Signori, in piedi. Signori, un applauso. E non per la cucina. Ché all’Osteria Francescana si mangi bene, anzi molto bene, è noto. Ed è pleonastico ribadirlo. Ma un applauso al fatto che nel ristorante di Massimo Bottura nessuno ti costringe ad ascoltare triti discorsi su orti biologici, rispetto della stagionalità e approccio sostenibile. Beninteso, non che siano scelte più che lodevoli, se vere, ma diventano assai fastidiose quando a ‘narrarle’, a un pubblico di babbei adoranti, è il giovane cuoco che magari ha un ristorante in pieno centro città, cucina usando solo prodotti acquistati dai più blasonati distributori e selezionatori (già puliti, sporzionati e pronti all’uso, of course) e la cosa più green che fa in vita sua è quella di chiudere l’acqua mentre si spazzola per bene i denti. Ebbene, all’Osteria Francescana non è così. All’Osteria Francescana l’attenzione non è alle ‘parole’, ma è tutta su ciò che c’è nel piatto: perché è quello il messaggio che deve ‘passare’. Ed è lì, in ciò che si ha davanti, che vanno trovati ragione e spiegazione di tutto il resto: dal senso della cucina all’importanza della bellezza come via privilegiata per diffondere cultura e civiltà (l’Osteria Francescana è anche uno straordinario museo d’arte contemporanea: tante e di valore sono le opere esposte) sino all’impegno sociale che Massimo Bottura e Lara Gilmore profondono nel progetto Food for Soul.
Fatta questa premessa potrebbe quindi risultare ostico il titolo, che suona come un avvertimento, del nuovo menù 2023 “I’m not there“: “Io non sono qui”. E come faccio a dare un senso alla tua cucina e al tuo impegno se ‘tu non ci sei’? Eppure è proprio in questo esserci-ma-non-esserci che si annida la nuova sfida lanciata dal cuoco di Modena. Quel ‘non-esserci’ non è propriamente una assenza, un vuoto. Ma un esserci in forma differente. “I’m not there” è – difatti – il titolo di una canzone di Bob Dylan e di un film ‘biografico’ sull’artista del Minnesota: ‘non ci sono’ perché, nel corso del tempo, muto e cambio, assumendo forme diverse. Tu hai un’idea di me, e io ti mostro come quell’idea possa essere dissimile da come sono io. Ecco quindi che, scorrendo il nuovo percorso di degustazione – scandito in sedici tempi –, si incontrano tutti i signature dishes dell’Osteria Francescana: da Ricordo di un panino alla Mortadella alla Compressione di pasta e fagioli, dalla Caesar salad in Emilia ai Tortellini che camminano sul brodo, ma nessuno, proprio nessuno, ha alcunché a che spartire con le ricette storiche. Ognuno è stato riformulato dalla brigata, ora capitanata dai sous chef Matteo Zonarelli, bolognese, e Allen Huynh, canadese di origini vietnamite: ‘smontato’, ‘svuotato’ e ‘ricostruito’ con ingredienti e tecniche differenti. Un’operazione ad alto tasso di pericolo che, danzando sul filo del rasoio, rischiava di cadere da un lato nella ‘dissacrazione’ e, dall’altro, nella incomprensibilità. «Ma – come puntualizza, saggio, Beppe Palmieri – solo Bottura poteva percorrere una tale strada». Solo Bottura poteva rimettere mano ai suoi piatti storici, quelli che lo hanno reso il più celebrato chef del mondo. Solo Bottura poteva affidarli ai suoi ragazzi, col compito di interpretarli in modo del tutto diverso. E solo Bottura – infine – poteva farne un percorso: un menù che raccontasse i ‘suoi’ piatti, attraverso piatti che non sono i ‘suoi’.
Non sfuggirà, all’accorto lettore, come l’operazione del cuoco modenese, abbia compiuto un passo in avanti rispetto al Tradimento delle immagini (Questa non è una pipa) di René Magritte (1929). Perché lì, in effetti, una pipa c’è. Seppur in rappresentazione (non è una pipa, è la rappresentazione di una pipa). Qui le Cinque stagionature del Parmigiano Reggiano in diverse consistenze e temperature (piatto del 1993) non ci sono e basta: né reali, né rappresentate. Sono solo annunciate. Puro nominalismo, quindi? «Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus» («La rosa originaria esiste solo nel nome, possediamo soltanto nudi nomi») potrebbe ricordare Umberto Eco. Sì, ma solo in piccola parte perché, al di là della persistenza del ‘nome’, le nuove Cinque stagionature del Parmigiano Reggiano in diverse consistenze e temperature traggono dalle pristinae l’‘idea’, ciò che dava senso e spiegazione del piatto originario. Cos’è il Parmigiano Reggiano, ci si è ora chiesti? Non è altro che latte. Ecco quindi che le «stagionature», attraversando in un attimo trent’anni, diventano cinque consistenze di latte (gelato di siero di latte, chips croccante al latte, dulce de leche, mousse di latte, caramello di latte e zucchero) accompagnate da una «salsa verde» (crema di clorofilla) e da uno spray all’estrazione di erba tagliata, a ricordarci dove vivono le mucche (almeno le più fortunate…) e cosa mangiano. Mentre – esempio ulteriore – la Patata che vuole diventare un tartufo, che nel 2008 era un soufflé di patata con spuma di crema inglese e tartufo bianco, ora diventa una aerea e sofficissima pagnotta, fatta con farina di patate e farcita con crema di patate, nocciole e tartufo, secondo un’idea di medesima impalpabilità. O ancora i Tortellini che camminano sul brodo che, nel 2000, si presentavano come minuscoli anolini ‘appoggiati’ su una gelatina di brodo di cappone. E che ora si trasformano in dumpling cotti al vapore, farciti con Parmigiano, Mortadella e maiale, kimchi, salsa di alga nori, e brodo di cappone a rifinire il piatto. O, di più, Pane è Oro che, dalla rilettura del classico trinomio ‘di recupero’ pane-latte-zucchero (del 2015), diventa ora una golosa composizione di panettone (sì, l’idea è qui di recuperare quei tristanzuoli e secchi panettoni che avanzano dalle feste di Natale), cotechino, lenticchie, zabaione, polvere d’oro. Come si sarà di certo capito il concetto che sottintende l’ “I’m not there” è quello di ‘tradire l’idea’, nel senso di trasmetterla modificandola. Si rompono le barriere, quindi. Temporali, mettendo in discussione ciò che nella cucina di Bottura erano le icone del classico assodato. Geografiche, spingendo ancor di più su una ‘cucina totale’ nella quale convivono la più localistica tradizione modenese e la più lontana suggestione orientale. C’è comunque un duplice aspetto da sottolineare, ed è forse questo il tratto ‘di forma’ che accomuna tutti questi piatti, così differenti fra loro. Sono tutte pietanze ad altissimo tasso tecnico, di estrema difficoltà esecutiva e che richiedono anche, da parte dell’ospite, una certa concentrazione per essere davvero comprese e apprezzate. E sono tutte pietanze ‘in concentrazione’: non si è percorsa – come fanno in tanti – la strada della sottrazione degli ingredienti, ma piuttosto si è cercato di cavarne fuori l’essenza, in un corpo-a-corpo di grande fascino. Esemplificativo, in questo senso, è Riso Grigio e Nero: un piatto dove il riso diventa una crema, mentre tutto il resto (ostrica, seppia, seppia al nero, polvere di buccia di limone bruciato, caviale) gioca sulle spigolosità dei toni iodati, quasi a tirar fuori l’anima del mare.
IL PIATTO MIGLIORE: Riso Grigio e Nero.
Il fatto che Da Gorini resti ancora una delle mete più “calde” di questo 2021 lo dimostra – anche – questo riso in acqua di vongole, olio di Oliva, dragoncello, limone salato in pasta, origano e polvere di olive nere essiccate e affumicate. Un tripudio di acido, amaro, quasi iodato-fenico dalla lunghezza e derive aromatiche decisamente intriganti e persistenti.
Forte anche della decisiva collaborazione di Luca Sacchi, Cracco sovverte e diverte: come in questo piatto, tecnicamente e concettualmente un dessert, ma proiettato nel mondo salato. L’uso sapiente, peraltro, del sale, tenue, e la veicolazione di ingredienti in forma naturale, traccia la rotta verso l’esplorazione dell’insapore, ovvero del neutro, come combinazione in perfetto equilibrio di acido-dolce-sapido e amaro.
Perché l’Antica Corona Reale è ancora il posto dove gustare il mio piatto feticcio, qui realizzato veramente a regola d’arte. Grazie all’equilibrio perfetto tra farcia e carne e una salsa da manuale tirata col sangue, come vuole la tradizione, morbidezza e tenerezza sono filologicamente rispettate pur mantenendo, della carne, la provvidenziale turgidità.
Da un alchimista delle fermentazioni – lo chef Michele Valotti – un menù impavido tra ruvidità, spunti amarotici e profondità, per una quadro finale assolutamente personalissimo e fuori dagli schemi.
Ettore Bocchia gioca sotto traccia mediatica ma infila piatti in cui l’ingrediente è assoluto e rispettato come difficilmente succede, in una filosofia che mette l’italianità più nitida, con tocchi contemporanei, su una trama classica.
Enrico Croatti ha finalmente aperto il suo Moebius (nella versione “sperimentale”): cucina che sperimenta, spinge, si acquieta e torna in vibrante in un susseguirsi di portate in cui la parte ludica è solo un movimento in più di un gioco molto più complesso.
Per la geniale rilettura di alcuni celebri piatti italiani da parte di Massimo Bottura.
Per la straordinaria capacità di David Muñoz di farti viaggiare sull’ottovolante del gusto.
Il menù di caccia di Rene Redzepi riesce senza dubbio a portarti a spasso nel suo bosco ideale.
Una scoperta inaspettata, un tempio della carne di altissimo livello, in una periferia milanese dove proprio non te lo aspetteresti. Una scelta incredibile di carni, trattate con mano capace e felice. Se siete amanti delle proteine animali poco o nulla cucinate, un indirizzo da scrivere tassativamente in rosso sul taccuino gourmet (e, chiaramente, visitare al più presto).
Una piacevolissima scoperta in un uno dei più begli angoli di Sardegna, un luogo strepitoso che, con il cambio dello chef avvenuto quest’anno, ha ora finalmente la cucina che si merita. Davvero un posto che resta nel cuore, in primis per l’ambiente… e ora anche per i piatti.
Conoscevamo bene Federico Sisti al Ronchettino, felici di ritrovarlo in una tavola più urbana e che meglio si addice al suo stile, Frangente. Un piccolo ottovolante gourmet, capace di far star bene chiunque. Da consigliare a tiro zero, meglio se seduti nel “tavolo” al pass, per un’esperienza più a 360°
Ho iniziato e terminato l’anno gastronomico da lui. In un ristorante accogliente e dal servizio impeccabile Ciccio Sultano propone una cucina dalla personalità forte, basata su materie prime eccelse e una capacità unica di estrarre i sapori. Nei suoi piatti raffinatezza, intensità gustativa e armonia.
Frangente, una delle novità a Milano del 2021. Lo chef Federico Sisti ci allieta con la sua naturale simpatia e con una cucina originale e creativa che parla il linguaggio della tradizione dove l’ingrediente è protagonista e il godimento il fine ultimo.
Che sia pesce, cacciagione o quinto quarto, senza parlare della pasta, Mauro Uliassi esprime una cucina golosa, ludica e goduriosa mettendo nel piatto capolavori di equilibrio gustativo, basati su ingredienti che sono un vero e proprio tributo al suo amato territorio marchigiano sulla capacità di usare al meglio le moderne tecnologie culinarie.
Forse a causa del virus che troppe volte ho nominato, il 2021 è stato per me l’anno in cui più che mai ho apprezzato comfort food e luoghi accoglienti. Grazie alla simpatia di Lucas, chef e patron, al The Brisket mi sono sentita a casa, ma con un delizioso bbq argentino-texano da mettere sotto ai denti.
Se al The Brisket mi sento a casa, Il Filo di Paglia è la perfetta fuga dalla quotidianità. Un’isola felice fatta di passione, cordialità e ottimo cibo interamente auto-prodotto. E lucciole. Migliaia di lucciole a illuminare il bosco nelle calde sere d’estate: magia pura.
La bravura del giovane chef di origine nipponiche e derivata identità italiana, che rende Aalto una delle tappe gastronomiche più interessanti di Milano. Sapori sorprendenti, umami all’ennesima potenza e tanta bellezza nel piatto; due paesi presentati nella loro veste migliore, uniti in un’armonia senza confini.
Non si può scindere la cucina di Martina Caruso dalla proposta di vini al calice di suo fratello Luca. Sono affari di famiglia: così la cucina di Martina si perfeziona anno dopo anno, mentre la cantina di Luca è sempre più piena di chicche sorprendenti (che lui non teme di stappare al momento giusto).
Uno tra i pochi locali in Italia in cui menù degustazione obbligatorio e pairing hanno davvero un senso. Giuseppe Iannotti e Alfredo Buonanno sono una delle coppie d’oro della ristorazione italiana.
Non solo la pizza a un livello superiore, ma tutto quello che le ruota attorno. Locale, organizzazione, dessert, carta vini e birre. La Pizzeria del 2021, con la P maiuscola, è quella – ovvero, questa – che può dare del tu ai grandi ristoranti europei.
Il menù degustazione Revolution Revival di Davide Caranchini ci porta in promenade palatali di acidità, erbosità, balsamicità, aromaticità, amaro, dolce, fermentazioni, a scoprire tanti quadri, tutti diversi, della sua cucina assolutamente unica, fortemente identitaria, e rock nell’anima. Un’esperienza “Stratos-ferica”, per citare, il geniale Demetrio Stratos. Così come Stratos, Caranchini sperimenta e si spinge verso nuovi orizzonti: quelli della polifonia.
Davide Guidara è uno dei giovani più talentuosi della scena italiana, da anni studia e fa ricerche approfondite in collaborazione con università, sulle tecniche di conservazione, fermentazione, macerazione, ossidazione, alla ricerca del “Sacro Graal dell’umami“. La nuova frontiera? Estrarre l’essenza dal vegetale, rigorosamente autoctono, espandendola alla massima potenza.
Alberto Gipponi è il “disruptive chef” per eccellenza. È uno chef che si fa continuamente tante domande sul ruolo della cucina, della ristorazione e ovviamente del suo in questo mondo. La sua valenza e la sua unicità stanno nel fatto che, soprattutto nel menù degustazione più sperimentale, ognuno dei suoi piatti susciti, come lui, un pensiero capace di attivare i recettori sia palatali che cerebrali. Excellent food for thought!
Difficile da raggiungere, difficile da dimenticare. Massima espressione con l’agnello e monumentali doni che il mare regala ad un grande cuoco che ne è suo interprete, Poul Andrias Ziska.
Il format Alajmo che ancora una volta brilla con millimetrica leggerezza. Un luogo dove cucina e spazio viaggiano in parallelo tra la golosità e la bucolica bellezza circostante. Atmosfera piacevolmente onirica.
Che bello godere della sana, (ma non semplicistica) irriverenza gastronomica di questa realtà. Un’alta cucina da banco a mezza via tra un izakaya giapponese condito in salsa trasteverina. Materica, coraggiosa e divertente questa è cucina che sa emozionare dall’inizio alla fine.
La classe, la magnificenza e la straordinaria esecuzione dei piatti di Bernard Pacaud (settanta e passa anni e non sentirli) quest’anno ci hanno letteralmente stregato. I piatti del L’Ambroisie sono leggenda e, ancora oggi, tra avanguardia e sperimentazione gastronomica, l’assaggio della feuillantine al sesamo con scampi, spinaci e salsa al curry, delle scaloppine di branzino selvaggio, carciofi e caviale e della incredibile torta sabbiosa al cacao amaro, è un’epifania gastronomica. Un trois étoiles immortale.
Non siamo in Alta Badia o a Parigi, ma a San Giovanni in Fiore, nella Sila calabrese. Eppure si rischia piacevolmente di perdere la cognizione di tempo e luogo a ogni boccone. Che sia un microscopico assaggio di cervo servito a carpaccio su una meringa al limone e burro alle acciughe, una sontuosa salsa à la royale o un elegantissimo beurre blanc ai porcini, la sensazione di essere seduti in una pluristellata tavola di montagna o della capitale francese è molto realistica.
In una piccola gastronomia di quartiere, in centro a Milano, si nasconde una perla gastronomica dove una cucina sincera e generosa vi ruberà il cuore. Tutti i piatti – della tradizione ma non solo – sono curati personalmente dallo chef-patron Aldo Ritrovato, con un’esecuzione perfetta, frutto della sua lunga esperienza nell’alta ristorazione. Comfort food ai suoi massimi livelli.
Tradizione, stagionalità, semplicità e qualità sono i pilastri su cui si poggia quest’ottima trattoria.
La certezza. Probabilmente una delle migliori cucine di pesce in Italia al momento.
Innovazione, freschezza e gioventù. Ne sentiremo parlare…
Un lido pieno di charme in Versilia, si mangia a bordo piscina guardando il mare. Si gode di un servizio alla lampada d’altri tempi, di grandi pesci porzionati in sala, di salse preparate al tavolo in diretta. Classicità, sapienza tecnica un tuffo in una Versilia che fu ma che, volendo c’è ancora.
Ci sono tornato dopo diversi anni ed ho avuto il piacere di provare lo stesso piacere di sempre. In sala impareggiabile Antonio Gavazzi, padrone di casa esemplare, degno seguace della grande scuola dell’accoglienza italiana (quella di Gianluigi Morini e di Antonio Santini). La cucina regala piacere, succulenza e golosità in dosi massicce.
Scendiamo al sud ma lontano dalle rotte turistiche. Siamo a Nola, qui un giovane e capace cuoco è tornato a casa dove sta riuscendo ad esprimersi al meglio. Sgombro, mela verde, cetrioli e alghe, questo il piatto che che riassume al meglio la cifra stilistica di Luigi Salomone nel segno di equilibrio, essenzialità e pulizia.
Nel cuore pulsante di Canale, lo chef Davide Palluda riesce a fare sempre un passettino in avanti. Curiosità e dinamismo si uniscono all’esperienza, e il darsi agli altri e al territorio, fanno sì che la clientela apprezzi e comprenda piatti dai sapori più spinti e ingredienti nuovi come un daino dal gusto torbato.
Indelebile l’ingresso e l’uscita, da una piccola porta, al ristorante. Nessuna insegna. La luce è dentro, un mondo incredibile aspetta i commensali che diventano un po’ tutti navigatori, come Magellano; Gipponi fa scoprire rotte nuove, per un giro intorno al mondo inedito della cucina.
A Torino, Italia e Spagna si uniscono, le forme dei piatti e dei gusti sono come la vista di nuove insenature. La location, incredibile, a firma di Dante Ferretti, autenticano l’aspetto di divertimento e conviviale. Molte portate si prestano ad essere consumate a mo’ di finger food, superiore la fattura e la ricchezza del gusto.
Per il coraggio dimostrato nel proporre una cucina che anticipi i nostri desideri futuri, anziché assecondare quelli attuali.
Per un Lab – ancora una volta – entusiasmante.
Perché è uno Chef capace di mettere il proprio talento cristallino a servizio di un’offerta gastronomica inclusiva.
La capacità, a tratti impressionante, di proporre al commensale la Val di Fiemme nel piatto, utilizzando fiori, muschi, licheni, erbe; insomma, tutto ciò che il bosco può offrire, senza paura di puntare su note amare e balsamiche, come in Olio extravergine di oliva e la montagna: un piatto indimenticabile.
Lucidità di pensiero e chiarezza programmatica da professionisti navigati. Attenzione massima su acidità e note amaricanti, senza dimenticare i tesori della Lessinia. Spaghetti turanici al sugo di gallinella, asparagine selvatiche e liquirizia è un esempio princeps di equilibrio tra rotondità e lunghezze acide.
Trattoria 2.0 ai massimi livelli, grazie a un uso oculato, intelligente e preciso della tecnica al servizio della materia prima. La tradizione più agreste, rispettata e ammodernata, esaltando ogni singolo ingrediente. Il Baccalà alla vicentina senza glutine e cotto a bassa temperatura è lì a dimostrarlo.
L’Italia è il Paese con la più complessa stratigrafia gastronomica al mondo, il cui epifenomeno ultimo è la sua alta ristorazione. Ci voleva un genio come Massimo Bottura per creare un menu – quello proposto durante il 2021 – che ne raccontasse, dando senso attraverso l’interpretazione, alcuni dei suoi piatti più iconici…
…come ci voleva ‘l’allievo’ par execellence del cuoco modenese, Davide Di Fabio, per dare un nuovo corso a un locale di lunga tradizione: Dalla Gioconda. Qui la cucina si fa introspezione, riflettendo e riflettendosi, nei prodotti e negli usi di terra e di mare di uno spazio culturale indiviso fra Marche e Romagna.
E, infine, all’altro capo della ‘regione plurale’, abbarbicato nel suo eremitaggio sui Sibillini, un finalmente sereno Enrico Mazzaroni stupisce con la sua cucina gustativamente complessa, smagliante in abbinamenti ed equilibri, con piatti di immensa soddisfazione, ora liberi dalle forzature del passato.
Quasi impossibile non ammirare la cucina di Riccardo Camanini. Un menù vivace e personale, soprattutto nella sua versione invernale, e dai moltissimi livelli di lettura. Un luogo destinato a fare la storia della cucina italiana.
Una cucina ricca di sapori e tecnica, legata a doppio filo a un servizio eccelso, in perfetto equilibrio fra professionalità e accoglienza. Una stella che ormai brilla per due.
Un locale che in solo due anni è riuscito ad imporsi in un territorio tradizionalistico, come quello bergamasco, con una cucina d’avanguardia e molto saporita. La sala giovane, la cantina divertente e l’eccellente rapporto felicità/prezzo fanno il resto.
Per come il bravissimo Antonio Biafora rappresenta degnamente l’affermazione gastronomica, ormai di rilievo nazionale, di una regione.
Per come Bruno Verjus ci ricorda che la materia prima, qui ossessivamente selezionata, sia il mantra di qualsiasi tavola degna di questo nome.
Per il cristallino talento di uno degli chef più bravi del panorama nazionale: Davide Caranchini.
Nel diluvio di stelle campane il mio pranzo dell’anno è dal grande escluso. Una cucina di estrema precisione e molto accattivante. Di Domenico Marotta ne sentiremo molto parlare.
Lo chef Antonio Zaccardi sempre più in sintonia con il territorio per uno straordinario utilizzo della componente vegetale. Sicuramente uno dei posti più interessanti della scena meridionale, con la complicità della sala di Antonello Magistà e i dessert di Angelica Giannuzzi.
Una delle creature di José Avillez, star della gastronomia portoghese. Un posto alternativo per una cucina dove la tecnica sottende il divertimento. Il foie gras con zucchero filato e iyo al lampone, per esempio.
Un’accelerata di piatti divertenti nel gusto e performanti nell’estetica, capaci di conciliare tra loro propensione pratica, ludica, utopica e critica. Ecco perché ciascun piatto è così efficace non solo da un punto di vista gustativo ma anche enciclopedico, dove va a scomodare tutti i sottesi possibile. Come insegna il maestro, Massimo Bottura, qui, per interposta persone del precisissimo, e altrettanto veloce, Riccardo Forapani.
La perizia tecnica e la sensibilità nei confronti delle consistenze e delle temperature attinta sia dal Sol Levante che dalla scuola occidentale, permette a Takeshi Iwai di concepire una cucina assoluta, ovvero libera, scissa da qualunque riferimento enciclopedico o modello precostituito. Ne nasce un percorso che vivifica il palato, anche mentale, del commensale, che ne esce rinnovato o, comunque, profondamente, impercettibilmente cambiato.
Una cucina brutale, oltre che ancestrale, poiché fondata su cotture eminentemente alla brace e quasi nessuna linea. E con limitatissima presenza di elementi di origine animale, perché il resto è tutto vegetale, a eccezione dei formaggi, spesso caprini, da allevamenti locali. Ne sortisce un trompe-l’œil di grande mimetismo con l’ambiente circostante, amplificato dal fatto che, qui, si mangia solo en plein aire.
È l’ambasciata che ha scelto Krug per l’Italia, nel regno della famiglia Dalla Torre. Una cantina che avrebbe stregato Gino Veronelli. I piatti sembrano composti in uno studio di design edibile. Si viaggia di pesce con contaminazioni a tutto Stivale. Un piatto per tutti, i ravioli cacio e pepe con scampi crudi.
I Colli Berici sono un’enclave di storie tra gola e cultura. I gargati marchiano il territorio. Sorta di maccheroni partoriti al torchio con trafila dedicata. Abbinati secondo stagione, tra orto e stalla: piselli, maiale & co. Non lasciatevi sfuggire le lumache. Polenta e musso (asino) altra madeleine senza tempo.
Una storia di molte storie radicata dal 1907 nella Valpolicella dove regnano l’Amarone e i suoi fratelli. C’è chi torna, recidivo e impenitente, anche solo per le lasagnette della Pierina, rigorosamente tirate a mano tagliate al coltello con ragù conseguente. Carni bovine e suine a metro zero.
Un posto che regala emozioni uniche, soprattutto se visitato fuori stagione quando dalle vetrate dello chalet marino si scorge la spiaggia deserta ed austera. A tutto questo fa da contraltare una cucina ricca di sapori e smaniosa di trasmettere emozioni con piatti di caccia e di mare, come l’indimenticabile tartare di lepre e ricci di mare, un piccolo capolavoro giocato sulle note ferrose e iodate.
Una piccola bomboniera nel centro di Milano, tra le nuove apertura di quest’anno, la gastronomia dello chef Aldo Ritrovato è diventata in fretta uno dei banconi preferiti dove assaggiare piatti semplici ma tecnicamente perfetti come l’evocativo spaghetto con le vongole oppure i saporitissimi e originali piatti di verdure, rigorosamente di stagione.
Si definiscono come libera “comunità” di Fragno e dintorni, in realtà sono un’oasi vera e propria del buon cibo e del buon bere. La nuova formula prevede pochissimi coperti e tre tipologie di menù preparate dallo chef Kuni, in sala invece c’è l’ospitalità e la passione di Guido e Mariella Gennari, sempre pronti a proporre qualche rarità enologica. Quasi impossibile non innamorarsi di questo luogo che pare sospeso nello spazio e nel tempo.
Riccardo Camanini ha ormai raggiunto uno stato di grazia (quasi) universalmente riconosciuto. La sua cucina è un costante, naturale fluire che sembra rendere semplice anche quello che a una più attenta analisi semplice davvero non è.
In continua, costante crescita Davide Caranchini, che sempre più si sta staccando dagli esordi nordici per un approccio vieppiù personale e interessante. È ormai vicino ai grandi, manca solo una location degna di una tale crescita.
Anche raggiunto l’apice, Mauro Uliassi non si ferma mai e anzi osa, come forse mai ha fatto fino ad ora. Una rivisitazione di un piatto tanto inflazionato quale la pasta al pomodoro denota una sicurezza di sé davanti alla quale ci si può solo inchinare.
Varcare quella soglia per trovarsi nell’oscurità con solo una scritta al neon che si rivela un’opera d’arte dell’artista concettuale Jonathan Monk, fa da preludio all’esperienza tutta: Until then if not before.
Come sperimentato nelle nostre precedenti visite da Dina, Alberto Gipponi, già studioso e appassionato di sociologia, è oggi un cuoco riuscito, risolto in un intento dove molti han fallito: il gusto inteso come il piacere di conoscere nell’interrogarsi. E benché tavolta sia difficile ricordare i dettagli di piatti in cui si condensano gastronomia e arte concettuale, concentrata in titoli evocativi che inducono, se non al fraintendimento, all’incongruenza, nella cucina di Gipponi no! L’opera di Monk all’ingresso di Dina ci dice che non esiste il momento giusto per fare le cose, tuttavia qui, estemporaneo non significa inesperto. Alberto Gipponi con la sua brigata di ragazzi, giovanissimi ma preparati, ha appena iniziato la sua corsa: scatta, parte, anticipa. Una scossa dietro l’altra. L’idea dietro ogni piatto si aggancia al suo trascorso lasciando un’eredità di stimoli e spunti gustativi che Gipponi riesce a far emergere nel suo rapporto tra piatto, cuoco, cliente e quotidianità.
Il Casoncello crudo ma cotto in omaggio a Marchesi rimanda nella forma alla pasta ripiena tipica del bresciano, per racchiudere un ripieno di molluschi, pesce e zenzero di raccordo all’iconico raviolo aperto. In un boccone la cucina di Gualtiero Marchesi pulita e lineare, in alternanza alla memoria gustativa infantile della pasta cruda, appena fatta e rubata dalla spianatoia riferimento, questo, a un altro grande della cucina contemporanea, Massimo Bottura.
Oppure, il piatto Al visitatore, dove una magistrale quanto strana cottura della seppia accompagnata da kimtchi e purea di dattero è servita su versi dannunziani incisi sul piatto sul tema dell’ipocrisia. Introspezione sull’individuo e, al contempo, ricerca di consistenze inaspettate?
Tutto e di più: esempi come questi sono ricorrenti nella cucina di Dina ma non sono né sfoggio né presunzione: è la naturale concezione di come la cucina possa essere anche sintesi di cultura artistica, letterale o figurativa. Conoscenza ma anche palato, intuizione che è anche concretezza, come la golosa sogliola accompagnata dalla salsa di carcasse di pollo. Un piatto in evoluzione a ogni boccone dove la lisca al termine addirittura invoglia all’assaggio, su suggerimento dello chef, facendo virare il tutto su sentori iodati che richiamano l’ostrica.
Ma la ricerca di Dina si articola anche sulla percezione sensoriale. È il caso dell’animella, salsa Borscht, crema di spinaci, Grana Padano e indivia. Piatto apparentemente semplice dal lato gustativo ma che servito pressoché al buio e, in cuffia, il sottofondo di un battito cardiaco, lo fa sconfinare dalla sua dimensione gastronomica amplificando il focus sui sensi e la percezione, totalmente nuova.
Gipponi, rispetto a molti dei suoi colleghi, non avrà forse la storicità delle gesta passate da esibire come mostrine e, difatti, su ogni tavolo mette un quaderno dove ciascuno potrà scrivere le proprie considerazioni, o le critiche, sull’esperienza.
Una cosa, però, è certa: la storia di Dina è ancora lunga, e noi non vediamo l’ora di potervela raccontare nuovamente.
Se siete attivi su qualche Social Network sicuramente avrete visto qua e là, anche solo di sfuggita, qualche scatto proveniente da Panino: Beppe Palmieri, il braccio destro di Massimo Bottura in Francescana, dai primi di dicembre ha aperto questo piccolo locale, distante non più di un centinaio di metri dal “quartier generale”, e sta mostrando -sui Social, appunto- che in questo progetto ci sta riversando l’anima e anche più.
Ma, precisamente, cos’è Da Panino? Un salumificio, una panineria, un’enoteca, una gastronomia?
Nulla di ciò e tutto quanto assieme. Riassumendo il pensiero di Panino in un solo termine, potremmo ben descriverlo come una Bottega, una di quelle “del passato”, un luogo confidenziale dove far la spesa giornaliera, dove acquistare i salumi, il pane, qualche chicca gastronomica, o anche solo passare per due chiacchiere, bere un calice o a mangiare un… panino appunto, magari in pausa pranzo, accomodandosi all’unico tavolo presente: una scelta dettata, oltre che dagli spazi, dalla volontà di rendere il momento quanto più conviviale possibile.
Un luogo dove riscoprire il rapporto più diretto e personale con chi vi serve, che torna ad essere una persona di fiducia, alla quale affidarsi. Un luogo dove riscoprire il calore del contatto, oramai totalmente raffreddato dalla GDO che tutto spiana, in favore esclusivamente della migliore offerta e del prezzo più aggressivo della concorrenza.
Ma nonostante si possano acquistare chicche non indifferenti, non immaginate Da Panino come una superboutique gourmet, ma piuttosto come un piccolo negozietto di quartiere, necessariamente più costoso del supermercato ma non per questo classificabile come caro, tutt’altro, con prodotti dalla ricercatezza elevatissima.
Qui tutto viene selezionato per veri meriti qualitativi, prima ancora che commerciali, e il risultato è un rapporto qualità/prezzo che, ora sì, diviene davvero conveniente: l’offerta “di base” è un panino (con pane di Matera) con dell’affettato a scelta ed una bibita Lurisia, a 5€… insomma, provate a far di meglio se riuscite.
Una Francescana “formato spesa” dove, dalla massaia all’appassionato, è possibile concedersi piccoli momenti di goduria gastronomica, una veloce pausa pranzo gourmet o l’acquisto di qualche prodotto d’eccellenza, con la certezza in ognuno di questi casi, come preannuncia il logo, di ricevere un sorriso in omaggio.
I “menù” del giorno…
…e la lavagna dei prezzi.
Curiosando in giro.
Qualcosa di buono da bere…
… e qualcosa di molto buono da bere.
Parte dei salumi a disposizione.
Qui la Berkel non la si tiene solamente esposta…
Una eccellente fior di latte.
Ed ecco pronto il nostro panino per il rientro a casa: Autogrill, non ci avrai!