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Prima della Prima: Valeria Piccini

TORTELLI DI PATATE E VONGOLE CON CREMA DI FRIGGITELLI, SALICORNIA, PEPERONCINO E MANDORLE

Irriverente: è l’aggettivo forse più calzante per la cucina di Valeria Piccini, cuoca autodidatta capace di confrontarsi alla pari con i grandi. Della sua cucina (come pure di Carme Ruscalleda) si può ripetere quanto la femminista Hélène Cixous ha teorizzato sul potere dell’“écriture feminine”, ovvero che sottrae i sensi all’ortopedia concettuale: “impossibile definire una pratica femminile della scrittura, ed è una impossibilità che si manterrà, perché non si potrà mai teorizzare, rinchiudere, codificare questa pratica; senza con questo voler dire che essa non esista… Essa ha e avrà luogo fuori dai territori subordinati alla dominazione filosofico-teorica. Essa si lascerà pensare solo dai soggetti che rompono gli automatismi, da coloro che percorrono i bordi che nessuna autorità soggioga”: perché questo è esattamente il suo specifico.

E questa è anche Valeria Piccini, atopica nella mappa delle tendenze, inclassificabile nel catasto degli stili. Insomma libera e costantemente altrove. Soprattutto concreta, di quella concretezza che etimologicamente cum-cresce la materia cui applica di volta in volta il suo estro. I tortelli di patate e vongole ne offrono un esempio lampante, nella sfrontatezza con cui attraversano i confini senza perdersi nei minuetti diplomatici o pagare dazi creativi. Nel piatto, pensato per il recente spin-off di Caino, il ristorante fiorentino Winter Garden, c’è tutto: la tradizione toscana (il tortello di patate con la sfoglia callosa, caposaldo del Casentino e del Mugello), l’appeal neorurale (Valeria ha salde radici contadine), la contemporaneità tecnica. Il tutto condito da un ricordo involontario della Prima Secca di Uliassi, per via di una sincronicità disarmante: vongole + mandorle + alghe. Sebbene gustativamente resti quasi sullo sfondo.

“Siamo partiti dai tortelli, che qui ogni famiglia prepara a modo suo. Ma siccome sono piuttosto neutri, abbiamo pensato di abbinarli a un mollusco sapido, come le vongole. Le abbiamo aperte tuffandole per meno di un minuto in acqua bollente, dentro uno scolapasta, e poi passandole in acqua e ghiaccio, in modo che restassero quasi crude e turgidissime. Ce n’è una anche dentro ogni tortello. Nel ripieno di solito si impiegano aglio e prezzemolo, ingredienti che abbiamo messo a macerare nell’olio di nostra produzione, per poi procedere a un’emulsione con l’acqua delle vongole stesse, che non abbiamo disperso. Si tratta del liquido alla base del piatto. Quindi c’è una liquidità fresca, quasi estiva, che ricorda una zuppa; mentre il condimento sopra è asciutto. Una macchia di crema di friggitelli al Bimby e il resto degli ingredienti a crudo: il peperoncino a dialogare con i friggitelli; le mandorle tostate e la salicornia che riprendono la consistenza croccante e gli aromi ammandorlati e iodati del mollusco”.

TORTELLI DI PATATE E VONGOLE CON CREMA DI FRIGGITELLI, SALICORNIA, PEPERONCINO E MANDORLE, Valeria Piccini

alessandro panichi

Villa Aretusi non è ancora entrata nel tomtom dei gourmet, eppure il suo cuoco ha un curriculum ben assortito: prima Gualtiero Marchesi e Paolo Lopriore all’Albereta, poi Filippo Chiappini Dattilo, Antonio Ghilardi, Marco Fadiga, Nadia Santini, Angelo Paracucchi. Soprattutto Pier Bussetti, chef stellato della Locanda Mongreno e del Castello di Govone, di cui è stato lungamente secondo: un esponente fra i più irriverenti dell’avanguardia italiana anni 0, interprete di una tradizione eretica che per anni ha affiancato sul piatto l’originale e la sua evoluzione, inscenando una narrazione dove il parallelismo la fa da padrone.

Dal 2011 al ristorante Sotto L’Arco, presso il resort della prima cintura bolognese, il suo allievo sarzanese Alessandro Panichi continua a muoversi sulle stesse guide, infischiandosene dei richiami all’ordine che squarciano le gole dei critici passatisti e delle nonnine larvali. Il mix è sempre quello: solide basi classiche, canovacci intrisi di tradizioni regionali, affondi creativi che esplorano le frontiere estreme del gusto. Dove un richiamo al già noto c’è sempre, ma remoto e quasi pretestuoso, alla maniera di Paolo Lopriore.

Si legge per esempio nel filetto di triglia appena scottato all’unilaterale col coperchio, per salvaguardare l’umidità, su julienne di cavolo crudo e crema di ostriche a base di burro bianco, che si inserisce in modo originale nel filone paradossale dei “reverse crudisti” oggi in voga, dalla cotoletta sbagliata di Baronetto al brasato crudo di Milone. Perché sottotraccia si riconosce una choucroute di mare, grazie all’acidità citrica che rimpiazza quella lattica della fermentazione, senza disperdere le note sulfuree dell’ortaggio intatto; mentre la spolverata croccante di semi di coriandolo tostato in superficie cita una classica aromatizzazione, esaltando anche l’acidità. L’effetto è quello di una risacca: se Lévi-Strauss notava che non si dà arrostitura dopo la lessatura, perché invertirebbe il senso della storia (come tuttavia hanno fatto i nostri cuochi col moderno sottovuoto), il testacoda in questione è ancora più stordente.

Stessa trasparenza negli spaghetti affumicati con burrata e pepe, dove la pasta è affumicata 3 volte per mezz’ora a secco e a crudo, sottovuoto col fumo di trucioli di legno dolce e del finocchio secco; così come il sale per la lessatura e l’olio di girasole, scelto per la neutralità e la capacità di aromatizzazione. L’effetto è molto intenso, ma trova nella nuvola di formaggio ridotto in stracciatella al tempo stesso uno stemperamento morbido e un veicolo grasso, che con la sua patina tappezza il palato proteggendolo da un’aggressività ficcante. Il pepe nero e fresco in mignonnette, dal canto suo, chiude il triangolo della citazione: siamo di fronte a una cacio e pepe di nuovo conio, rivoluzionata nelle sue coordinate geografiche e gustative. Lo stesso minimalismo, con la nota affumicata a rimpiazzare gran parte della sapidità del formaggio, e una mantecatura altrettanto goduriosa. Perché il pepe tostato con una nocciola di burro e sfumato con l’acqua di cottura amidacea e affumicata, fino a ottenere un’emulsione arricchita dall’aggiunta di un cucchiaio di burrata, che si fonde al suo interno, accoglie la pasta insieme a un giro di olio affumicato in finitura.

Triglia, su julienne di cavolo crudo e crema di ostriche a base di burro bianco, Alessandro Panichi

Triglia, su julienne di cavolo crudo e crema di ostriche a base di burro bianco, Alessandro Panichi

Un’insalata, omaggio alla familiarità piemontese con gli ortaggi crudi, a base di asparagi verdi, bianchi e cetrioli in lamelle sottilissime, Un’insalata, omaggio alla familiarità piemontese con gli ortaggi crudi, a base di asparagi verdi, bianchi e cetrioli in lamelle sottilissime, Matteo Baronetto

Una grande anteprima per i nostri lettori, un’esperienza privilegiata con la presentazione di un piatto in esclusiva che rappresenta il nuovo corso di Matteo Baronetto. Un sentito “grazie” al duo stellare Meldolesi/Noto, infaticabili e unici.
Bruno Petronilli

Che cucina si mangerà al Cambio di Torino? Fra le punte di diamante della nuova cucina italiana, Matteo Baronetto si è distinto negli scorsi decenni per l’azzardo nella terra incognita dell’astrazione, la cui frontiera gustativa è avanzata senza sosta dietro intuizioni spiazzanti e personali, quando i cuochi italiani agitavano il retino verso abbinamenti e modus operandi della memoria. Parliamo di piatti miliari come il rognone con i ricci e la crème brûlée all’olio di oliva, totalmente privi di agganci nel ricettario tramandato, che presto troveranno posto nel menu di uno dei ristoranti più antichi e blasonati della scena italiana.

Lo spirito dei luoghi tuttavia presenta le sue legittime rivendicazioni a una presenza consistente in carta, per esempio nelle sembianze della finanziera, inventata su questi fornelli quale spuntino fra una seduta e l’altra del primo parlamento d’Italia, più che mai nelle corde di un cuoco versato nel quinto quarto. Che sia filologica o quale guarnizione dell’eccellente carne di fassona piemontese cruda, nel reverse crudista di un arrosto bagnato dal suo sugo. Ci saranno il riso alla Cavour e persino gli agnolotti, intramezzati a ricette basate su tecniche ancestrali, come il carbone che contende i fuochi della cucina Matinox, disegnata dallo chef, al gas e all’induzione.

La cucina a venire sarà poi frutto delle emozioni del momento, quotidiana coma una mamma che ogni mattina mette la casseruola sopra il fuoco. “Vivere il luogo, vivere il momento” taglia corto Baronetto, ponendosi al servizio della rénaissance in atto. Nell’attesa che come avveniva negli ultimi tempi a Milano, subentri la complicità dell’affidamento, il cuoco in sala, il cliente spesso e volentieri in cucina, entrambi tesi a soluzioni estemporanee oltre la rigida coreografia del menu.

Il piatto del ricominciamento a dire il vero c’è già: sa di primavera e di freschezza, dei primi colori verdi che osano bucare il disgelo. Un’insalata, omaggio alla familiarità piemontese con gli ortaggi crudi, a base di asparagi verdi, bianchi e cetrioli in lamelle sottilissime, da servire in entrata o alla fine del pasto. Con un omaggio discreto a Carlo Cracco, che ha fatto conoscere a Baronetto i piccoli produttori dell’ortaggio cult di Bassano.

Crudismo sì, ma anche macerazione. Perché il cetriolo sul fondo è condito 20 minuti prima dell’impiattamento con olio e colatura di alici per la sapidità, in modo che rilasci i suoi umori e le sue fibre. Completo della buccia, intreccia le sue note a quelle dell’asparago verde, secondo un taglio alla Michel Bras che risolve l’equazione fra la ricetta e il singolo vegetale. Perché si tratta di mixare percentuali di amaro e clorofilla differenti: da una parte il turione verde, aggraziato e femminile, tendente verso la liquirizia; dall’altro il bianco, ruvido e maschile, fibroso, lattiginoso e tannico. Tanto che una leggera spennellata di cioccolato bianco fuso ne mitiga il carattere, legandosi in un ricordo di pasticceria alla spolverata di pane saltato a mo’ di crumble in superficie. Quasi la scarpetta pastosa di un resto d’insalata.

Un benvenuto aurorale che spiazza: semplicità allo stato puro, esaurite le galoppate concettuali e i gongorismi del recente passato. Perché “l’avanguardia è stato un momento magico, che sono stato felice di avere vissuto. Eppure oggi è un bene che sia finito, perlomeno nelle forme in cui lo abbiamo conosciuto”.

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CREMA DI CECI E NOCCIOLE AL TARTUFO BIANCO, GELATO DI OSTRICHE

Pensavamo di averlo ripiegato in fondo a qualche scatolone, il trompe-l’oeil, genere egemone del lungo carnevale spagnolo, fra il trantran del repertorio e la quaresima interminabile della contemporaneità. Finito nella soffitta della storia con qualche coriandolo ancora sparso sopra, come una maschera divertente da rispolverare nelle occasioni di rito. Sorridendo del fungo-prosciutto di Quique Dacosta o del carpaccio di cocomero di Andoni Luis Aduriz, per non parlare della terra in cioccolato di Ferran Adrià. Virtuosismi certo, tesi a dimostrare la padronanza del cuoco sul prodotto, nel senso letterale del possesso. Antitetici rispetto al puritanesimo di quella cucina della verità che ha preso piede da qualche tempo a questa parte.
Pensavamo, appunto, perché il trompe-l’oeil probabilmente ha solo cambiato tecniche e funzioni, spogliandosi della dimostratività del tour-de-main per farsi attrezzo di una cucina del sospetto, che allerta maliziosamente l’attenzione di chi mangia su ciò che sta realmente mangiando. Niente di effettistico insomma, piuttosto un dubbio insinuante che rosicchia l’ideologia della cucina. Come nel caso della crema di ceci e nocciole al tartufo bianco e gelato di ostriche di Christian Milone, preview culinaire dove l’illusionismo si sdoppia in un gioco ora manifesto, ora sottile. Gustativamente e concettualmente stringente.
Da una parte la castagna-tartufo, presentata sotto la cloche e affettata con la mandolina d’ordinanza secondo la più popolana delle tecniche: i marroni di Garessio pelati sono rimasti chiusi in un barattolo sottovuoto insieme ai tuberi per 1 settimana, impregnandosi dei loro profumi come il riso, ma senza effetti disseccanti, per un esito di sorprendente intensità. Dall’altra la crema di ceci ottenuta unendo loro nel Bimby un 30% di nocciole trilobate di Langa, precedentemente cotte a 60 °C per 2 ore: la frutta secca viene trattata al pari di legumi, arricchendo la testura e veicolando i profumi sulle ruote della componente grassa. Infrangendo soprattutto la routine sul muro dell’errore categoriale calcolato.
Non basterebbe se questo monocromo di stagione, imbastito sul canovaccio del comfort food regionale, con la trama delle affinità merlettate di nocciole, non sbattesse sullo scalino poetico del contrasto, secondo una legge del bello. Quella che richiede che “la distanza sia estrema e l’evidenza inconfutabile”: “Come non scorgere una legge dell’estetica in questo obbligo di paragonare i contrari?”. È il gelato di ostriche crude e acqua di ostriche, contrappasso sapido, fresco e straniero, soprattutto interlocutore olfattivo del tartufo, che irretendo nel suo profilo iodato la prepotenza degli idrocarburi sposta lungo la mucosa olfattiva il baricentro del piatto.
Ma la carta a venire riserva altre sorprese: la cialda di porcino, capolavoro analitico dove il fungo è destrutturato e riassemblato (fuori una cialda composta di isomalto e cuticola, la parte più intensa, sporca e amarotica del fungo, trappola microbica del genius loci; dentro una farcia di cappella e gambo saltati; il tutto sospinto dal supporto di muschio e foglie secche nell’alveo di una cucina emozionale e dell’istante, che lavora separatamente sull’olfatto e sul gusto); l’iper-primitivista salmone “affumicato” dal mucchietto di trucioli di liquirizia a bordo piatto, con la guancia spadellata alla lavanda da scalcare a mano, sorta di sot-l’y-laisse ben più pallido, soave e moelleux del resto della polpa, sul modello delle kokotxas basche ma con crudeltà tutta nord-europea; la carne cruda brasata al vino rosso, crasi di due classici piemontesi che inverte crudo e cotto, come la cotoletta sbagliata di Matteo Baronetto, dove la classica battuta di coscia nella sua integrità aristocratica è condita dal sugo liofilizzato al vino rosso.

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Quando Anton Ego si siede per la prima volta al tavolo di Gusteau con, in cucina, l’improbabile duo Remy/Linguini, al cameriere consegna subito una domanda semplice e diretta: “vorrei un po’ di prospettiva”. Ecco, forse questa è l’unica grande e legittima richiesta che ognuno di noi dovrebbe porre al cospetto del grande chef: farsi aprire, con la sua arte (o presunta tale), nuove prospettive, nuovi orizzonti, mondi paralleli della conoscenza culinaria fino ad allora ignoti alla nostra percezione. Stupire, affascinare, irritare, tranquillizzare, ammaliare, confortare, ammiccare, semplicemente nutrire: sono tutte azioni nelle corde di molti, moltissimi chef. Ma aprire nella mente dei propri clienti nuove “prospettive”, beh no, signori, questa è una dote che appartiene solamente a pochi (e grandi) cuochi.

L’improvvisa chiusura dell’esperienza al Canto di Paolo Lopriore ha scatenato molte reazioni. Per fortuna forse Paolo è solo inciampato in un gradino malmesso della sua brillante carriera, come spesso capita agli chef della parte alta della classifica. Ricomincerà presto da un’altra parte, ne siamo certi. Di sicuro tutte quelle repliche convulse hanno ingenerato discussioni a non finire, fazioni pro e contro, e, in generale, non hanno aiutato a dissipare qualche personale perplessità che ancora mi attanaglia.

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