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Al Tramezzo

È sempre difficile trovare dei ristoranti di qualità aperti il lunedì a pranzo e se viaggiate lungo l’autostrada che dall’Emilia porta verso la Liguria trovare un posto che soddisfi i requisiti minimi di un buongustaio può diventare una vera e propria impresa.
Quindi imbattersi in questo storico e glorioso ristorante alla periferia di Parma può essere considerato un vero e proprio colpo di fortuna.
Al Tramezzo nasce nel 1975 da un’idea di Ugo Bertolotti, che dopo una lunga militanza nei grandi alberghi Europei decide di rientrare a casa ed aprire un locale tutto suo, dapprima col nome di Tramezzino in seguito cambiato nell’attuale “Al Tramezzo”.
Il locale offre tre salette arredate in modo classico, e permette nella bella stagione, di poter mangiare nel piccolo dehors esterno, nonostante la zona piuttosto periferica e defilata abbia ben poco appeal.
Il ristorante ha una doppia anima: una strettamente legata al territorio circostante con tutti i classici della Bassa Parmense, a cominciare dai grandi prosciutti e culatelli di lunga stagionatura, al parmigiano proposto anch’esso in diverse stagionature fino ad arrivare alle paste ripiene proposte nelle più svariate foggie e farciture, dai più tradizionali a quelli più moderni e moderatamente creativi.
Ma non di sola tradizione si può vivere ed ecco quindi la seconda linea del locale dedicata al pesce di mare fresco, reperito con perizia nei principali mercati nazionali, preparato con cura, una certa dose di fantasia e rivolta soprattutto alla clientela locale, annoiata da una cucina tanto golosa per il forestiero quanto ingombrante per chi la vive quotidianamente. Il filo conduttore che lega entrambe le linee è l’estrema qualità delle materie prime utilizzate, ricercate in lungo ed in largo per la penisola.
Il nostro pranzo è scivolato via liscio, senza troppe emozioni e nemmeno clamorose cadute.
Una cucina che non graffia, solida e piuttosto ben confezionata, con presentazioni a volte un po’ fuori dal tempo, ma con piatti comunque corretti, porzioni fin troppo abbondanti e conto che facilmente arriva verso l’alto.
Ottima la carta dei vini che offre ben oltre mille etichette a prezzi più che ragionevoli, divisa in Nord, Centro, e Sud e catalogata in ordine alfabetico.
Servizio rapido ed efficiente con il surplus della cordialità e della professionalità del patron.
Un indirizzo sicuro per chi transita in zona.

Timballino di spinaci con uovo colante e fonduta di Saint Marcellin: goloso e ben realizzato


Cappelletti al formaggio caprino, intingolo agli asparagi e croccante di pane: porzione fin troppo abbondante, sfoglia ben tirata, ripieno troppo protagonista a scapito degli asparagi un po’ in ombra.

Ravioli di mandorla in ristretto di galletto ruspante e quaglia abbrustolita: il piatto meno riuscito, la mandorla del ripieno troppo delicata per sostenere le chips di quaglia e il ristretto di pollo: la sensazione grassa a prevalere su tutto.

Garretto di vitello al Riesling, gremolata e tartufo candito: ottimo il garretto, giustamente fondente ben supportato dalla salsa e da una porzione enorme di torta di patate, un vero piatto unico.

Piccola pasticceria.

Millefoglie ai frutti di bosco.

Il caffè.

“Una terra provvista di duplice natura: fatata e inafferrabile come un paesaggio nella nebbia; concreta quanto può esserlo pane e culatello. Una terra che però si può facilmente riconoscere anche in un solo volto, quello buono e accigliato di Giovannino Guareschi. Un luogo dove il bere e mangiare, in fondo, non sono che un modo per essere sentimentali.”

Queste righe, tratte dal libro “Nella dispensa di Don Camillo”, sono la maniera migliore, nonché quella più breve ed incisiva, per descrivere la bassa parmense, cupa ed afflitta nei suoi paesaggi contadini del dopoguerra (che il Guareschi, con il suo “Mondo Piccolo“, ha reso celeberrimi in tutta Italia) quanto schietta, sincera e genuina se si parla di cucina o meglio, di tavola, perché una buona parte della sua tipicità è data dalla convivialità, prima ancora che di ingredienti o ricette.
Ma più che di alta cucina, da queste parti è bene parlare di “alti prodotti”, ottenuti attraverso secoli di esperienza, valorizzati da grandi e capaci selezionatori, portati a tavola nella maniera più tradizionale possibile: precursori ed al vertice assoluto, oramai inarrivabile, di tutto ciò sono stati Peppino e Mirella Cantarelli che, da un foglio bianco, proprio mentre l’Italia sorrideva con le storie del prete di Brescello, hanno scolpito la storia della ristorazione di questa zona e non solo.

Fatte le debite proporzioni (per meriti assoluti dei Cantarelli, non certo per demeriti di Dallabona) attualmente la Stella d’Oro di Soragna è il ristorante che meglio rappresenta questa filosofia di cucina, che schiera il terzetto vincente composto da eccellenza delle materie, fedeltà alla tradizione e accoglienza calorosa. Nonostante l’ambiente serio e curato suggerisca il contrario, non approcciatevi a questo locale come ad un ristorante, piuttosto come ad una trattoria: parlate con Marco, non consideratelo come uno Chef ma piuttosto come un cordiale Oste, attento in cucina quanto abile a destreggiarsi tra i tavoli. Dimostratevi curiosi ed appassionati, domandate, ascoltate e lasciatevi guidare da lui in una appassionante scoperta della bassa, dei suoi superbi culatelli, del fantastico crudo, del Parmigiano e le sue stagionature, della sopraffina carne di cavallo, degli anolini, della Savarin…

…ma, fermatasi la giostra della memoria, emergono alcune imperfezioni. Non possiamo non considerare che siamo seduti ad una tavola da una sessantina di euro procapite, una cifra a causa della quale l’aspettativa inizia a farsi sostanziosa. Coerentemente alla tradizione, ed in questo caso è un purtroppo, la linea di demarcazione tra i notevoli antipasti e primi, e i secondi degustati, è davvero netta. Nulla di errato nella concezione o nell’esecuzione, ma il vero problema è il livello assolutamente inferiore delle proposte di secondi e dolci, ulteriormente appiattito dall’ottima qualità di tutte le portate che li anticipano.

Ma attenti a non farvi frenare da questo aspetto. E’ totalmente fuor di dubbio che, all’interno del simbolico triangolo Busseto-Soragna-Zibello, nomi fortemente evocativi per ogni appassionato, splenda una vera stella della ristorazione tradizionale della zona: d’Oro zecchino.

Il pane.

Iniziamo con uno Champagne consigliatoci da Marco, proveniente dalla cantina davvero smisurata. Divertente per qualsiasi tipologia di vino, è una tra le migliori a livello nazionale per disponibilità di bolle, italiane o francesi. Un consiglio, leggetela con tutta calma, un vero peccato sarebbe non dedicarle la giusta attenzione.

Terrina di foie gras d’oca, composta di mele e mandorle, gelèe di mela verde, emulsione di zucca e passion fruit.
Una partenza che ci lascia basiti, inizialmente straniti poi sorpresi in positivo. La terrina è eseguita impeccabilmente (nessuno dei due a tavola va a nozze con il foie, eppure è finito in un istante), e interessanti sono i bocconi in accompagnamento. La mano c’è anche al di fuori della bassa, dunque.

Scaglie di Parmigiano.

Il Culatello tipico di nostra selezione e lunga stagionatura.

Un crudo notevolissimo, oltre 60 mesi di stagionatura. E’ riuscito a farsi terminare prima del culatello.

In risposta al nostro apprezzamento per il crudo, ci viene servito il medesimo ma affettato sensibilmente più alto. Una meraviglia, nettamente meglio della fetta più sottile.

Sequenza di tartare: cavallo/sanato/chianina, cialde, pomodorini piccadilly rafano e schiuma di olio emulsionato.
Cavallo che spicca nettamente per qualità e riesce a mortificare le (comunque buone) altre due carni.

Al nostro apprezzamento per il cavallo (lezione: fate apprezzamenti a Marco! :-D) ci viene servita, in maniera decisamente “raw”, una fetta della carne usata per la tartare, rigorosamente cruda e semplicemente affettata. Memorabile…

…unica concessione, un filo d’olio.

Anolini della Bassa in doppio brodo ristretto del nostro bollito.
(vecchia tradizione solo pane e parmigiano)
Semplicemente, se così si può dire, buonissimi. Da averne a disposizione un piatto per ogni giornata di freddo e pioggia, vita natural durante.

Finita la bolla, continuiamo con una chicca pescata in carta, dopo attenta ricerca…

Il vero Savarin di riso…
(con lingua salmistrata e salsa classica in ricordo di Mirella e Peppino Cantarelli)
Un piatto simbolico anche solamente per le colonne a cui è dedicato. Rispetto ad altre visite passate, in cui ci era parso così così, ora è perfetto: mantecatura ricca e lingua morbidissima.

Nido di pappardelle al salamino fresco con fonduta di formaggi.
Indovinate un pò…?

Piccione alle due cotture, spuma di patate e rapa rossa cipollotto caramellato e infuso di melograno.
Oltre al piccione dichiaratamente (“…se lo presento rosso i miei clienti me lo tirano dietro!”) troppo cotto, impiattamento un pò dozzinale con i puré che, all’atto di tagliare la carne, vanno qua e là per il piatto, mischiandosi.

Suprema di faraona caramellata all’aceto balsamico, con sedano mele e ribes rosso.
Anche in questo caso l’eccessiva cottura, complice anche il sensibile spessore della faraona, è causa della consistenza -praticamente bollita- della carne.

Fondente al cioccolato con crostata di nocciole cruda e salsa vaniglia.
(Omaggio al ricordo di un grande chef, amico e maestro “Georges Cogny”)

Zuppa inglese con zabaione caldo, amaretti ai due modi, gabbia di zucchero filato.