Abbiamo fatto una seconda cena all’Aga, a due giorni di distanza dalla prima.
Due cene nello stesso posto, in un intervallo ristretto di tempo, sono un regalo che qualunque appassionato dovrebbe farsi ogni tanto (ovviamente in un posto che meriti tale impegno).
Permette di cogliere numerosi dettagli magari passati inosservati al primo sguardo.
Un po’ come rivedere un film che ci è tanto piaciuto per la seconda volta: sembra quasi un film diverso, più pieno, più completo.
Così è stato qui.
Una grande conferma di maturità: tutti piatti diversi, non un tentennamento, non una incertezza.
Anzi, forse dopo aver preso le misure al cliente, ci è sembrata una cucina ancora più precisa, più sicura nei suoi tratti spigolosi e pungenti.
Quella di Piras e Del Favero è una cucina intelligente: acido e amaro vengono gestiti con grande padronanza, senza paura di scuotere il cliente, perché in ogni piatto non manca mai la nota confortevole, rassicurante. Nel nostro caso sono state le consistenze a rassicurare: emblematico il manzo mantecato, dove un piatto a tratti estremo, di grande complessità, viene reso accessibile dalla consistenza morbida, quasi burrosa, della splendida carne.
Ma quello che più stupisce è l’aromaticità di ogni portata: pur essendo ancora molto percepibili gli influssi tra Nord Europa e Giappone, (da cui ci si dovrà affrancare maggiormente) l’utilizzo delle erbe e in generale degli aromi di tutti gli ingredienti rende questa tavola qualcosa di unico, nuovo e inaspettato.
Una cucina sartoriale: i coperti sono al massimo 16, ma più spesso la sala si assesta sulla decina di clienti. Questo permette ai due cuochi di gestire i tavoli in un rapporto molto diretto, uscendo dalla cucina per presentare i piatti e discutere degli stessi (più spesso Piras in verità, evidentemente il più estroverso della coppia).
A chiusura, un aspetto non meno importante: la leggerezza. Bandito ogni grasso superfluo, i sapori sono veicolati ugualmente da brodi, infusi ed erbe aromatiche. Si potrebbero mangiare i piatti di un intero menù senza risentirne minimamente: non sentivamo una tale sensazione di leggerezza a fine pasto dai tempi delle nostre scorribande in terra giapponese.
E’ ristorante da menù degustazione, senza nessun dubbio.
La brigata di sole tre persone non è in grado di reggere una gestione della carta che non vada oltre la riproposizione dei piatti pensati e realizzati nell’ottica di un percorso, piatti che quindi, isolati dal loro contesto, non possono funzionare, sia per quantità che gestione delle aromaticità.
E’ il loro salotto, la loro casa, e a casa di altri ci si affida totalmente.
Lasciate carta bianca quindi, e godetevi lo spettacolo.
Tagliatella di patata e salsa alla rosa canina.
Caesar Salad.
Pelle di pollo croccante, uva spina fermentata, insalata di erbe e neve di pollo.
Rapanello serpente e crème fraîche.
Ingrediente. Nudo e crudo.
Fiore di nasturzio, grasso d’oca e prugna fermentata.
Un capolavoro. Incredibile la lunghezza del grasso d’oca in bocca, infine ripulito da una acidità millimetrica.
Manzo mantecato, ribes, geranio e caviale.
Manzo mantecato, uva spina, caviale, olio al levistico e geranio al limone. Servita con una bruschetta all’aglio fermentato.
Cappelletti di cipolla brasata, gamberi di fiume, menta messicana, brodo di crauti.
Altro colpo da ko. Abbiamo avuto i brividi dall’emozione.
La mente è tornata alle prime cene a Torriana, da quel Parini che tanto ci avrebbe stupito nel corso degli anni: solo lui ci aveva saputo sorprendere in modo così inaspettato, con degli ingredienti semplicissimi.
La dolcezza del raviolo è domata da menta e crauti. Il gambero è contrasto di consistenza. Quello che rimane in bocca è assoluta pulizia.
Riso Carnaroli Riserva San Massimo, lamponi e salvia.
Una leggera nota di burro affumicato crea una sinfonia perfetta.
Salmerino alla mugnaia, acetosa, mirra e anice.
Animella cotta in burro nocciola, oxalide rossa, rapa marinata nel karkadè.
In realtà non un burro nocciola, ma burro fatto sciogliere con un pezzetto di legno e poi filtrato per togliere la parte più grassa: rimane il gusto, ma non la stessa componente lipidica.
Il piatto è l’ennesimo capolavoro.
Predessert (!)
Cuore di manzo, pepe di Sichuan, cavolo nero.
Il protagonista è proprio il pepe, balsamico e sfacciato, perfetto in preparazione al dessert.
Spuma di pere, gelato al pepe di sarawak, cialda di caramello ed estratto di radici di levistico.
Ottimo ma forse non allo stesso livello della parte salata.
Probabilmente la pasticceria è la parte del pasto su cui si può lavorare di più.
I vini della serata.
Ci sono dei momenti nella vita lavorativa di una persona in cui tutto va come deve andare.
E non stiamo parlando di successi, quelli sono quasi sempre una conseguenza di un giusto stato mentale e una buona dose di fortuna.
Stiamo parlando di sensazioni.
Di quel leggero “friccicorio” che ti prende fin dalla mattina, partendo dalle punte dei piedi e arrivando fin su ai capelli: quella voglia di fare, di realizzare qualcosa di importante, che non ti fa mai staccare completamente il pensiero dalla tua postazione di lavoro. E allora le idee escono da sole: le dita scorrono sulla tastiera in un balletto automatico, quel progetto prende forma esattamente come lo avevi pensato, o semplicemente, calandoci nella realtà che più amiamo, il piatto raggiunge quel compimento che stavi cercando con una facilità che non ti aspettavi.
Questi, sono momenti da non perdere. Entusiasmanti, tanto per chi sta da una parte della barricata (ristoratore) tanto per chi sta dall’altra (cliente).
Perché in questi momenti l’analisi organolettica del piatto non conta più niente; il pensiero, l’idea, la forma, sono bolle di sapone di cui godere per non più di un istante.
In questi momenti vince l’energia. La senti. La senti nell’aria, la senti nell’entusiasmo del sommelier che ti spiega un vino, la senti nei dettagli, la senti nel cuoco che sembra camminare a un metro da terra.
Energia.
Allora, quando hai la fortuna di trovarti da cliente nel posto giusto al momento giusto, non puoi far altro che lasciarti andare e goderti lo spettacolo.
I brividi, quelli del piacere più autentico, sono assicurati almeno un paio di volte nel corso dello spettacolo. Il resto saranno sorrisi ebeti di piacere, pace assoluta e svanimento di ogni preoccupazione, almeno per quelle magiche due ore a tavola.
E la gente continuerà a non capire come possiamo spendere follie e fare 500 km per cose come questa. E tu continuerai a fregartene e ricominciare ogni volta tutto da capo.
L’abbiamo presa un po’ larga, ma forse nemmeno troppo. Potremmo scrivere due parole in più su Michele Tarroni (il direttore di sala), Oliver Piras e Alessandra Del Favero (gli chef): tutti insieme non arrivano al secolo di vita, eppure quanta maturità e magica spensieratezza nei loro gesti.
Potremmo scrivere che sta crescendo tutto, piano piano come è giusto che sia: anche sala e cantina hanno preso il ritmo della cucina e, già oggi, l’abbinamento al calice curato da Tarroni è un perfetto ingranaggio “dell’esperienza Aga.” Ma scivolerebbe tutto in secondo piano rispetto a quella energia che respirerete a pieni polmoni.
Tutto finito qui? Certo che no.
Si può ancora lavorare sulla affermazione della personalità (che non manca), scrollandosi di dosso quanto visto e vissuto finora e formando davvero una nuova visione di cucina: obiettivi che farebbero tremare i polsi a chiunque, ma non a loro.
Si può lavorare sul completamento della già sopracitata “esperienza Aga”, magari curando anche una colazione mattutina di livello adeguato (oggi non è così, ma la presenza dell’hotel è una risorsa da non sprecare).
Si può fare tutto qui. Basta non perdere questo entusiasmo: il cliente lo avverte e se ne ciba.
L’entusiasmo non si costruisce in decine di stage, l’entusiasmo è virale.
Continuate così. Noi continueremo a tornare a trovarvi.
Si comincia così:
Vermouth, acqua, pelargonium.
Carota in carpione di carota.
Sotto la pelle seccata e soffiata, sopra tartare e carpione. Ottimo.
Finto calamaro: albume d’uovo marinato nel garum e poi grigliato.
Il pane (di un solo tipo, fantastico) e il burro montato del Brite.
Insalata di Persico, rabarbaro, menta e liquirizia.
Persico, quinoa nera, menta e rabarbaro. Sconvolgente.
Subioti (ditalini) con trota salmonata ghiacciata, ribes, origano cretico e succo di fagiolini.
Unico passaggio non del tutto convincente, non ci è piaciuto molto l’impatto ghiacciato dato dalla trota salmonata (che dovrebbe simulare visivamente il formaggio grattugiato).
La nota positiva è che, pur nello squilibrio, rimane comunque un piatto che fa riflettere: un ottimo segnale.
Ravioli, rilette all’aceto e brodo di formaggio di malga.
Ravioli ripieni di rilette (di trippe) e aceto di riso, tagete huacatay, brodo di formaggio piave stravecchio.
Qui torniamo altissimi. I ravioli sono perfetti, con componente grassa e acida perfettamente dosata.
Capitolo a parte per il brodo, davvero un capolavoro di tecnica e pensiero: questo significa prendere uno spunto (dal Giappone) e contestualizzarlo in maniera originale e personale.
Spendiamo due parole allora sulla preparazione di questo brodo.
Si mette a freddo 1 litro di acqua e 300 grammi di Piave o formaggio molto stagionato analogo, si porta a 85 gradi.
Fuori dal fuoco si aggiungono 5 grammi di katsuobushi e 5 di pino mugo, si copre con pellicola e si fa raffreddare. Si filtra tutto e si mette in un contenitore a riposare per 12 ore. Passato questo tempo si congela, si sforma togliendo la parte grassa venuta in superficie.
Si scioglie e si scalda per il servizio, aggiungendo ogni giorno il 10% del brodo del giorno prima (più saporito perché scaldato per tutto il servizio precedente).
Che dire… chapeau.
Spaghetti mantecati con mirtilli, salsiccia cruda e abrotano.
Già un signature dish. A ragione. Pasta cotta in un succo di mirtilli rossi e neri, un concentrato di acidità che richiama molto l’astringenza del pomodoro. Morbidezza confortevole (la salsiccia) e il piatto si maschera, pronto a qualsiasi palato.
Il piccione di Massimo Greppi, Sambuco e funghi.
Piccione, brodo di funghi (la base è il brodo di piccione con aggiunta di funghi e fiore regina dei prati), bacche di sambuco sottaceto, spinacio selvatico (buonenrico).
Spettacolare.
Secondo servizio: Coscia in aceto di sambuco.
Predessert: Limone e alloro. Digestivo naturale.
Mousse di caramello, gelato alla lavanda, siero ridotto e mela.
Piccola pasticceria.
Marshmallow all’albicocca.
Melone marinato nel lime e polipodium.
Anche nel finale, una ispirazione giapponese (la frutta a fine pasto) interpretata in modo originale.