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Ernst

Solo 12 coperti per assaggiare la cucina di un giovane, ma esperto chef

Poche volte, dopo un’onorata carriera di giramondo della forchetta, viene ancora voglia di mettersi in aereo per un blitz di meno di 24 ore, alla scoperta di una “next big thing” di uno chef di cui si sa pochissimo ma si dice sia mirabile.

Quella di Dylan Watson-Brawn, però, sulla carta pareva davvero una storia fuori dal comune. Ventiquattro anni, canadese, inizia a cucinare a quattordici nelle cucine della natia Vancouver, lascia il suo paese a sedici e inizia a girare per il mondo. Comincia da Ryugin, meta oggi ambitissima di chef occidentali ben più maturi e si irrobustisce tra Eleven Madison Park e Noma, prima di creare un “home restaurant” a Berlino e chiamarlo Ernst in onore di un amico (e, crediamo, anche per evocare l’”onestà” del progetto).

Da quel primo Ernst – mantenendone l’idea di fondo – passa a questo: un vero ristorante, con un bancone da 12 posti, in una zona semi-periferica della città, in cui propone, insieme a un team di coetanei di provenienze diverse, una visione molto convinta della cucina contemporanea. Una visione fatta di materia prima ricercata in modo maniacale (in un Paese molto poco familiare con una visione di questo tipo), di una marcata predilezione per il mondo vegetale, di un’assenza di cesure tra cucina e servizio, con i diversi membri della squadra pronti ad assumere ruoli mutevoli nel corso della cena, con una naturalezza che ricorda davvero una serata tra amici.

Non esiste possibilità di scelta, a parte quella di indicare intolleranze sin dalla prenotazione (attenzione: si paga al momento in cui si riserva il proprio posto online), e il percorso si articola in oltre trenta passaggi, che hanno l’obiettivo di proporre all’ospite una successione variegata in termini di ingredienti, tecniche, suggestioni di cucine diverse.

Un menu  con tante, troppe suggestioni

I piatti proposti, come detto, sono tanti e da tutti traspare una grandissima maturità tecnica: cotture, quando ci sono, millimetriche; sottigliezze gustative e di texture che lasciano trasparire un chiaro imprinting nipponico. E, per ogni piatto, massima qualità degli ingredienti ottenibile a queste latitudini, che non sono le più fortunate al mondo per alcuni dei componenti dei piatti stessi.

Cosa modera, quindi, l’entusiasmo di chi scrive? La formula stessa delle cene-degustazione di oltre tre ore, che mostra sempre più la corda, anche nelle sue migliori espressioni, perché spesso i “piatti” sono più suggestioni che proposte compiute; bozzetti, squarci illuminanti ma non finiti, che si vorrebbero ridotti in numero, ma più esaustivi. Non è certamente colpa dello chef e riusciamo anche a comprendere la potenziale attrattività per un team di cucina di esprimersi con spunti, magari ispirati alle diverse influenze che il team ha avuto negli anni, anziché con piatti più compiuti e, probabilmente, più meditati. Il problema è che – solo in casi rarissimi – nella nostra esperienza, queste lunghissime sequenze riuscivano a tradursi in un’esperienza complessiva appagante e mai noiosa e non è stato questo il caso.

Alcuni episodi restano nella memoria come la Chip di grano saraceno con miso, di enorme persistenza, e il Peperone in dashi (etereo). Oppure il meraviglioso Donut glassato al sambuco. Altri si fermano a una scintilla, come il Semifreddo di nocciolo di prugna, che sogneremmo di ritrovare abbinato ad altro, con “morso”, in un dessert indimenticabile; altri ancora, come il cavolo dalle (ennesime, nella cena) note affumicate, si sovrappongono a piatti precedenti senza lasciare il segno.

La sensazione complessiva è quella di aver incontrato un grande talento, affiancato da una compagine di anime affini – bello vedere ragazzi così seriamente intenzionati a fare bene da soli in una prospettiva mondiale e non locale – in una fase iniziale della sua carriera. Uno chef da seguire nel tempo, perché Watson-Brawn vuole giocare già da oggi in prima divisione e, senza cercare giustificazioni paternaliste legate all’anagrafe, potrà senz’altro farlo se la sua cucina avrà saputo trovare, come quelle dei grandissimi, una sua espressione più risolta e completa.

La galleria fotografica:

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Berlino è incredibile crocevia di culture e tradizioni che affonda le sue radici sia negli eventi storici che ancora segnano indelebilmente le sue strade, sia nella particolare posizione geografica, ultimo avamposto occidentale del vecchio continente e porta d’accesso alle lande orientali.
Nelle grandi metropoli mondiali è oramai consuetudine imbattersi in ristoranti multietnici, spesso di buon livello, specie oltre i confini italici, e la capitale tedesca non fa eccezione.
Il talentuoso Tim Raue, ben lontano dal clichè della classica cucina mittel-europea, consapevole delle sue radici ottomane, ha inteso dare vita ad uno dei più alti esempi di ristorazione contaminata da influssi orientali che possiate trovare non solo in Germania.
E la location dove prende il volo la sua creatività non è stata, probabilmente, scelta a caso.
Rudi-Dutschke-Straße infatti, ad un tiro di schioppo dall’emblematico Check Point Charlie, è la direttrice che divide, non solo simbolicamente, il quartiere Mitte, cosmopolita e centro finanziario, con Kreuzberg, fulcro della comunità turca in città.
Si narra che lo chef, da ragazzo, fosse membro di una dalla gang minorili più temute di Berlino e che, ad un certo punto della sua vita, qualche buon consigliere lo pose dinanzi al suo futuro: “di fronte a te ci sono 3 strade” gli disse “imbianchino, giardiniere o cuoco”.
Adesso sappiamo che la scelta fu quella giusta, almeno a giudicare dai risultati.
Si è fatto le ossa esclusivamente nella capitale, che non ha mai voluto abbandonare. Die Quadriga, Rosenbaum, Swissotel tra le sue esperienze; la consacrazione nel magnifico Adlon sulla Unter den Linden, con sguardo rivolto alla Brandeburger Tor. Poi, nel 2010, ha deciso di mettersi in proprio e la Rossa lo ha premiato ben due volte, facendolo divenire capofila dell’alta ristorazione cittadina.
Cina, Giappone, Thailandia. Queste le cifre stilistiche della sua proposta.
Le hashi saranno le vostre posate, ma se avete difficoltà ad impugnarle, chiedete i più tradizionali forchetta e coltello, sarete accontentati.
La pulizia dei piatti e la ricerca della perfezione sono mutuate dal Sol Levante, i dim sum, sempre presenti in carta, dalla terra di Marco Polo, le numerosissime spezie utilizzate dal Siam.
A pranzo ci sono diverse proposte a prezzi molto vantaggiosi, a cena si veleggia sui costi standard dei locali bistellati.
Rispetto alle nostre più datate visite, abbiamo notato la consueta finezza e precisione nelle cotture, l’essenzialità degli accostamenti, ma, di contro, un utilizzo in alcuni casi smodato delle acidità e delle aromaticità.
Il rombo sovrastato dallo zenzero, il salmone, pur ottimo per concezione, ha visto prevalere il pompelmo.
Buonissimi, invece, i dim sum di pollo, con spuma di topinambur, cuori di palma, crescione e tartufo nero, così come il piccione al curry, questa volta dosato mirabilmente, con insalata di chinese artichoke, che nulla hanno in comune con i carciofi nostrani.
Tim Raue regala, comunque, un’esperienza sensoriale e palatale fuori dai canoni ordinari, seppur con qualche eccesso, che riteniamo indispensabile per comprendere la vera accezione dell’abusato termine “fusion”.

Mise en place.
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Appetizer: anacardi al curry, cetrioli marinate al sale, ravanello con maionese giapponese, alghe marine.
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Salmone Ikarimi al sesamo, pompelmo, gelatina di vitello alla vaniglia, aceto e menta. Molto interessante, anche se troppo spinto su note amare e acide tanto da lasciare poco spazio, se non per la consistenza, all’ingrediente principale.
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Dim Sum di pollo con spuma di topinambur, cuori di palma, crescione e tartufo nero. Perfetti.
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Rombo, noci macadamia, dai lan, cardifole, zenzero. Lo zenzero, non giustamente dosato, è predominante.
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Maialino da latte, tangerine, pepe di Sichuan, insalata di fiori di loto. Magistrale esempio di connubio di acidità e spezie. I fiori di loto conditi con l’agrume sgrassano la laccatura del maiale. Un gran piatto.
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..Insalata di fiori di loto.
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Piccione al curry con funghi shitake e …
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… insalata di chinese artichoke (dall’aspetto un po’ inquietante), uva sultanina e noci.
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Mango, cardamomo, frutto della passione, meringhe, gelato alla vaniglia. Acido e rinfrescante.
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Stecco con sorbetto di lamponi e cioccolato.
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Sala.
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Quadro esplicito in sala… ricordo del recente passato (il ristorante era una sala di esposizioni artistiche).
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Questa recensione aggiorna la precedente valutazione che trovate qui

Recensione ristorante.

Un passaggio da Tim Raue è davvero rinfrancante per chi cerca di non soggiacere alle mode del momento o al frustrante tentativo di non essere mai superato dalle mode stesse. Da Tim Raue si mangia “fusion”, cioè si mangia una cucina asiatica rivista e “contaminata” con ingredienti europei, una cosa che sembrava indispensabile qualche anno fa ed è men che negletta oggi. Ma si mangia molto bene, come da William Ledeuil e da altri chef che, infischiandosene di essere in linea con le passioni più comuni ai contemporanei, alle cucine asiatiche s’ispirano con passione vera e competenza.
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Questa valutazione, di archivio, è stata aggiornata da una più recente pubblicazione che trovate qui

Recensione ristorante.

Non c’è solo Francia in Germania.
L’alta ristorazione tedesca sembrerebbe, per lo più, una diretta appendice di quella francese. Con un modello così vicino e storicamente importante d’altronde era ed è difficile non fare costante riferimento ad essa. Gli chef tedeschi ne hanno fatto un paradigma, e, in taluni casi, vedi Bareiss ad esempio, sono diventati più realisti del re diventandone a loro volta dei modelli di eccellenza pressocchè assoluta.
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