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Benso

La rinascita di un luogo che ha fatto storia

Nel centro di Bologna, si è riaccesa la storica insegna Benso. Per tanto tempo punto di riferimento degli amanti della cucina di mare, oggi un po’ scemata nel capoluogo emiliano a vantaggio di impronte più tradizionali o comunque di terra.

In cucina troviamo Corrado Parisi, conoscitore della materia, non tanto per il suo trascorso (seppur breve) all’ultracentenario locale felsineo Al Pappagallo, quanto per le sue origini siciliane. Influenze, quelle mediterranee, esportate in Germania, Spagna e Francia. Nel mezzo, una laurea in ingegneria alimentare, verosimilmente alla base delle quattro proposte di degustazione, basate su un approccio salutistico e bilanciato sotto l’aspetto nutrizionale. La mano evidenzia dapprima la cura per la panificazione, proposta con quattro lievitati, per poi aprirsi in gradevoli amuse bouche tra terra e mare, proseguendo con fresco di qualità. Il tutto servito in una sala totalmente rinnovata, intima e moderna, otto tavoli tra velluto bluette e marmo.

Abbinamenti arditi ma non eccessivi

Nel menù liberamente composto, sin dall’inizio le nuances lievemente amare, per scelta intendiamoci, lasciano trapelare un approccio fatto di contrasti ed accostamenti piuttosto spinti ma a conti fatti riusciti. Lo si evince nella Tartare di gamberi rossi di Sicilia con gel di mandarini verdi arrostiti, estratto di carciofi, gelato al Parmigiano Reggiano DOP e pellicola di genziana, piatto articolato tra cremosità, contrasti, temperature e dolcezze, piacevoli e non coprenti. Più ragionato il Baccalà mantecato ricoperto da pop-corn realizzati con cotica di maiale, carciofo di Gerusalemme (topinambur) e crema di cipolle bruciate, signature dello Chef dal 2011. L’amarognolo di cui sopra ritorna nell’ottimo Raviolo di ricotta e maggiorana con gambero rosso di Sicilia e polvere di liquirizia, dotato di armonia e delicatezza. Da registrare, tuttavia, meglio la sapidità nell’altro primo, un Tagliolino di semola alla clorofilla, nonostante veda la presenza di seppie e soprattutto polpa di ricci nel condimento. La ricerca dell’ossimoro prosegue nel Filetto di ricciola di fondale scottata, a dimostrazione di una visione più avanguardista unita a buona tecnica. Da citare in chiusura il dessert Arancia di Campari, bello alla vista e fresco, con un approccio giocato di nuovo sull’amaricante, comunque non eccessivo anche perché seguito da prelibata piccola pasticceria.

Nel complesso, oltre ai citati accostamenti, per certi versi arditi, la precisione e la cordialità del servizio, unitamente alla buona profondità della carta dei vini tra Italia e Francia, contribuiscono a elevare la centralità della materia prima nel piatto, completando il nuovo corso di questo ristorante, con margini di crescita e al momento, interessante novità del 2024.

IL PIATTO MIGLIORE: Raviolo di ricotta e maggiorana mantecato al burro di Normandia, gambero rosso di Sicilia e liquirizia.

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Fuori dagli schemi

Siamo in una zona decisamente periferica di Bologna, qui c’è Villa Aretusi, piccola struttura alberghiera che in realtà ha da sempre puntato più sulla ristorazione con eventi, una osteria e il ristorante fine dining Sotto l’Arco. Abbiamo già raccontato qui delle esperienze pregresse dello Chef Alessandro Panichi, formatosi dal maestro Gualtiero Marchesi con due altrettanti maestri quali Paolo Lopriore e Silvio Salmoiraghi. Bisogna assolutamente riconoscere allo Chef una vis creativa, la volontà di uscire fuori dagli schemi, soprattutto in una realtà gastronomica ben radicata sul passato come quella emiliana e poco incline a estremizzazioni innovative. Panichi rischia invece, parte dalla tradizione ma la rivede o proprio la abbandona verso nuovi orizzonti.

Girogiocando

È il titolo del percorso degustazione completamente a mano libera, nel quale Panichi si esprime, sprigionando la sua voglia di sperimentare e uscire da percorsi usuali. Gli amuse bouche vogliono, in modo originale, rappresentare la giornata da un punto di vista alimentare con la colazione, lo spuntino, il pranzo, la merenda, l’aperitivo e infine la cena. A seguire una virata sulle acidità con l’Ostrica con una sua salsa acida, accompagnata da banana fermentata e una Tortilla con cavolo fermentato e uova di pesce, due piatti abbastanza spiazzanti, così come il Carpaccio di capesante con grasso di prosciutto tiepido e caviale di storione del mar Adriatico, un piatto che riprende una materia prima culto emiliana, portandola sul mollusco, con un risultato non troppo convincente in termini di equilibri. La Ricciola marinata al tè Lapsang Souchong, appena scottata servita con varie verdurine manca invece di incisività, così come il Risotto con cetriolo, polvere di cappero e scampo. I Tortellini né panna né brodo, “un piatto affinato in anni di studio della cultura del tortellino, che si vorrebbe tassativamente in brodo, ma che molti amano anche con la panna: ecco allora la spuma bianca a cui il brodo conferisce la giusta sapidità“, sono goderecci e centrati. Gustosissimo un altro piatto con ovvi tributi all’Emilia, i Bottoni di Parmigiano 30 mesi, brodo di topinambur e pancia di maialino croccante. Geniale e ardito l’Osso con battuta di capriolo e midollo al Borghetti; molto ben riuscito l’Agnello gratinato con crosta di polvere di lamponi, lattuga, arachidi e limone, entrambi esempi di difficili equilibrismi. I dolci molto ben pensati, belli e peculiari.

In sintesi, una cucina d’autore, con uno Chef che gioca con originalità sulle note di amaro, acidità, dolcezza e sapidità, si prende dei rischi e, come spesso accade, non tutto convince, ma resta sempre una esperienza con spunti decisamente interessanti.

IL PIATTO MIGLIORE: Agnello gratinato con crosta di polvere di lamponi, lattuga, arachidi e limone.

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Bologna, 13 Marzo 2023

Solo Velier poteva concepire un evento simile. A cominciare dai calici, iper-avvinati anzi già pieni, quelli distribuiti all’ingresso per la degustazione.

Siamo a pochi km da Bologna, a Palazzo Albergati, maestosa residenza di campagna di età barocca considerata una delle più interessanti opere architettoniche del Seicento europeo.

Enormi, ariosi, risposanti gli spazi, consolanti quando non ludici com’è la vita dell’uomo sulla Terra per Velier: 12.000 mq tra sale e stanze laterali, su quattro livelli, circondati da un parco secolare punteggiato, tra le altre cose, di postazioni per il barbecue.

Solo Velier e, in particolare, la famiglia Gargano, con a capo la brillante ed empatica Margaux Gargano, responsabile del progetto Triple A, si diceva, poteva concepire una degustazione simile.

Non una clinica, sterile presentazione del catalogo come fan tutte, bensì una festa con tutti gli 80 “agricoltori, artigiani, artisti” del suo manifesto dall’Italia e dal mondo presenti, più altri produttori amici qui riuniti per festeggiare, e festeggiarsi, in occasione dei primi 20 anni di Triple A: pionieristica distribuzione di vini naturali fondata da Luca Gargano nel 2003.

Lui, il simposiarca, l’abbiamo visto aggirarsi, come tanti curiosi tra i banchetti e, va da sé, bere di gusto; così come pure Nicolas Joly, padre della biodinamica francese: una leggenda ambulante che già all’ora di pranzo aveva già terminato tutti i vini in degustazione (è lui a produrre la celebre Coulée de Serrant, sette ettari di Chenin blanc da un clos monopole coltivato dai monaci cistercensi sin dal 1130), e forse proprio per questo, appunto, godersi la festa come un semplice appassionato, finalmente “in borghese”. In Velier si mormora che la storia di Luca Gargano e di Nicolas Joly cominciò la stessa notte quando, più di vent’anni fa, senza conoscersi e a centinaia di chilometri di distanza, mentre uno se ne usciva coi primi vagiti di quello che sarebbe diventato il decalogo delle Triple “A”, Nicolas Joly stesse redigendo la prima bozza della Charte de Renaissance des Appellations.

Una rivoluzione, insomma, ebbra di vino e soprattutto di vita, che ci ha inebriato con gli assaggi di Domaine Tissot, benedetto con quelli degli stentorei vini di Radikon, e commosso facendoci ritrovare il sapore della personalissima visione di Virè-Clessè, cru di Mâconnais, di Sophie e Gautier del Domaine Guillemot-Michel, che da tanti anni incapsulano in bottiglia piccole miniature dei loro 6 ettari di vecchi vigneti di Chardonnay, nei dintorni di Quintane.

* tutte le foto sono di Farah Maggiora, a esclusione di quella di copertina, dell’autrice.

Una frittura perfetta nel cuore di Bologna

Quella dei Bartolini è una storia di famiglia. Rinomati ristoratori cesenaticensi, esperti di materia prima ittica, hanno dato lustro, più di altri, alla tradizione marinara romagnola. Oltre a La Buca, tavola stellata, a Cesenatico, e La Terrazza a Milano Marittima, l’azienda di famiglia, oggi nelle mani di Andrea Bartolini, che rappresenta la terza generazione, ha aperto ben tre Osterie, l’ultima delle quali nel cuore di Bologna che si è andata ad aggiungere alle altre due aperte in precedenza nelle predette cittadine balneari. In un bel contesto di un palazzo storico ristrutturato con toni marinari e un ampio dehors estivo, anche lontano dal mare viene servito un pescato selezionato la cui qualità non sfigura nonostante il numero di coperti sia quasi a prova di mensa aziendale.

Il menù è stampato direttamente nelle tovagliette e anche qui è lo stesso: proposte del giorno e piatti storici tra i quali le diverse tipologie di “gran fritto“. Un menù che mette in guardia, da sempre, i commensali con categorici dinieghi a richieste di spaghetti allo scoglio, perché “da noi non ci sono scogli” o con consigli come “Facciamo il possibile per offrirvi un fritto croccante, non rovinatelo con il limone”, che suona come un’antifona.

Una tradizione marinara sincera, certamente scevra da mode del momento. Su tutto abbiamo preferito proprio i fritti, cavallo di battaglia dell’insegna Bartolini, non tanto per la qualità del prodotto, certamente selezionato per l’occasione, quanto per l’esecuzione. Non è così scontato, infatti, trovare una frittura così asciutta e croccante, dal colorito chiaro, servita ad una temperatura pressoché perfetta. Sul resto si va dal corretto al gustoso con qualche eccesso di sapidità e qualche taglio di crudo leggermente sotto le aspettative, sebbene la politica dei prezzi (al ribasso) resti decisamente un punto di forza di questa insegna. La proposta enoica conta circa una cinquantina di etichette tra bollicine, bianchi e vini da dessert. Servizio di sala solerte e sorridente. Encomiabile è l’apertura tutti i giorni della settimana, a pranzo e cena.

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Parola d’ordine: versatilità

Un calice? Possibile. Un piatto d’accompagnamento? Senz’altro! Una serata all’insegna della sana irriverenza gastronomica? Ma certo! L’eterogeneità di Ahimè, la quarta insegna della cordata Costa-Bucci–Orsi, al grido di battaglia “Make Bologna great again” centra nuovamente il bersaglio. Locale, dove l’aspetto materico si comprende sin dal suo arredamento tra colori tenui che si alternano ai tavoli di legno grezzo, piante e stoviglie ancièn, così tremendamente belle a far da contorno all’impostazione gastronomica data dal giovane Lorenzo Vecchia in cucina. Vecchia porta idealmente sulla giacca le illustri mostrine guadagnate su campi stellati come Carlo Cracco, Lorenzo Cogo, Antonia Klugmann, o dell’iberico Martín Berasategui. Una gavetta di spessore, che si estrinseca in una certa predilezione per il regno vegetale, grazie alle grandi materie prime fornite direttamente da Federico Orsi che, caleidoscopicamente, è vignaiolo, orticoltore, allevatore nel hinterland bolognese di Pragatto.

Il metronomo della stagionalità scandisce implacabile la disponibilità dei prodotti offerti. Una sfida ritmica che sembra piacere assai a Lorenzo Vecchia, che consegna una sequenza degustata in un’ora e 15 minuti (dettaglio positivamente non trascurabile) e dove, vale la pena di dirlo subito, tutti i piatti hanno suscitato la nostra attenzione. Ricacci, sedano, pesto e alliaria celebra la selvatica croccantezza (ma non coriacea) vegetale, sublimandola tra le note affumicate della brace. L’Anatra poi viene spogliata della sua usuale cottura reinventandosi morbida tartare glassata con il suo fondo,  in contrappunti dolci pungenti tra la polvere di aglio caramellato e il berberè. La Vongola, topinambur, cocco, mandorle e garum di alici è ruffiana per dolcezza, ma nerboruta in carnosità il cui vezzo marino è esaltato in ulteriore spinta dal garum. Un grande piatto. Lo Spaghetto all’arrabbiata, dove la totale assenza del pomodoro è colmata dalla riduzione di peperone rosso e dalla pasta di peperone fermentata. Peccato per il banale errore tecnico della cottura. Si procede verso la conclusione con la Millefoglie di patata con crema di mais e paprika affumicata, dove il gradiente dolce del mais, spezzato sulla arrostitura della patata, è spolverata dalla spezia. La conclusione, classica, confortevole: un Bombolone (ricolmo) di crema e la Pera al vino rosso con crema alla nocciola. Praticamente nella casa di nonna dopo una spedizione di sette mesi in Amazzonia con solo una scatola di fiammiferi!

Che sia il singolo piatto o la sequenza da aficionado della tavola, la verve di Vecchia esprime una concretezza sia di forma che di sostanza capace di fare di Ahimè una di quelle tavole dove, 24 ore su 24 (quasi) il divertimento e il benessere dell’uomo – ospite e ospitato – la fanno da padroni. La valutazione, per ora, è arrotondata per difetto, ne vedremo delle belle, potenzialmente.

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