Dubai è un luogo dove tutto è possibile e, quasi sempre, i concetti di lusso e ospitalità vanno di pari passo. Orfali Bros, considerata da critica e pubblico una delle migliori tavole della città, invece, è un luogo dove si respira un’atmosfera tranquilla e in contrapposizione con la vasta opulenza circostante. Un bistrot che, sebbene sia considerato il miglior ristorante dall’autorevole classifica della World’s 50 Best – edizione Medio Oriente e Nord Africa – propone piatti tutt’altro che sofisticati, con una bella centralità gustativa e un debole per l’alta pasticceria francese. È qui, a due passi dall’impressionante Burj Khalifa e dalla parte vecchia della città, che i tre fratelli immigrati dalla Siria rompono le regole della loro tradizione gastronomica e vanno alla scoperta di nuovi sapori e sensazioni, pur rimanendo legati al loro passato e ricordando le loro origini. Lo scopo della loro cucina è quello di evocare un senso di creatività che sia trasversale ed immediata per adattarsi alla multiculturalità e all’avanguardia di Dubai. Un viaggio gastronomico che contempla ingredienti, tecniche, tradizioni e influenze da tutto il mondo al fine di dare forma ad una cucina mediorientale contemporanea e popolare.
Orfali Bros condivide con i commensali due passioni: la prima è quella di Mohammad, personaggio televisivo molto noto, che si focalizza sull’offerta salata, tra bocconi simil-tapas da condividere tra i commensali, che danno grande soddisfazione, come le interpretazioni dei cibi da strada o la Pita, servita proprio come una pizza, a dimostrazione del multistrato culturale di influenze gastronomiche che va in scena su questa tavola; la seconda passione è quella per la pasticceria, qui messa in atto con solidissime basi dagli altri due fratelli, Wassim e Omar, che spaziano, anche in tal caso, a reinterpretare i sapori del passato e della tradizione a loro cara riesplorandole in chiave francese, ma non solo. Da Orfali Bros dietro ogni piatto c’è una storia che può essere riassunta con la descrizione di due dei piatti più iconici presenti in carta: l’insalata Guess What?! che è un piatto nato per essere un fattoush mediorientale, successivamente arricchito da olive e formaggio come da tradizione siriana, e trasformato in un’insalata greca e, infine, trasformato in una sorta di gazpacho spagnolo. A pochi giorni dall’apertura, però, lo chef Mohammad, temendo che il personale di sala trovasse difficoltà a spiegare il piatto al commensale, ha pensato di ribattezzare questa insalata con il nome “indovina cos’è?”. Una versione moderna di un’insalata tipica levantina ma con un tocco mediterraneo. Allo stesso modo lo Shish Barak, piatto siriano di pasta ripiena e yogurt viene servito in un gyoza rievocando i manti della tradizione turca/armena/afgana/saudita, in questo caso farciti di manzo wagyu, serviti con yogurt all’aglio, olio di sujuk, pinoli e menta. Davvero tutto impeccabilmente eseguito e sapori concentrati e persistenti.
Quanto al resto, il servizio ci è sembrato amichevole ma, in alcuni casi, poco attento al punto da non averci fornito, inizialmente, tutte le informazioni utili in merito alle bevande. Tra queste, non c’è traccia di vini o alcolici. Soltanto una ristretta selezione di acque profumate, bevande analcoliche fatte con frutta fresca, tè e caffè, tutto selezionato con grande attenzione.
IL PIATTO MIGLIORE: Guess What?! pomodori locali latto fermentati, cetrioli, erbe aromatiche, feta e olio d’oliva.
Forte dei Marmi è stata tra le prime località della Versilia ad aver avuto un grande successo sin dagli anni ’60 e ciò ha inevitabilmente portato alla nascita di strutture ricettive e ristoranti che in alcuni casi fanno parte della storia della ristorazione italiana. Il Bistrot della famiglia Vaiani ha una storia che parte da lontano (iniziata negli anni ’70 con una storica trattoria) e, in un passato relativamente recente, è approdato a una cucina ricercata ed elegante grazie ad Andrea Mattei, Chef di origini versiliesi tornato nella sua terra dopo una formazione in giro per l’Europa. Questo locale, situato sul lungomare, è oggi una realtà rodata che riesce a proporre ristorazione d’alta fascia per un numero non indifferente di coperti durante tutto l’anno. In tavola arrivano principalmente proposte di mare che sono spesso abbinate ai prodotti dell’orto della Fattoria Vaiani, che la famiglia gestisce sulle colline lucchesi. Vegetali che, alcune volte, sono anche protagonisti assoluti come l’eccellente Cavolo romanesco cotto al forno a legna con corbezzolo e foglie di olivo.
Tra gli antipasti è difficile dimenticare i Calamaretti arrosto ripieni di crema di patate abbinati a una bietola dal sapore autentico: un passaggio elegante e bilanciato. Tra i primi piatti il Risotto al burro acido e liquirizia viene “impiattato” al tavolo e adagiato su seppie arrosto e puntarelle: un’esecuzione magistrale sia per la cottura del riso che per l’amalgama dei sapori armonici ma al contempo persistenti. Buona tecnica esecutiva che si riscontra anche nei Cappellacci di orata con ricci e funghi pioppini e nel Branzino, dalla cottura millimetrica, accompagnato a cime di rapa e sedano rapa, un passaggio meno ardito ma di indubbia bontà. Unico passaggio a vuoto il Polpo, in cui la cottura, a nostro avviso eccessiva, ledeva la croccantezza e la callosità tipica del mollusco.
Ben eseguiti e di stampo classico i dolci, vasta e personale poi la carta dei vini, mentre il servizio attento e cordiale è pronto a far dimenticare alcune disattenzioni dovute, probabilmente, alla gestione dei tanti coperti.
Eugenio Anfuso e Cecilia Spurio fanno coppia fissa nella vita e nel lavoro. Da poco sono a capo della cucina di Korus, piccolo bistrot parigino tra Bastille e République. Dopo aver cucinato straordinari piatti di pesce chez Bernard Pacaud (ed esperienze precedenti da Igles Corelli, Aimo e Nadia e Pascal Barbot) lui, e dessert di un certo livello in alcuni tre stelle (Enrico Bartolini, Pierre Gagnaire e Guy Savoy, dopo essersi formata all’ALMA) lei, hanno deciso di fare il passo decisivo della loro carriera e lavorare spalla a spalla mettendo a frutto le loro esperienze.
Il risultato si è materializzato in una cucina quasi istintiva sorretta però dalle solidissime basi classiche francesi. Da Korus, infatti, Eugenio e Cecilia propongono una cuisine du marché che più istintiva non si può. Un menu in costante movimento che ha conquistato subito la fiducia dell’esigente cliente locale, molto avvezzo alle proposte “bistronomiche” di qualità dello sterminato panorama gastronomico cittadino. Ambiente chic e sobrio e due menù degustazione per la sera, uno a 62€ con 7 portate, antipasti e pasticcini, l’altro a 72€ con 8 portate, stuzzichini e mignardises finali.
“Préparations créatives de produits bien élevés” è la filosofia di questo locale. I piatti sono divisi in capitoli, a raccontare una storia che varia con il variare delle stagioni e del mercato. Una sequenza di sensazioni e ricordi: acidità, braci, ripieni e farce, suggestioni di Bretagna, affumicature, primavere e infanzie. I due giovani cuochi ci hanno dato saggio di grande esperienza con colpi di classe come il Carciofo alla brace, latte di Chevre e liquirizia, il Piccione, ketchup di peperone, ribes e mezcal o gli elegantissimi dolci: la Mousse al lime, piselli, basilico e citronella o la Meringa al rabarbaro, riso al latte e anice verde, eccezionalmente giocato tra contrasti piuttosto spinti.
Parliamo di due talenti da tenere attentamente d’occhio, che si cimentano con una cucina che ricorda molto le grandi tavole “bistronomiche” parigine, tra Inaki e Passerini, ma non solo. L’esperienza viene completata da un servizio giovane, rapido e amichevole e da una proposta di etichette di vini naturali, mai in voga come oggi.
Bistrot di un’osteria – o meglio, della “osteria” par excellence – Franceschetta58 non è però “sorella minore” della mondialmente nota Francescana, il ristorante modenese di Massimo Bottura, cuoco giustamente onusto di gloria e onori. Non è “minore” Franceschetta58 – al di là che così per lungo tempo la si è presentata (fino a che sul sito web si è poi rettificato in «bistrot di») – perché in effetti è un locale che, negli anni, ha maturato uno stile definito e una cucina “personale” e identitaria.
Se ai tavoli della Francescana, la proposta è frutto di una geniale rilettura globale che chiama in causa i grandi piatti classici di derivazione francese, le tradizioni regionali italiane, nonché spunti e ingredienti che giungono dai cinque continenti (con particolare attenzione per il Giappone), alla Franceschetta58 sono soprattutto le ricette e gli usi emiliano-romagnoli a essere posti al centro delle meditazioni del giovane cuoco – Francesco Vincenzi – e della sua brigata. Qua e là, poi, senza pesantezze né cerebralismi, appaiono alcuni azzeccati tocchi fusion e alcune lievi inflessioni nipponiche che vivacizzano ulteriormente l’esperienza del gusto. A contorno l’ambiente accogliente, l’atmosfera piacevolmente informale, il servizio giovane, attento, sorridente e una carta dei vini, giusta in ampiezza, che predilige le etichette naturali e i nomi meno “noti”, e che permette di bere bene a prezzi corretti.
Emilia-Romagna in cucina, si scriveva poco sopra: è lei la protagonista ai fornelli, con il territorio geminiano sugli scudi (d’altronde il claim di Franceschetta58 è appunto «I love Modena»). Tradizioni local e materie prime altrettanto local concorrono a tratteggiare una rilettura, viva e meditata, di piatti e ingredienti iconici di questa ricca regione: come i modenesissimi tortellini con crema di Parmigiano Reggiano, come la ravennate pasta con granchietti e granceola, come i riminesi fritto e grigliata di pesce (nel nostro caso mazzancolle “tra il crudo, la griglia e il fritto” con agrumi e il suo fondo) o come il cesenate piccione (nello specifico con rapa rossa marinata e salsa al Porto, quasi una citazione di un antico piatto del compianto Gianfranco Bolognesi della Frasca di Castrocaro Terme).
Dal punto di vista meramente tecnico la cucina, assai parca nelle sapidità (ma questo non è un male, anzi), pare prediligere un approccio “classico” nella costruzione dei piatti. E gli elementi, in genere pochi, sono accompagnati da fondi (ben fatti: né pesanti ma neppure inconsistenti) che vengono perlopiù aggiunti al momento del servizio. Ovviamente, come nella migliore tradizione botturiana, non manca il fegato. Alla Francescana è il celeberrimo croccantino di foie gras al Balsamico. Qui invece, tenendo comunque fede all’idea del piatto da gustare in uno o due bocconi, è un più “povero” e più “deciso” paté di fegato di faraona con Albana passito, noci tostate e marmellata di cipolle rosse. Risultano, invece, un po’ “ostici” i piatti meno lineari, quelli che presentano più ingredienti. A fronte di una bella piacevolezza aromatica, il (codigorese) risotto mantecato con crema di anguilla affumicata, oltre a scontare una tostatura non perfetta (la superficie del chicco, infatti, appare non liscia ma irregolare e sfaldata) fa sorgere, in bocca, alcune percezioni metalliche date dallo scontro delle note affumicate del pesce con il rafano fresco, che viene grattugiato all’ultimo momento, prima di portare il piatto in tavola. Anche fungo, cotechino, aglio nero (ovvero crema di funghi galletti al forno, brodo di porri, crema di aglio nero fermentato, prezzemolo, cotechino e tartufo bianco) appare un piatto irrisolto: gli ingredienti farebbero pensare a una pietanza sontuosa: ricca, grassa, profumata. Di soddisfazione, insomma. L’esito – non che non sia buono – è però assai esile: lontano dall’idea che, almeno sulla carta, sarebbe logico aspettarsi da tal proposta.
I golosi si possono però rifare con la coppa di Mora Romagnola che, dopo essere passata per 24 ore in salamoia, viene scottata in padella con una bella salsa di aringhe e cicoria, e con i dolci. Fra i quali, chi scrive, consiglia la torta sabbiosa con gelato al mascarpone e marasche calde. E allora, finalmente paghi, con la mente non si potrà non riandare – almeno per chi ha avuto la ventura di assaggiarle – ad altre mitiche “sabbiose”, come quella di Franco Colombani, del Sole di Maleo, appena oltre il Po… Perché la cucina niente altro è che un intreccio di piaceri, e di ricordi…
In un bellissimo locale costruito su fondamenta di resti romani si esprime una offerta polifunzionale che vede al centro il bistrot, al piano superiore, mentre, al piano interrato, sono presenti quattro tavoli per il fine-dining. Un progetto ambizioso per Aosta, che vuole riportare la città ai grandi fasti culinari del passato. Eppure, ancora, così embrionale da legittimare l’assenza di valutazione: perché Quintarius è ancora in divenire nello sviluppo della sua forma e della sua sostanza. Ed è proprio dell’ultima ora la notizia che la squadra ha lasciato Quintarius per divergenze con la proprietà.
Peccato perchè se il buongiorno si vede dal mattino ciò che ci hanno regalato Marco Viganò, Alessandro Esposito e Jessica Gussoni fa davvero tremare i polsi e gli stomaci di tutti noi appassionati gourmet. Non ci dilunghiamo sui trascorsi del trio, anche se tutti e tre sono accomunati da una grande esperienza e presenza lavorativa nelle principali e più blasonate tavole d’Oltralpe. Addirittura Viganò ha detenuto e diretto un ristorante stellato Michelin in quel di Roanne, il che non è poco. Ma la loro mai celata passione per le preparazioni classiche della cucina francese, che attraversa salse, fondi, tourte, terrine, cotture en veisse e una incredibile padronanza e passione per sfoglie, involucri, creme, concentrazioni vi donerà un godimento davvero unico nel panorama italico.
Le influenze delle esperienze francesi, tra Christophe Pelè e Giuliano Sperandio e Giovanni Passerini, da Marc Veyrat a Silvio Salmoiraghi, sono coniugate e armonizzate dalla guida del maestro Viganò, fautore di questo trittico d’attacco formidabile, palese e concretizzato in una cucina che potremmo definire fuori dal tempo, di stampo contemporaneo-classico, eseguita con materia prima d’eccellenza e sapiente uso delle mani e delle tecniche culinarie.
Le foto di questo prezioso pranzo sono qui a testimoniare quanto un Abalone glassato con il fondo dell’animella d’agnello e con il suo ragoût dialoghi con l’Insalata di fragole in carpione ed alghe. Come quel Risotto non convenzionale, mantecato al burro d’aglio orsino e impreziosito da un fine ragoût, anche qui, di chiocciole inneggi alla contaminazione franco-italiana. Come uno splendido Astice risulti raffinatamente impreziosito da una bernese alle erbe e da un rognone poché, dalla cottura millimetrica. E potremmo continuare all’infinito, lungo un percorso che ha espresso una cucina identitaria, formidabilmente eseguita, golosa ma al contempo raffinata. Un esperimento franco-italico davvero riuscito, che ci ha fatto divertire non poco.
Le ambizioni erano elevate, peccato per questa istantanea già subito sbiadita, per tutti gli appassionati che avrebbero fatto il viaggio per provare questa interessante cucina.