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Dabass

Eravamo tre amici al bar, ora abbiamo un bistrot alla moda, a Milano

Porta Romana bella. Il quartiere di Milano vicino alle Mura spagnole è sempre più vivace e ricco di locali degni di attenzione. Come il Dabass, ristorante, bistrot, american bar con un nome che più milanese di così non si può. Un ambiente moderno e insieme retrò, comunque giovane e dinamico. Il primo colpo d’occhio è sul bancone optical in piastrelle bianche e nere, opera dell’artista Graziano Locatelli. Cameriere con piercing, cuochi e barman hipster. “Barbman” intraprendenti. In sala l’accoglienza è curata da Maddalena Monti, padrone del bancone è il bartender Robi Tardelli, in cucina lo chef è Andrea Marroni, e tutti e tre provengono dal Mam della vicina via Muratori. La cucina neo-bistrottiera è più appagante alla vista che al gusto, a tratti scomposto e non coerente con il modello di bistrot moderno e creativo. Ma ha tutte le potenzialità per crescere velocemente. La formula del locale è interessante e la scelta della materia prima anche. Vedi la carne del Macellaio Sergio Motta.

Un american bar dove mangiare (quasi) come a casa

Abbiamo degustato diversi piatti: Cacio e pepe, coratella e carciofi, la pasta era fredda, la coratella troppo asciutta. Gustoso l’Uovo poché con crema di risotto alla milanese e guanciale croccante. Tuttavia, abbiamo trovato un eccesso di cremosità tra l’uovo e la crema alla milanese. Più convincente il Baccalà mantecato con spuma di latte. Tra i piatti più interessanti il Puccia ragù, mini hamburger commisto con la tradizione della Puccia salentina innestata con gli sfilacci di vitello, la scamorza e il cavolo nero. Eppure anche qui si insiste troppo sulla cremosità e sull’impiego del cavolo nero.

Insomma Dabass ha tutte le carte in regola per imporsi, come tra l’altro sta avvenendo come un locale “alla moda”, che per ora ha centrato l’obbiettivo soprattutto sul lato del beverage, mentre il menu, che comunque varia di frequente, non è ambizioso quanto il costo dei singoli piatti fa intendere (in media 18/20 euro ciascuno).

La galleria fotografica:

La prima succursale di Cannavacciuolo: un bistrot comme il faut

Il termine bistrot, oggi molto abusato nella ristorazione, viene associato a una tavola economicamente accessibile, poco formale o, come nel caso del coinvolgimento di un grande cuoco, a una sorta di versione low cost del ristorante principale, una (preziosa) vetrina accessibile a una ampia e disparata gamma di clienti.

Raramente però evoca quello che forse è il significato più autentico da cui nasce il termine transalpino, ossia un caffè/osteria con vini alla mescita.

Ecco, il bistrot di Antonino Cannavacciuolo, tavola pilota delle sue aperture “pop”, che esprime al meglio il vero significato di bistrot.

Dopo essere entrato nelle case di molti italiani, facendosi amare dal pubblico di tutte le età per la sua genuina presenza, Cannavacciuolo ha deciso di ampliare il suo raggio d’azione – per il momento all’interno dei confini sabaudi – cavalcando l’onda del successo televisivo, con due poliedriche succursali del suo bellissimo ristorante sul Lago d’Orta. E, neanche a dirlo, il successo non si è fatto attendere.

Certo, è inutile ribadire quanto lo chef partenopeo sappia il fatto suo in cucina e, soprattutto, quanto sia bravo come ristoratore. Il progetto novarese, sorto negli spazi del foyer dello storico Teatro Coccia, ne è una piacevolissima conferma. Anche al di sopra delle aspettative.

Sala piena, servizio rapido e piatti all’altezza

Il fatto che ci facciano aspettare qualche minuto per (ri)apparecchiare il nostro tavolo (al secondo turno!), servendoci al bar una bollicina e una eccellente pizza fritta, ci fa subito capire che siamo al cospetto di una piccola macchina da guerra. La sala è piena, ma tutto scorre con ritmo incalzante. Nel menu gli antipasti, i primi, i secondi e i dolci sono suddivisi in metaforiche categorie teatrali, ouverture, musical, opera e balletto.

La cucina, affidata al bravo Vincenzo Manicone, viaggia in parallelo con lo stile proposto al Villa Crespi; i piatti sono equilibrati e armoniosi. È una cucina solida ed elegante, caratteristica, quest’ultima, che ha sempre contraddistinto lo stile dello chef partenopeo.

Ad esclusione del sapore evanescente di uno degli stuzzichini iniziali e del pre-dessert (una spuma al basilico e limone), abbiamo apprezzato praticamente tutto: dalla rotondità degli Spaghettoni con trippa, burrata e gamberi rossi, ai domati contrasti fenico-acidi del Risotto con ricci, cavolfiore e tuorlo d’uovo marinato al bergamotto, fino al classico Capocollo di maialino con zucca e aglio nero. Interessanti e moderni anche i dolci, a tratti anche più audaci dei piatti salati, inclusa la golosissima piccola pasticceria nel finale.

Troviamo intelligente anche la politica sui ricarichi delle bottiglie. Assolutamente in linea con i prezzi (contenuti) dell’intera offerta. Bravi.

Il servizio è ben oliato, sebbene si mostri un po’ distaccato e sbrigativo (forse c’e qualche coperto di troppo?); gli ambienti sono poco ariosi e gli spazi ridotti, anche se i dettagli degli arredi sono curati e conferiscono al luogo una identità ben definita.

Un’esperienza complessiva decisamente di qualità.

La galleria fotografica:

Modernità e sostanza a Roma, nel Ristorante neo-bistrot di Davide Del Duca

Montagne russe. Susseguirsi disordinato di salite e discese. Un percorso che molti ripeterebbero continuamente. Picchi di gioia, stupore, spensieratezza. Come ogni cosa, destinata a non piacere a tutti.

Non distante dal quartiere di Porta Portese, quattro ampie vetrate affacciate su strada preservano un locale delineato da freschezza e modernità minimale. Osteria Fernanda si presenta con un design contemporaneo e una proposta da ristorante neo-bistronomico, con un’ampia cucina a vista, regno dello chef Davide del Duca. Un timbro culinario attento alle tecniche moderne, ai contrasti spiccati e agli ingredienti ricercati (anche internazionali), ma radicato nei gesti autentici della tradizione laziale.

Gli amuse-bouches sono una convincente anteprima dell’intero percorso. Segue la piadina di sole cozze ripiena di burrata e ombrina: un piatto che trova nel gel di pompelmo rosa, nell’alga wakame e nel nasturzio il giusto slancio di sapori iodati. Rotondo e sostanzioso il gusto dell’animella accentuato dalla frizzante polvere di fragole. Cottura da manuale per il risotto alle erbe: acidità spinta, attenuata dal gelato al formaggio Conciato di San Vittore del produttore Vincenzo Mancino. Il miso esalta il tutto, in un assolo conturbante. Solido e avvolgente lo spaghettone con melanzana bruciata (ad evocare un nero di seppia vegan) con crudo di gambero rosso, pistacchi e coriandolo. Spigoli gustativi accentuati e carni succulente, sia nell’anguilla laccata con verdure al bitter; sia nel piccione al Bbq con fegato di rana pescatrice e limoni di mare. Sapidità, dolcezza e acidità in progressione.

Dolci dinamici, contaminati e poco zuccherini, come l’ottima spuma di aglio nero, gelato alla birra, bucce di tuberi e crumble di cioccolato. In sala regna l’ordine con massima attenzione per l’ospite, merito di Andrea Marini e Manuela Menegoni, che curano una brillante cantina di oltre 250 etichette: accontentando ogni gusto, voglia o necessità enologica. Osteria Fernanda non può piacere a tutti e non ha la presunzione di farlo. Lo stile della cucina è ben definito e stimola con estro il palato ad ogni portata. Senza ombra di dubbio uno degli indirizzi, per genere e identità, più convincenti della Capitale.

Un neo-bistrot Milanese con un cuoco di talento, ambiente giovane e dinamico.

Basta vedere la foto di apertura per rendersi conto di quanto al Rebelot sia un miracolo ogni cosa. Vedrete sfrecciare Matteo Monti, il cuoco, a 200 all’ora durate tutto il servizio. In una cucina angusta a dir poco, tutti si chiedono come il folletto piacentino riesca ad impressionare clienti affezionati e non con le sue preparazioni.
Cibi e piatti complessi, articolati, frutto spesso di intuito e istinto. Non sempre perfettamente bilanciati ma, ça va sans dire, è già un miracolo che da quei 4 metri quadri esca una cucina decente, figuriamoci alcuni capolavori come Matteo ci ha preparato.

Difficoltà, costrizioni, concessioni, compromessi? Noi, più che il lato oscuro della forza, parafrasando una nota saga fantascientifica, ci vediamo tanto sentimento, tanto istinto, tanta voglia di fare in una condizione disinibita, fin anche irriverente, quasi pulp.
In questo rebelot (confusione, guazzabuglio per i non meneghini) Matteo e i suoi collaboratori hanno mille alibi, ma non ne usano neanche uno. Osano, rischiano, creano, sperimentano. E si muovono con la libertà dei grandi, di coloro che sono sereni perché non hanno nulla da perdere, che sono afflitti, anzi stimolati, dalla trance agonistica di finire sani e salvi ogni servizio.

Ed allora ecco roteare mani, correre a destra e a manca, estrarre, cucinare, rigenerare, lanciare, depositare e poi via, verso un nuovo piatto, verso un nuovo affanno.

Tutto questo genera una tensione immensamente positiva. Noi, un venerdì sera da fully booked, al banco, abbiamo visto Matteo fare almeno 10 km in quei 4 metri quadri. E riuscire a farci degustare dei veri e propri capolavori come ombrina, cozze fritte, brodo di cozze e cacio e pepe, in cui il brodo, intenso e persistente – e leggermente acidulato – aveva un ruolo da assoluto protagonista. Fantastica, stupefacente, ed irridente la schiacciata romana con il diaframma e ottime le alici fritte, con il tocco di pan d’epices a donare aromaticità e dolcezza.

Ma tutti, davvero tutti i piatti tutt’altro che banali oltre che incredibilmente buoni. E a questo punto, per i rischi che si prende, per la cucina che esprime, per l’ambiente in cui lavora e, non ultimo, per un solido e preparato servizio a supporto, abbiamo deciso di arrotondare in eccesso la valutazione, perché secondo noi Matteo e la sua cucina se la meritano ampiamente.

Se volete trascorrere una serata divertente, stimolante e molto Pulp andate al Rebelot, non ve ne pentirete affatto!

Chissà se Simone Tondo, nel corso della sua esperienza con Petter Nilsson alla Gazzetta (uno dei locali cult del fenomeno “bistronomie”), immaginò mai che un giorno quel locale sarebbe stato suo.
Il destino sa riservare delle buffe sorprese…
Lo avevamo lasciato al suo Roseval, locale che aveva infiammato la scena parigina registrando un consenso di pubblico oltre ogni più rosea aspettativa: ceduto, alla ricerca di nuovi stimoli (ora Roseval è diventato Dilia, altro successo targato Italia in mano a Michele Farnesi).
Lo ritroviamo al 29 di Rue de Cotte, in questo locale mitico rinominato semplicemente “Tondo”.

E’ un periodo d’oro per i “nostri” cucinieri italiani a Parigi, con Passerini a rappresentare più di tutti l’immagine della cucina italiana moderna in grado di sfondare nella Ville Lumière.
Perché sanno innovare e rinnovarsi, anche nei momenti di grande successo non smettono mai di evolvere il loro concetto di cucina e di cercare nuove sfide.
Rilevare la Gazzetta è stato certamente un colpo di grande coraggio: un locale bello, più curato rispetto al Roseval (meraviglioso il pavimento e i tavoli in marmo), ma anche più grande, più impegnativo nella gestione.
La proposta è rimasta la stessa: menù fisso per tutto il ristorante, con solo due opzioni tra 4 portate a 45 euro e 7 a 60 euro. A pranzo una conveniente proposta a 25 euro.

La cucina invece presenta qualche evoluzione: la sensazione è che sia ancora in stato embrionale, che non si sia puntato perfettamente l’obiettivo. Eleganza o rusticità? Finezza o pienezza?
Ci si muove in maniera non sempre disinvolta tra piatti molto precisi, come l’anatra o lo strepitoso astice in crema di funghi, ad altri altrettanto buoni ma più da trattoria che da ristorante, vedi i ravioli, sormontati da molto pomodoro, piatto decisamente più gourmand che gourmet.
Un problema? Assolutamente no, l’appagamento può essere analogo, ma bisogna avere ben chiaro cosa si vuole fare. Altrettanto importante la concentrazione dei sapori, a volte sfuggenti, come nel caso del rombo e della sua salsa o del predessert, altre volte intensi (vedi i grandiosi dettagli dell’uva acetata o dell’ottimo cavolo nero nella portata principale di carne).

Insomma, si sta bene, molto bene, ma ancora si intuisce che non tutto sia perfettamente a fuoco.
Gli ingredienti per fare bene ci sono tutti: un cuoco di grande talento, un bel locale e una squadra di livello, con il reparto vino seguito da Jos Kjer, sommelier proveniente dall’altro locale mitico del fenomeno bistronomie, lo Chataubriand. Corsi e ricorsi storici.
Tempo al tempo.
Qui si faranno grandi cose.

Inizio con influssi orientali: brodo/dashi.
brodo, Tondo, Chef Simone Tondo, Parigi

Appetizer.
Sgombro, salsa verde e oxalis.
Focaccia.
Zuppa di crescione e calamari crudi.
appetizer, Tondo, Chef Simone Tondo, Parigi
appetizer, Tondo, Chef Simone Tondo, Parigi
Tondo, Chef Simone Tondo, Parigi
Arrosto di sottofiletto, cipolle marinate, foglie di mostarda e pepe nero.
Un buon piatto, il ricordo va agli arrosti delle Piole piemontesi.
arrosto, Tondo, Chef Simone Tondo, Parigi
Rombo liscio, rape marinate, salsa pil pil.
Qui manca proprio il gusto. Portata che scivola via anonima.
rombo, Tondo, Chef Simone Tondo, Parigi
Astice, funghi, crema di funghi, mizuna.
Primo colpo di alto livello. Abbinamento perfetto, grande eleganza, concentrazione di sapori. La strada è questa.
astice, Tondo, Chef Simone Tondo, Parigi
Ravioli di farina di riso con spinaci, ricotta e pomodoro.
Buoni, ma si fa a fatica a trovare un nesso con il resto del menù (se non nella voglia di riproporre un pezzo di Italia da cartolina). Se decidi di fare un piatto così nel corso di un menù di questo tipo, deve essere una cannonata tutto, dagli ingredienti all’effetto finale: risultato non raggiunto.
ravioli, Tondo, Chef Simone Tondo, Parigi
Anatra, purè di olive, uva acetata, cavolo nero.
Gran piatto in ogni dettaglio. L’apice della serata si tocca nel piatto più complesso e completo e questo è un ottimo segnale. Simone Tondo è indubbiamente un grande cuoco.
anatra, Tondo, Chef Simone Tondo, Parigi
Flan di yogurt di e mango: manca l’apporto del mango.
flan, Tondo, Chef Simone Tondo, Parigi
Torta cioccolato, pralinato e salsa al mandarino: torta semplicissima ma eseguita divinamente. Morbido/croccante, amaro/dolce, un pizzico di acidità. Ottimo.
torta, Tondo, Chef Simone Tondo, ParigiAnjou Mosse 2015.
vino, Tondo, Chef Simone Tondo, Parigi