“Virtuosismo fiammingo. L’evoluzione in divenire di In De Wulf e l’armonia culinaria di Kobe Desramaults”
“L’albero genealogico” degli chef di solito non mente.
Avere l’argento vivo addosso è un attributo importante, ma è quella rara capacità di assorbire, di cogliere il meglio dai propri maestri e ispiratori, padri professionalmente putativi, per poi integrarlo con le proprie potenzialità a rendere meglio la misura del reale valore di uno chef.
Kobe Desramaults di potenzialità abbonda senz’altro.
Allo stesso modo, senza dubbio, l’apprendistato da Sergio Herman, a sua volta passato per le cucine di Gagnaire e l’imprinting al Commerç 24 di Barcellona di Carles Abellan, già scuola Adrià, hanno arricchito il suo bagaglio in modo da renderlo completo.
La grande cucina francese, via via affinata in una sua versione sempre più moderna, sposata alle tecniche messe a punto a cala Montjoi e innestate sul talentuoso patrimonio di un grande cuoco fiammingo.
Questo potrebbe essere il sunto da cui è nata l’esperienza di In De Wulf, affascinante ristorante che si trova in quel di Dranouter , frazione di Heuvelland, Fiandre occidentali, a un tiro di schioppo dal confine francese.
Anzi, che si trovava a Dranouter.
Già, perché lo chef l’11 dicembre scorso, considerando conclusa questa fase della sua carriera, ha effettuato il suo ultimo servizio, e riaprirà a giugno a Gent.
In un posto più piccolo dove la cucina sarà, a sentire lui, “even better”, persino meglio, cosa che non fatichiamo a credere visto l’entusiasmo, la vitalità, l’inventiva che abbiamo riscontrato nelle sue parole e in tutto lo staff che sono apparsi, a pochi giorni dalla chiusura, quelli di un ristorante all’inizio del proprio percorso e non in prossimità del proprio termine.
Le esperienze maturate in passato sono felicemente confluite in una matrice gastronomica territoriale, fortemente sentita dallo chef, in cui i prodotti locali apportano quel substrato fondamentale su cui l’irresistibile mix di tradizione e modernità fornisce quel quid che ha reso questa tavola un appuntamento imperdibile.
La struttura è praticamente autosufficiente in tutto quello che propone nel suo menù degustazione che, scorrevole e fluido, si sviluppa in una serie di numerosi assaggi perfettamente calibrati.
La frollatura delle carni, per lo più lunga, ingredienti fermentati, la produzione di bibite a base di frutta ed erbe per accompagnare il pasto, un pane davvero eccellente e una gustosissima pizza sono solo alcune delle peculiarità di un ristorante che è una vera e propria piccola farm.
Il tutto si risolve in una cucina semplice, solo apparentemente, fatta di pochi elementi, complessa ma non complicata, accessibile a tutti, dove la centralità del gusto è l’assoluto trait d’union di tutte le pietanze presentate.
Una cucina fatta di un’armonia tutta personale, che nasce dalla composizione di sapori e non da attriti di sorta.
Piatti come la gallinella appena scottata, accompagnata da una formidabile gelatina fatta con le sue lische, o la magnifica lepre rosolata sul carbone, con inebrianti sentori di ginepro, o ancora l’ostrica cotta nel burro (la cui nota iodata sposa divinamente la minerale ferrosità degli spinaci e la rotonda morbidezza di un olio al porro di sfacciata golosità) raccontano tanto e con il giusto tono.
Ci si trova al cospetto di un grande chef che, in procinto di affrontare l’ennesima tappa di un cammino finora luminoso, ci lascia con l’impaziente desiderio di riassaggiare la sua cucina.
Mise en place.
Brodo di cozze, birra e panna acida.
Classica tartina di patate, emulsione di cozze e… cozze.
Vichyssoise, mela e polvere di porro ed erba cipollina.
Crema di scalogno, senape al miele, panna acida, fiori di colza.
Lumache di Comines fritte, polvere di senape ed erbe.
Pane, eccellente, con burro rigorosamente fatto in casa…
…e ciccioli
Tartare di scampi cotto al vapore avvolta nel nasturzio, rapa fermentata, foglia di senape.
Ostrica cotta nel burro di siero di latte, spinaci, olio al porro.
Gallinella scottata sulla pelle e cruda, formidabile gelatina a base di lische, scorzonera con polvere di cozze.
“Kerremelkstampers”, piatto tradizionale belga a base di patate, panna e formaggio nobilitato dal caviale di Anversa.
Zucca arrostita, sugo di maiale al vin jeaune, panna acida, alloro.
Cavolo rapa, salsa al prezzemolo, lardo, germogli.
“Stoemp”, altro piatto tradizionale belga a base di purea di patate e verdure. In questa versione di Kobe Desramaults sull’insalata di cavolo e acetosa con rosso d’uovo alla base e una tuile di burro…
.si aggiunge la patata cotta al forno in crosta di pane.
Lepre, squisita, cotta al carbone con sale al ginepro, nella foglia di cavolo una tartare della sua coscia con uva spina.
Testa di maiale, alga kombu, cavoletti di Bruxelles, coriandolo, brodo di funghi.
Dal forno oltre al pane ecco anche un’ottima pizza, anzi flamiche, con rafano, scalogno, cipolle e Maroilles.
Gelato di latticello, carote croccanti e caramello all’olivello spinoso.
Tortino di mele.
Pera caramellata, sorbetto al finocchio, mousse di pera e yogurt.
Speculoos con gelatina e crema di barbabietola.
Smoutebollen. Palline di allegria fritte nello strutto.
Torta al malto.
Il compagno di viaggio scelto da una carta dei vini piena di chicche.
La reception.
Particolare.
In De Wulf.
Di Kobe Desramaults e del suo straordinario rifugio nel bel mezzo del nulla parlammo entusiasticamente già quattro anni fa. Un luogo dell’anima, dicemmo, lieti di averlo trovato, in una sera piovosa d’autunno: la classica “impresa” che solo l’appassionato più duro e puro poteva pensare che avesse senso. Una di quelle sempre più rare epifanie che rendono viaggi, spese, litigi familiari, degli effetti collaterali facili da dimenticare.
Il tempo è passato rapido, questo locale è ormai nel radar di tutti i gourmet d’Europa e il suo artefice è unanimemente riconosciuto come il più rappresentativo esponente di una new wave fiamminga piena di giovani entusiasti, capaci e anche anticonvenzionali quanto basta per non suonare scontati. Tutto ciò è interamente meritato: si respira entusiasmo da queste parti, in cucina, in sala, nelle eleganti e scabre stanze da letto con vista mucche, nella sala della colazione che pare uscita da un quadro secentesco (e che delizie, sia dolci che salate, vi attendono al risveglio).
L’offerta gastronomica lascia poche scelte: due menu, differenti solo per la presenza in quello più ampio di tre piatti in più, e l’abbinamento degli stessi con una serie (ampia) di calici o con un altrettanto ampio set di succhi di frutti o verdure locali, talvolta fermentati; in alternativa, una bella carta dei vini.
E l’esperienza è totalizzante: quasi quattro ore di viaggio, tra la campagna locale e il vicino mare, in un saliscendi di quasi 25 piatti, dosati al millesimo di grammo per non esagerare e far sì che la cena sia “gestibile” da uno stomaco comunque allenato.
Senza descrivere nel dettaglio la sequenza (mostrata comunque di seguito) e detto che non c’è un solo passo falso, ci sembra doverosa però la riflessione, senza avere, noi di PG, una risposta certa: è davvero questa la contemporaneità in cucina?
Lo zenit dell’esperienza gastronomica è nel succedersi di bocconi divini, e unici, nello stare a tavola quattro ore in attesa dello stupore o, più semplicemente, della forchettata (o cucchiaiata) che accende la scintilla del ricordo, più spesso, o dell’inatteso?
E cos’è un grande piatto? Soprattutto: un grande piatto può, oggi, essere proposto solo in forma di singolo boccone, la cui “densità” gustativa è tale da non consentirne, da non renderne sensato il secondo assaggio?
Noi, questa volta, da In De Wulf, certi di aver visto giusto sulla grandezza dell’artefice (perché, ripetiamolo, non un singolo assaggio era sbagliato né per idea né per esecuzione) abbiamo pensato soprattutto a questo; e a quanto ci incuriosirebbe provare questa mano alle prese con un menu di 3-4 portate, tradizionale, se ha un senso dire così. Cosa sceglierebbe, nel suo vastissimo bagaglio di suggestioni, se fosse imbrigliato da quello schema, quali delle tante corde solo accennate prediligerebbe? E, soprattutto, ci stupirebbe e soddisferebbe anche di più?
Fuori dalla riflessione, non si possono non citare tutti gli chef che, nel tempo della cena, si succedono al servizio (in una formula inaugurata al Noma qualche tempo fa) con evidente orgoglio e grande cordialità: bella squadra, davvero.
In ultimo, avendolo provato per la prima volta, solleviamo qualche dubbio sull’abbinamento della cena con succhi di vario tipo, talvolta fermentati: buonissimi in sé quasi tutti, non sono affatto un’alternativa “light” alla più tradizionale sequenza enoica. Lo zucchero è tanto e, anche se talvolta l’abbinamento è davvero azzeccato, già a metà cena un senso di appesantimento e stucchevolezza ha la meglio. Torneremo pescando, poco ma bene, nella carta dei vini, piena di chicche.
Pelle di porco con ribes bianco, in coeografica presentazione “gore”
Lumache di mare e granchietti
Formidabile sgombro affumicato all’artemisia
“Kerremelkstampers”, patate con panna acida
Rosso d’uovo con radicchio e fiori
Gambero crudo in foglia d’acetosa, esplosivo
Il pane, cotto nel forno a legna all’esterno del ristorante. Di livello davvero notevolissimo, una crosta che inebria
Verdesca, sedano rapa e rabarbaro
La soave zucchina con granchio del mare del nord
Il piatto della serata, per noi, la razza cotta nel brodo delle sue lische. Spettacolare nella sua purezza e intensità gustativa
La “mouclade”, zuppa di cozze, prima in una sua ricostruzione vegetale con tartelette, poi in versione classica
Il meraviglioso astice di Audresselles, nella top 5 dei più buoni mai gustati
Lumache e porri
Funghi delle artdenne
Cavolfiore e salsa alle cozze
Agnello alla brace, fave pisellini, formaggio di capra
Piccione di Steenvoorde, frollato in avena per 5 settimane. Da impazzire il crostino con le sue interiora
La notevole pizza al Maroilles
Yogurt, miele, mirabelle
Camomilla selvatica e cetriolino
Ricordo dell’infanzia dello chef, l’Oud Kriekbeer, con bacche selvatiche e gelato al latte fresco
Barbabietola con prugnola
Gli ultimi fuochi…
Il Forno
E’ bello, di tanto in tanto, pensare alle vacche…
Pascal Devalkeneer è uno dei nomi più prestigiosi della cucina belga, come testimonia anche il fatto che Ferran Adrià lo indichi tra i 10 chef contemporanei da seguire nel bellissimo volume “Coco” .
Nato in Africa da un padre grande appassionato di gastronomia, officia allo Chalet de la Forêt da quindici anni, ben prima che la Flemish Wave si caratterizzasse come uno dei movimenti più frizzanti della gastronomia europea.
Devalkeneer, d’altronde, non è assimilabile a nessuna avanguardia perché è uno chef più classico, che sa stare nel suo tempo senza nostalgie e guardando, come pare indispensabile oggi, anche a est, ma con la consapevole volontà di fornire soprattutto un’esperienza di grande ristorazione classica.
Il locale è incantevole: ai bordi della foresta di Soignes, splendido polmone verde di Bruxelles. Lo chalet è stato ristrutturato con grande sapienza ed è veramente elegante. L’ambiente perfetto per collocarvi una serata romantica o un pranzo d’affari, a patto che la cucina sia altrettanto notevole. E, fortunatamente, l’offerta gastronomica non delude, a meno che non si pensi d’imbattersi nell’esperienza della vita.
Dopo qualche esitazione iniziale, un po’ sorprendente in un locale di questo tono (i ravanelli apripista sono simpaticamente “rustici”, ma è meno simpatico riportarli per sbaglio una seconda volta, facendo invece lungamente attendere per menù e carta dei vini), la partenza è fatta di amuse bouche molto buoni tra cui svetta lo yogurt affumicato con tapioca ed erbe.
La mano è sapiente, sia quando si consente digressioni più contemporanee (il “povero” sgombro con verdure acidulate e vinaigrette di soya e yuzu, arricchito dal caviale che ne arrottonda e ingentilisce il finale) sia quando sta nel super classico, come nella variazione d’agnello con spinaci e pacchero ripieno della spalla d’agnello tritata: cotture millimetriche. Peccato per qualche passaggio un po’ scolastico (il tonno rosso) e per un branzino non entusiasmante per sapore della materia prima che smorzano gli ardori del recensore.
Il reparto dolce è coerente con il resto: pre-dessert all’insegna della freschezza, con la granita di saké con fragola, limone e cetriolo (quest’ultimo è ormai di gran moda, come visto anche da Desramault) e dolce principale un po’ confuso visivamente ma davvero notevole al palato (con mini madeleines da primato).
Per una volta, segnalazione anche per i petit fours, in particolare per una tartellette con crème brûlée che ricorderemo a lungo.
Carta dei vini interessante, prevalentemente francofona, aperta a etichette non scontate e prezzata meglio di quanto si potrebbe temere, dalla quale abbiamo scelto con gran piacere una chicca già nota, il Rully 1er Cru «Meix Cadot» di Vincent Dureuil-Janthial, la prova eccellente che si può bere grandi Borgogna in denominazioni non famosissime, spendendo cifre più che ragionevoli (nel caso circa 50 euro).
Patate al tartufo con carbone di mais: presentazione all’insegna di un elegante trompe l’oeil.
Yogurt affumicato con tapioca ed erbe.
Sgombro con verdure acidulate, caviale e vinaigrette di soia e yuzu: un piatto “povero-ricco” maneggiato con la cura di una grande table.
Branzino con funghi, fave e tartufo estivo: idea e abbinamenti riusciti, ma l’ingrediente principale non entusiasma.
Tonno rosso appena poché, foie gras, rabarbaro e riduzione di frutti rossi: terra-mare un po’ scolastico ma tecnicamente indiscutibile.
Variazione d’agnello con spinaci selvatici e pacchero ripieno di spalla d’agnello.
Granita di saké con fragola, limone e cetriolo.
Mirtillo e sedano con gelato al fromage blanc e madeleines.
Petits-fours di fattura davvero notevole e ottime gelatine.
Uno scorcio dal nostro tavolo.
Questa recensione aggiorna la precedente valutazione che trovate qui
Recensione Ristorante
Dranouter. Nel bel mezzo delle Fiandre. In Belgio, a due passi da Lille, vicino Brugge e Gant. E’ qui che vive e cucina Kobe Desramault. E’ questo il luogo in cui è cresciuto. Tra animali selvatici, vacche e fattorie. E’ giovane Kobe, anzi giovanissimo. Ma è già uno straordinario cuoco. Qualche tempo fa la sua cucina ci era parsa, senza ombra di dubbio, la massima espressione di questa nazione, tra le più emergenti d’Europa. Oggi siamo ancor più convinti, anzi, visto che ogni tanto fa bene sbilanciarsi, questa, attualmente, è una delle migliori tavole del Pianeta.
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Recensione Ristorante
“Come a casa vostra”. Una garanzia sin dal 1926 (così dicono). Nelle diverse incursioni in terra belga ci siamo incuriositi di questa storica salle à manger fondata nella prima metà del secolo scorso, dove si sono susseguiti tre generazioni, da sempre al servizio della noblesse della città: avevamo più volte rimandato l’appuntamento perchè interessati ad altre e più moderne tavole che spiccano in questo Paese.