dalla fiorente spuma e dai riflessi rosati di buccia di cipolla si presenta elegante ed espressivo. La bella bollicina conduce sentori di fragolina di bosco e fiori come il glicine, oltre a un’immancabile nota di crosta di pane e nocciola tostata. Bello l’attacco al palato, carnoso, fine ed elegante, si conferma di suadente e lunga freschezza nel finale.

Gillo Dorfles 2016 IGP Paestum Aglianico

Questo omaggio a Gillo Dorfles ben si compara con la grandezza del maestro a cui si riferisce. Nel suo colore rubino scuro si rivela un vino strutturato: esplode la ciliegia, un’estrema sensazione di dolcezza subito all’attacco in un naso complesso, speziato, significativo ed elegante nelle note balsamiche. I sentori di mirtillo e buccia d’arancia sanguinella si equilibrano in un sorso caldo e ampio di buona rotondità, che si schiude in un tannino garbato, aristocratico e ben levigato. Le note vibranti di un’acidità bilanciata e di una sapidità raffinata si sommano e si completano. Ottimo il potenziale di invecchiamento.

*I vini dell’azienda San Salvatore 1988 sono distribuiti da Partesa.

In Lomellina, una location di grande charme e la cucina anema ‘e core di Antonio Danise

Un luogo incantevole questa villa immersa nella campagna della Lomellina la cui struttura originaria risale alla fine dell’800 e che, a partire dagli anni ’30 del secolo scorso, è appartenuta a Vittorio Necchi, industriale di razza che ha legato per sempre il suo nome alla produzione delle famose macchine da cucire con le quali conquistò il mercato italiano e non solo. In quegli anni la tenuta fu utilizzata da Necchi prima come riserva di caccia e successivamente come residenza principale e come tale fu frequentata da imprenditori e rinomate personalità italiane ed europee.

Insomma, siamo in un luogo affascinante e ricco di storia, riportato agli antichi splendori da intensi anni di lavori di riprogettazione e restauro, iniziati nel 2006. Oggi la Villa con il suo incantevole parco è sede di cerimonie, eventi e vanta anche di un ristorante gourmet aperto dalla cena del venerdì al pranzo della domenica, a guidare il quale è stato chiamato un bravo chef napoletano, Antonio Danise, formatosi alla scuola di Antonio Mellino al Quattro Passi di Nerano.

Danise segue sia la cucina del ristorante alla carta che quella riservata alla banchettistica che, fino al numero massimo di 100 coperti, è realizzata completamente in house. Un’attività certamente impegnativa quella dello chef tanto che, non lo nascondiamo, ci siamo avvicinati al ristorante con qualche prevenzione, come sempre ci accade in realtà dedite prevalentemente all’organizzazione di eventi e cerimonie, per quanto esclusive.

Cucina golosa che oscilla tra Campania e Lombardia

Ma le nostre perplessità di partenza si sono dissolte quasi subito con l’arrivo al tavolo di una sequenza di amuse bouche di squisita fattura e di pani e lievitati fantastici tra i quali pregevioli taralli ‘nzogna e pepe veracemente napoletani e, soprattutto un pandorino salato con granella di nocciole di fragranza e sofficità davvero strepitose. Poi, ci ha colpito il risotto quaglia, castagne e tartufo nero davvero ben fatto e la supreme di galletto a cui il jus alla birra regala una complessità gustativa intrigante.

La cucina di Danise si rivela, insomma, di grande sostanza e concretezza, con una componente lipidica importante, a tratti quasi compiaciuta, che assicura un alto livello di golosità complessivo.

Qualche imprecisione di esecuzione nei piatti che ci hanno convinto meno: la pancia di maiale un po’ indietro di cottura, l’uovo croccante molto rustico – e a cui non ha giovato la temperatura di servizio che, a nostro giudizio,  doveva essere un filo più alta – e un po’ greve, ma d’altra parte si sa che, spingendo a fondo sulla componente lipidica dei piatti, la finezza complessiva ne risenta quasi sempre.

Ancora Campania nel dessert: una pastiera che è anche un omaggio alla Lomellina col riso al posto del grano – come peraltro si usa fare diffusamente a Salerno e provincia, intensamente aromatica ma, a nostro giudizio, inutilmente “affogata” in una debordante salsa al liquore Strega.

Buona la piccola pasticceria e, in particolare, le graffette ricoperte di zucchero e cannella della tradizione napoletana, servite calde e fragranti.

Un bellissimo posto, un cuoco che ha stoffa, una cucina che ha ben chiaro il concetto di gusto e che, per crescere ulteriormente, avrebbe solo bisogno di un tocco di leggerezza e finezza in più.

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La cucina nippo-campana di Giuseppe Molaro

Giuseppe Molaro è un giovane chef con una brillante carriera internazionale. Toccando l’Irlanda, Barcellona, per prendere poi il volo sotto l’ala di Heinz Beck, prima a Roma, poi in Portogallo, Dubai e Tokyo, dopo essere diventato l’executive chef del Sensi, decide di tornare a casa, a Somma Vesuviana e, con il supporto dei genitori, già dediti alla ristorazione, ha creato un concept di multi ristorazione che si dipana all’interno di un edifico, creato ad hoc, con un bistrot, una panineria e, sopra, la punta di diamante, Contaminazioni, appunto.

Le contaminazioni sono sia mentali che palatali: la Campania incrocia l’Oriente in un gioco di equilibrio, grazia, bellezza e particolarità di gusto. C’è una gentilezza di fondo, molto orientale che affronta l’irruenza italica e ne escono piatti, talvolta, davvero sorprendenti.

Da Contaminazioni non esiste un menù alla carta, si può scegliere tra tre menù degustazione e il più completo è quello Omakase, dove ci si affida completamente allo chef. Molto particolare il cocktail di benvenuto con aceto di aglio nero, kombucha ai gambi di prezzemolo, olio al peperoncino e noci, preludio agli amuse bouche, un po’ altalenanti in termini di incisività.

Il giardino Zen del palato

Spiccano la friabile e gustosa meringa di zucca con mousse di parmigiano reggiano e il piatto con i friarielli in molteplici versioni, scottati con aceto di mele, in crema, con il vegetale fermentato proposto sia nella sua acqua che come polvere, accompagnati da quinoa. Ogni piatto del menù degustazione presenta un certo livello di complessità di ingredienti e di preparazioni sempre equilibrate.

Piccolo capolavoro l’anguilla, marinata in sakè e vino rosso, crema di arachidi e funghi, puntarelle, aceto e crema di cachi: ha l’unico difetto di essere una porzione troppo piccola. Si alternano piatti in cui si spinge di più sulle acidità e altri più rotondi, più goduriosi e piacioni, probabilmente per non destabilizzare troppo una clientela, già non molto avvezza a non poter scegliere da un menù alla carta. Particolarmente apprezzati per lo spunto di acidità gli gnocchetti di Zita, cotti in brodo di pesce, crema di mela annurca, cipolla cotta con dashi, zest e crema di limone, aceto di pane e kamobushi, un katsuobushi fatto con il petto d’anatra, olio allo zenzero e alla maggiorana, sia ossidata sia fritta.

Siamo rimasti poi molto colpiti dalla parte dei dolci, dove lo chef si è davvero spinto con coraggio nel territorio dei contrasti con la sapidità, con un piccolo gioiello di equilibrio nel crumble alla nocciola, namelaka e gelato al the matcha, malto alle alici del Cantabrico e suoi pezzetti, con aceto di vino rosé. Una piccola pasticceria davvero intrigante, nella quale ci si inoltra in mousse alla noci e gorgonzola e sfere al caramello di cipolla.

In conclusione un indirizzo fra i più innovativi e particolari in terra campana, uno chef con un importante bagaglio di esperienze e un approccio molto zen che si riflette nella sua filosofia di cucina, di grande equilibrio, grazia e gentilezza.

Se però, da una parte, siamo consapevoli dell’esigenza di avere delle proposte non troppo destabilizzanti, auspichiamo e suggeriamo, soprattutto nel menù Omakase, di alzare ulteriormente l’asticella, esplorando ed estremizzando sempre più il terreno delle contaminazioni, alla ricerca di sensazioni palatali inesplorate. Del resto, la testa, il palato e la maestria nel gestire vari spettri di acidità e sapidità ci sono e, di conseguenza, la potenzialità per raggiungere risultati sempre più importanti.

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“Danì”…a casa di Nino

Siamo sull’Isola di Ischia e precisamente a Ischia Ponte, piccolo borgo mediterraneo di pescatori che ha visto crescere, all’ombra del Castello Aragonese, Nino Di Costanzo. Qui, in quella che era stata la dimora dei nonni paterni e dove nacque il padre, lo Chef ha aperto il suo indirizzo, appunto, la sua “casa” come evoca il nome del ristorante dove “danì” sta, appunto, per “da Nino”. A completare l’insegna, che fiera campeggia all’ingresso, la sua firma posta a sigillo di quella identità e autorialità che pervadono spazi e piatti del ristorante.

Attraversato un lussureggiante giardino curato in ogni dettaglio che ospita, oltre a rigogliosi arbusti e vegetali, tanto opere d’arte quanto il privé riservato di Riva (Cantiere Navale italiano, leader del settore) si giunge a una sala con quattro tavoli rotondi, uno per angolo, per un massimo di 16 commensali che fa da proscenio all’ulteriore sala, padroneggiata dalla cucina a vista, e da uno chef’s table (per ulteriori quattro sedute) dal quale poter assistere all’alacre lavoro della brigata che si muove tra i fornelli, in un concentrato e monastico silenzio. Alle pareti e sui tavoli opere di artisti locali che raffigurano i simboli della napoletanitá più pura, nell’aria, il diffondersi delle note struggenti e al tempo stesso emozionanti delle canzoni di Pino Daniele, agevolano il commensale ad entrare nel “mood” partenopeo, necessario per cogliere appieno l’essenza dell’esperienza culinaria alla corte di Nino Di Costanzo.

Tradizione napoletana avanguardista

La cucina di Di Costanzo è tradizionale nei sapori e negli aromi ma avanguardista nella tecnica e nell’ideologia che la animano. Qui non si vedono (né mai si vedranno) voli pindarici dettati dalle mode del momento perché i suoi piatti sono e, soprattutto, vogliono essere intelligibili a chiunque. Lo chef si misura con la globalizzazione della clientela e degli ingredienti utilizzando l’unico strumento che ha a disposizione per evitare omologazioni di sistema e di pensiero, ossia la sua spiccata identità partenopea che si traduce in piatti veraci e territoriali.

Lo spaghettone ai cinque pomodori, il crudo pesce, la pasta e patate, il riso in bianco bruschetta e ricci, il raviolo di coniglio e provola, l’agnello in parmigiana di melanzane, la cotoletta napoletana al babà sono perfetti connubi di arte, tecnica e gusto e sono solo alcune delle creazioni che costellano un menù veramente interessante frutto di tanta passione, ricerca, sperimentazione e rispetto della materia prima nei suoi cicli stagionali; un menù che parte dall’antico, dalle origini e dall’infanzia dello chef ma, che, nel suo risultato finale, risulta essere molto più moderno e contemporaneo di quanto possa apparire prima facie.

A Di Costanzo viene criticato, fin dai tempi, de Il Mosaico, un eccesso di forma nelle preparazioni e nelle presentazioni, una sorta di appesantimento nello stile, di autoreferenzialitá, a scapito della sostanza. In realtà, l’estrosità di taluni impiattamenti, ovvero di alcune stoviglie, appare parte integrante del tutto e serve a meglio contestualizzare l’esperienza culinaria ed esaltare il lato ludico e artistico della personalità dello Chef, il cui temperamento è evidente soprattutto nella parte dolce del menù con “Il Circo” e “Art is not a crime” e “Ischia Ponte“: un plastico che ospita, benché edibili, i luoghi che lo hanno visto crescere.

Nulla, qui, è lasciato al caso, ma tutto è perfettamente orchestrato per amplificare le percezioni sensoriali e accompagnare il commensale in uno dei più bei percorsi che ad oggi offre il panorama gastronomico nazionale.

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