Passione Gourmet Australia Archivi - Passione Gourmet

Australia Gourmet – Brae

Quello che state per leggere è il resoconto delle esperienze fine dining compiute dalla sottoscritta in occasione del The World 50 Best 2017 di Melbourne. Un viaggio in cui non ho pernottato mai più di due notti nello stesso hotel; ho preso 15 taxi e quasi tutti i mezzi di trasporto conosciuti; ho bevuto una dozzina di cocktail e assaggiato un numero non quantificabile di vini australiani, tasmani e neozelandesi; ho mangiato formiche verdi e raccolto – e subito divorato – le omonime ostriche nella placida baia di Coffin Bay; ho nuotato coi leoni marini nel periglioso mare a largo di Cape Catastrophe (nomen omen!) e ho pianificato – e fallito – l’evasione di un maestoso lobster di 10 kg sulla spiaggia di  fronte a Golden Island. Non paga, mi sono arrampicata su un numero indefinito di eucalipti solo per poter accarezzare il manto ispido e polveroso di grossi koala.

Tutto il resto, invece, lo trovate di seguito.

Una cucina rigenerante, luminosa e ispirata come il cielo su Birregurra

Siamo nello stato di Victoria, a circa 130 km a sud-ovest di Melbourne e, a guardarsi intorno, non sembrerebbe affatto di essere in un centro abitato. C’è l’Oceano a 25 km, alcuni mulini a vento, un’infilata di inevitabili eucalipti sullo sfondo e, più vicino, un orto e una serra, un forno ipogeo e, perfino, un piccolo, dignitosissimo cimitero ricco di quella umile austerità che tanto amo nei cimiteri anglosassoni.

E c’è Dan Hunter stesso che, con l’energia di un novizio, ci spiega di come ha trasformato, in meno di 4 anni, un normale ristorante di provincia in un punto di riferimento dell’arte culinaria contemporanea, a partire dalla terra di questa gentile collina, brae, in aussie, che ha rinverdito con una fattoria biologica di 30 acri, il ristorante stesso e sei suite per gli ospiti.

“Rigenerativa”, del resto, è l’etica agricola qui sposata, che ripaga il suo artefice, soprattutto in autunno, di un paniere turgido di verdure, drupacee, agrumi, noci, bacche e olive, col quale si ricava, tra le altre cose, l’olio extra vergine. Ci sono polli e galline che razzolano liberi e indisturbati e api che, oltre al miele, impollinando fecondano e rigenerano. Il 90% delle materie prime utilizzate dal Brae è autoprodotto o, comunque, proviene dalle risorse locali – come l’acqua servita a tavola che, opportunamente filtrata, piove dal cielo di Birregurra. Allo stesso modo, il 90% dei rifiuti è di origine orgogliosamente e rigogliosamente vegetale.

Similmente a quanto già accadde da Attica, al momento di sedermi riconosco la colonna sonora: si tratta di Angel dei The XX e, ancora una volta, mi stupisco di quanto le corde della ristorazione tutta, a queste latitudini, suonino all’unisono con quelle della migliore contemporaneità artistica e musicale. Nemmeno il tempo di intrattenermi in questa riflessione e arriva il gustoso Metodo Classico Überbrut Holly’s Garden ad accompagnare l’iconica Crostatina di piselli crudi e limone Aspen che, col suo impasto profumato di burro e suggestioni campestri è l’emblema stesso della bucolica cucina di Hunter, per buona pace del suo cognome. A proposito di icone, non poteva mancare nemmeno un Cetriolo sottaceto con formiche verdi e Lemon myrtle (spezia locale con un intenso aroma di limone; in cucina si usano le foglie disidratate), che leggo come un omaggio alla Orana di Zonfrillo, pur introducendo il commensale alla elfica sensibilità che anima il mondo vegetale di Hunter e al suo tocco nobile, riposante e benefico. Riposante è, del resto, il Brodo freddo di erba cipollina pressata e desert lime (varietà di agrume dal sapore molto acido di limone) su cui stanno assise delle grosse vongole e quella serica, dolcissima nebulosa che lega tra loro i semi del pomodoro.

Arriva dunque un’inaspettata IPA, intensamente e prevedibilmente tropicale con sentori di mango e caramello a incorniciare un prosieguo che, proprio nell’abbinamento, trova la sua chiave interpretativa: una Rapa rossa arrostita al barbecue, miele estivo delle api del Brae e uova di trota arcobaleno, combinazione dolce, terrosa e floreale, con punte sapide, estemporanee e provvidenziali. A incalzare le suggestioni del mare – qui vicino – una “breve ma intensa” Ostrica gelata con alga spirulina, resa insospettabilmente lattica dal gelato e umamizzata dall’alga dalle mille virtù. Buona, ma non si percepisce il classico sentore dell’ostrica.

Arriva dunque un pane – commoventemente abitato da profumo di grano e di miele – e un burro vaporoso, mantecato all’uopo con un vino canarino, semplice ma succoso, degno rappresentante della Valle de la Orotava, che accompagna una carnosa melanzana su cui si adagia l’Agnello Flinders Island Saltgrass (tradizione che rimanda alla Normandia e al suo agneau de pré-salé) su un’acqua dolce di cipolla, erbe e fiori dell’orto.

A preparare la bocca al dessert, anche in questo caso di una semplicità unica, ma coerentissima, arriva un misterioso Empty Bell Rosé 2014, con l’etichetta manoscritta, il sorso ematico e gli accenti floreali ad accompagnare una malinconica Tarte tatin al limite tra il dolce e il salato che custodisce, sotto la sua glassa, gli ultimi pomodori del giardino.

La galleria fotografica:

Quello che state per leggere è il resoconto delle esperienze fine dining compiute dalla sottoscritta in occasione del The World 50 Best 2017 di Melbourne. Un viaggio in cui non ho pernottato mai più di due notti nello stesso hotel; ho preso 15 taxi e quasi tutti i mezzi di trasporto conosciuti; ho bevuto una dozzina di cocktail e assaggiato un numero non quantificabile di vini australiani, tasmani e neozelandesi; ho mangiato formiche verdi e raccolto – e subito divorato – le omonime ostriche nella placida baia di Coffin Bay; ho nuotato coi leoni marini nel periglioso mare a largo di Cape Catastrophe (nomen omen!) e ho pianificato – e fallito – l’evasione di un maestoso lobster di 10 kg sulla spiaggia di  fronte a Golden Island. Non paga, mi sono arrampicata su un numero indefinito di eucalipti solo per poter accarezzare il manto ispido e polveroso di grossi koala.

Tutto il resto, invece, lo trovate di seguito.

Machismo culinario

Questa storia comincia con la solennità di un cancello in ferro battuto che si spalanca su un viale di querce da sughero. Un particolare, questo, di cui va molto fiera la cantina St Hugo che, oggi, benché parte del colosso Pernod Ricard è ancora il fiero esito di una sofferta esegesi famigliare: quella di Hugo Gramp. Così, varcando la soglia di quello che John Lethlean – critico gastronomico australiano – definisce come uno dei più bei visitor center di Barossa, non posso fare a meno di ammirare il ritratto in bianco e nero che, dello stesso viale, troneggia sul camino la cui parete fa da divisorio tra la hall e la sala di degustazione coi bei divani in pelle color caramello che, secondo Lethlean, costano più della sua automobile. 

Accanto alla sala, il ristorante trova asilo all’interno di quella che ha tutta l’aria di essere una piccola chiesa di campagna in un’atmosfera che ricorda il design futuristico anni ’70 della villa di Zabriskie Point appena prima della deflagrazione più lunga della storia del cinema. Il progetto, firmato dai designer dello Studio Gram di Adelaide, consta di materiali crudi – pietra, legno, cuoio, acciaio, vetro – accostati fra loro con un certo erudito brutalismo ed è sorprendente quanto ogni dettaglio di questo mondo concorra a tratteggiare il disegno d’insieme di un’esperienza esclusiva anche nei vini che, declinando spesso la medesima monografia di Cabernet Sauvignon di Coonawarra, fanno pensare a massicci monoliti pensati per enfatizzare la cucina maschia e virile, nonché dichiaratamente filo-europea, dello chef Mark McNamara. 

Si cena alle 19 in punto in questo angolo di South Australia, un luogo dove abbiamo scoperto che  nessun pasto è un pasto che si rispetti se non è inaugurato da almeno un tipo di pane – una focaccia molto romanesca, in questo caso – e burro salato. 

Lo scenario cambia rapidamente, però, con un Filetto di ricciola reso quasi evanescente dalla marinatura e più consistente e meno lezioso di quel che potrebbe sembrare dalla compresenza di coriandolo, agrumi, semi di senape e pesto di avocado accompagnato dall’Orlando St Helga Riesling 2016 e dal suo sorso ossuto e spigoloso. A seguire, un piccolo Cuore di filetto di quaglia grigliato con agretti, fiori di zucca e zucchine, la cui ovvia semplicità viene presto sdrammatizzata, nonché completamente offuscata, da un curioso blend di Grenache, Shiraz e Mataro la cui evidente “piacioneria” non ne inficia minimamente la seducente integrazione, nonché la concentrazione misteriosamente delicata di balsami di montagna, fragole e incenso. 

L’estrazione filo-europea dello chef si evince ancora nell’unico “primo piatto” propriamente detto di questi 12 giorni in South Australia: Gnocchi di ricotta, melanzane con un trionfo di sedano e finocchio su una crema di burro i cui evidenti limiti risiedono proprio nella non integrazione delle parti e nella consistenza viscida, inammissibile per un italiano, degli gnocchi stessi. 

Ematica e rosea, di una tenerezza quasi virginale, è poi l’Anatra cotta in due maniere con sesamo, funghi neri e melassa. Forse il piatto migliore. Lo stesso non si può dire, però, per l’abbinamento poiché il Coonawarra Cabernet Sauvignon 2007 – un refolo di ginepro e una vernice di ciliegie, tabacco, peperoni verdi e menta – così etereo ed evanescente, non riesce a sostenerla.

Più che dignitoso, invece, il Wagyu scottato con radicchio grigliato e chips di patate: eccellente soprattutto nell’idillio che intrattiene con lo Shiraz Vetus Purum 2010 a  disegnare un morso di una semplicità solo apparente, graffiante refolo di spezie orientali e foglie di eucalipto con quella traccia ematica e ferrosa tanto tipica di questa Barossa Valley.

La galleria fotografica:

Quello che state per leggere è il resoconto delle esperienze fine dining compiute dalla sottoscritta in occasione del The World 50 Best 2017 di Melbourne. Un viaggio in cui non ho pernottato mai più di due notti nello stesso hotel; ho preso 15 taxi e quasi tutti i mezzi di trasporto conosciuti; ho bevuto una dozzina di cocktail e assaggiato un numero non quantificabile di vini australiani, tasmani e neozelandesi; ho mangiato formiche verdi e raccolto – e subito divorato – le omonime ostriche nella placida baia di Coffin Bay; ho nuotato coi leoni marini nel periglioso mare a largo di Cape Catastrophe (nomen omen!) e ho pianificato – e fallito – l’evasione di un maestoso lobster di 10 kg sulla spiaggia di  fronte a Golden Island. Non paga, mi sono arrampicata su un numero indefinito di eucalipti solo per poter accarezzare il manto ispido e polveroso di grossi koala.

Tutto il resto, invece, lo trovate di seguito.

I suburbs nel piatto

Quello che inizialmente mi stupì di Attica, oltre all’affabilità dello chef Ben Shewry, fu la colonna sonora scelta per l’occasione: oltre alla sottoscritta, c’erano critici e chef provenienti da tutto il mondo (Yannick Alléno e consorte pranzavano al tavolo accanto al mio) e mai, in un ristorante e in un’occasione simile, mi sarei immaginata di prendere posto al mio tavolo sulle note di “See No Evil” dei Television.

Ecco dunque il benvenuto con il pungente e salino Metodo Classico Yarra Valley Miss Mass 2008 di Mac Forbes appena degorgiato, per accompagnare un’Insalata raccolta al momento nell’orto dietro al ristorante. Siamo in una parte periferica di Melbourne e il concetto di suburb è molto caro al giovane chef che sulla “etno-botanica” sembra aver edificato la sua fortuna. Accanto all’insalata, l’immancabile Panna acida con oli ed essenze instillate col contagocce e, appena dopo, il Melone St. Claus ricoperto della adorabile digressione di un frizzy pazzy di colore rosa. C’è la tovaglia,  ma non ci sono le posate, e non ci saranno per un po’ se è vero, com’è vero, che la carrellata continua con un Pomodorino che gioca a nascondino – tanto mi tocca di frugarlo con le dita – nella foresta in miniatura che Shewry ha piantato nel piatto e  dietro al ristorante. Non appena lo trovo, lo mordo e una deflagrazione dolce-acida-umami-mediterranea mi esplode nelle fauci. Sto masticando un iper-pomodoro crudo, senza nemmeno l’ombra di un condimento. Eccola qui la vera anti-cucina, le manipolazioni inesistenti e gli impiattamenti grezzi di cui tanto si era sentito parlare.

Con il piatto successivo l’articolazione è solo minimamente maggiore e consta di una Galletta di avocado pestato con la forchetta, caviale di limone e menta. Al giro di boa del vino, il livello di manipolazione sale e mi ritrovo un trittico di tartine che rappresentano ciascuna la storia di un’etnia differente, all’anagrafe An imperfect history of Ripponlea. La prima è un involucro di pasta ripiena di crema aromatizzata con ingredienti aborigeni di Bunurong, come foglie di peperone nativo e lime rosso. La seconda – la Torta Sargood – prende il nome dall’uomo che ha costruito il suburb, e vanta un anglicismo ben riuscito: un ripieno di formaggio fresco alla maniera di un pudding. La terza tartina, invece, parla della grande popolazione ebraica che anima il sobborgo: l’involucro di matzah (pane azzimo) racchiude un ripieno di schmaltz  (grasso chiarificato di oca o di pollo) coronato da una gelatina di brodo di pollo che luccica di vivo gusto. Il vino, versatile al bisogno, è l’etereo, idrocarburico e affumicato Riesling noble dry 2011 di Crawford River. 

Prima di procedere, però, è necessario dire due cose: la prima è l’assenza di posate fino a questo momento del pasto; la seconda è la perfetta centratura degli abbinamenti, indizio di una consapevolezza che, da entrambi i fronti, raramente m’è capitato di lodare con così forsennato entusiasmo. Una consapevolezza tale, quella di Shewry, che riesce perfino a farmi piacere la Vegemite (crema salata a base di estratto di lievito di birra) nella Polpetta di Vegemite e carne di capra cosparsa di formaggio di capra grattugiato. Un’esplosione di sapori seguita dalla timida carezza di Carotina dell’orto cotta 12 ore su una brace lentissima, con cui il vino flirta che è un piacere. 

L’anti-cucina trionfa violentemente, quindi, con l’arrivo di un Abalone intero, nel suo splendido guscio, da staccare con un coltello sistemato sul piatto. Il primo utensile servito in quasi un’ora di assaggi, che si concludono con quello che, senza iperboli, mi appare il consommé più buono della mia vita. Servito tiepido con il sapore di pollo e il profumo di tutte le erbe aromatiche in sospensione, è l’esatto punto di congiunzione tra un brodo e una tisana. 

È quindi il momento del pane, della cui esistenza m’ero completamente dimenticata: una sorta di pagnotta araba di farina integrale accompagnata dall’immancabile burro “maison” e fiocchi di sale. Arriva poi un altro vino, il Pinot nero 2014 Tout Près by Farr, apparentemente offuscato dal legno, sebbene abbia apprezzabili note di eucalipto (tanto tipiche dei Pinot nero australiani), fiori blu e spezie. Infine – evviva – le posate, con cui mi approccio a un abbondante Red Kangaroo con semi tasmani, detti Truganini in onore degli aborigeni della Tasmania. Il pasto continua in maniera sorprendente con l’idillio dell’Amontillado di Penny Weight, che tanto splendidamente si sposa con un Trionfo di zucca che, da solo, risulterebbe invero assai faticoso. 

Prima del servizio del dolce, a tutti i tavoli viene riservato un omaggio: una visita in cucina e un cocktail nell’orto. Qui, oltre alla leggendaria griglia dove 24 ore su 24 vengono cotte le carote, ho modo di constatare che il pollice verde di questo incredibile chef riguarda anche un gruppo di virili tulipani. Una volta tornata al tavolo, mi viene servito un indecifrabile predessert a base di mela Granny Smith con salsa di succo d’ananas leggermente fermentato, olio di mirto, anice e lime e per finire, il primo dolce propriamente detto di questo mio viaggio in Australia: l’Uovo di Emù (una sorta di zabaione selvaggio e salato, per intenderci), servito in un letto di erbe locali che, invero, non riuscirei a mangiare (per l’eccessiva presenza di uovo e di sale) se non fosse per l’ottimo Altus 2011 di Ngeringa e la sua geniale emulazione di un Vin Santo. 

La galleria fotografica:

Quello che state per leggere è il resoconto delle esperienze fine dining compiute dalla sottoscritta in occasione del The World 50 Best 2017 di Melbourne. Un viaggio in cui non ho pernottato mai più di due notti nello stesso hotel; ho preso 15 taxi e quasi tutti i mezzi di trasporto conosciuti; ho bevuto una dozzina di cocktail e assaggiato un numero non quantificabile di vini australiani, tasmani e neozelandesi; ho mangiato formiche verdi e raccolto – e subito divorato – le omonime ostriche nella placida baia di Coffin Bay; ho nuotato coi leoni marini nel periglioso mare a largo di Cape Catastrophe (nomen omen!) e ho pianificato – e fallito – l’evasione di un maestoso lobster di 10 kg sulla spiaggia di  fronte a Golden Island. Non paga, mi sono arrampicata su un numero indefinito di eucalipti solo per poter accarezzare il manto ispido e polveroso di grossi koala.

Tutto il resto, invece, lo trovate di seguito.

Il conciliante sauvagisme dell’Hentley Farm & Restaurant

Non racconterò questa storia dal suo inizio ma dal momento in cui ho cominciato a prenderne coscienza, nel bel mezzo del trompelœil della sala di Hentley Farm & Restaurant. 

Ero ad Adelaide in occasione del The World’s 50 Best Restaurant 2017, il mio compito, per circa dieci giorni, sarebbe stato quello di testare alcuni dei migliori ristoranti della nazione assecondando lo zelante programma del munifico ente del turismo australiano che aveva pianificato la mia permanenza alla maniera di una caccia al tesoro. Disponevo di un programma di massima, ma era solo indicata la destinazione designata, ovvero la camera dell’hotel di turno, dove avrei saputo nei dettagli cosa sarebbe accaduto nelle 24 ore successive.

Fu precisamente nella suite 121 del Mayfair Hotel di Adelaide che appresi dunque che saremmo partiti, entro poche ore, per un tour in Barossa Valley, una delle regioni vitivinicole più antiche del paese, oggi alla sua sesta generazione di produttori.

Decido di impegnare il mio jet lag facendo alcune ricerche: scopro così che l’area deve il suo nome all’antica battaglia di Barrosa, in Spagna, dove il 5 marzo 1811 gli inglesi assestarono una gloriosa vittoria sull’esercito francese tale che il colonnello e pioniere William Light volle battezzare col suo nome le fertili colline dove anche noi, oggi, siamo diretti. Il caso, poi, volle che il nome fu trascritto male ed eccoci qua in Barossa Valley: 10 mila ettari vitati e votati, soprattutto, alla produzione di Shiraz e, in ordine di importanza, di Cabernet Sauvignon, Grenache, Chardonnay, Semillion, Merlot, Riesling e Mourvedre.

Quando si arriva qui, colpiscono immediatamente l’impasto della terra, soffice e rugginoso, la pietra nuda dei muretti, gli ulivi e i mandorli selvatici, alcuni dei quali centenari ma, soprattutto, l’infilata di eucalipti biondi, odorosi e stordenti le cui fronde, dorate e strepitanti, definiscono al vento il confine, anche uditivo, tra il Greenock Creek e l’altrove. Eccoci arrivati all’Hentley Farm & Restaurant, dal 1997 di proprietà di Keith ed Alison Hentschke e, dal 2014, parte del prestigioso gruppo Relais & Châteaux.

A fare gli onori di casa è Lachlan Colwill, head chef  del ristorante, divertente e divertito “Barossa Boy” di origini scozzesi che, alla maniera di un giovane Arcimboldo, ci porge un paniere di vimini rigoglioso d’ogni ben di Dio: piccoli cuori di bue, le foglie del basilico più carnoso e più odoroso che si possa immaginare, una zucca – che poi cuoce nel forno in ghisa appena fuori dal ristorante – e altre delizie tra cui spiccano, voluttuosi, turgidi boccioli di rosa bianca. Saranno questi gli ingredienti del nostro pranzo, poiché qui tutto è imperniato di un orgoglioso locavorismo.

Il nostro pranzo comincia nella maniera più australiana possibile: una carrellata di piccoli appetizer tra cui una croccante Foglia d’insalata dell’orto servita con Jersey cream, miele e mandorle tostate ancora calde. Si prosegue con una Cialda di mais sormontata da un uovo di quaglia e un’erba dal sapore lievemente narcotico, mentre la polpa del granchio, servita comme il faut, nel suo carapace, è così pura, dolce e carnosa da muovermi quasi alla commozione.

In questa carrellata, spettacolare è la performance delle Ostriche affumicate al rosmarino con il passion fruit. Indimenticabili, invece, i ritrovati pomodori cuore di bue appena scottati, pelati e serviti con ricotta, gallette di segale e aglio nero.

Cosa interessante, all’Hentley Farm & Restaurant, è che il personale di sala consta di una sola persona: una ragazza squisita interamente dedita alla mescita dei precisissimi vini aziendali. Gli 11 chef di cucina, infatti, servono ciascuno il proprio piatto, lo raccontano, se ne assumono l’onore e, in alcuni casi, anche l’onere. Come nel caso del superbo Filetto di kingfish su cipolla, riso selvatico e agresto, che ci riporta alla mente la celebre massima di Karl Kraus “per essere perfetta le mancava solo un difetto”, considerazione che estendiamo anche allo scolastico Riesling Eden Valley 2016 in abbinament0.

Evocativo, invece, il Canguro marinato al finocchio selvatico, spremuta di rapa rossa e boccioli di rosa selvatica: un’emozione deflagrante, ematica e affumicata, dolce e lontanamente luttuosa, che amiamo all’inverosimile, peraltro, in combinazione col Shiraz The Beauty 2015, con cui la rosa intrattiene un idillio floreale incalzato dalla percezione del pepe e della carne, dolce e ferrosa. 

A chiudere, l’ottimo Uovo di yogurt con tuorlo di passion fruit e semi di papavero in accompagnamento a Poppy 2016, “field bland” di Chardonnay, Riesling, Viognier, White Frontignac, Fiano e Pinot Gris. 

La galleria fotografica:

Quello che state per leggere è il resoconto delle esperienze fine dining compiute dalla sottoscritta in occasione del The World 50 Best 2017 di Melbourne. Un viaggio in cui non ho pernottato mai più di due notti nello stesso hotel; ho preso 15 taxi e quasi tutti i mezzi di trasporto conosciuti; ho bevuto una dozzina di cocktail e assaggiato un numero non quantificabile di vini australiani, tasmani e neozelandesi; ho mangiato formiche verdi e raccolto – e subito divorato – le omonime ostriche nella placida baia di Coffin Bay; ho nuotato coi leoni marini nel periglioso mare a largo di Cape Catastrophe (nomen omen!) e ho pianificato – e fallito – l’evasione di un maestoso lobster di 10 kg sulla spiaggia di  fronte a Golden Island. Non paga, mi sono arrampicata su un numero indefinito di eucalipti solo per poter accarezzare il manto ispido e polveroso di grossi koala.

Tutto il resto, invece, lo trovate di seguito.

Efesto, il dio del fuoco ai fornelli

A 75 km a Est di Melbourne, in una distesa fertile che è tutto un susseguirsi di farms e allevamenti di bestiame, si trova Geelong, la seconda città più popolosa dello stato di Victoria, affacciata sulla baia di Corio e solcata dal fiume Barwon. È qui che prende forma l’incredibile cucina primitivista di Aaron Turner nel suo ristorante IGNI. 

Aron Turner è l’Efesto, il dio del fuoco dello Stato di Victoria. Lo dichiara lui stesso già nel nome scelto per il ristorante, dal latino ignis, ovvero fuoco. Ma non solo, perché lo chef è anche il custode di un immaginario curioso imperniato di un brutalismo che dichiara già all’ingresso del ristorante dove, a dare il benvenuto, un altare votivo è messo a mo’ di memento, con tanto di ofrendas pendenti con scheletri e altre amenità, come fiori essiccati e un favo ricolmo di miele. Una teca ricca di stimoli estetici e intellettuali, che fa pensare a una natura morta appassita, un tempo rigogliosa e debordante di tutte le primizie dell’Arcadia di cui stasera resta, in vita, solo il miele. Il miele, appunto, che è poi il co-protagonista del piatto che più ho amato. Ma andiamo con ordine.  

La sala consta di pochi elementi lignei, che sembrano ignifughi a quel fuoco che Turner utilizza per preparare ogni pietanza, ma che riesce ad ammansire tanto egregiamente che raramente se ne avverte la presenza mentre un efficientissimo sistema di cappe e correnti aspira, rinfresca, sanifica. E difatti l’aria è sempre pulita, come le pareti della sala e i materiali puri, nudi, e senza stoffe. 

Per cominciare, arriva un amuse-bouche che difficilmente dimenticheremo: Chips di pelle di pollo croccante spalmati di maionese, caviale blu e aneto; un Fiore di zucca alla piastra ripieno di caprino fresco; una Foglia ostrica e, quindi, adorabili grissini di farro appena sfornati avvolti di bacon da un lato, di lardo dall’altro. Il pane, che arriva dopo, è anch’esso cotto in forno a legna e la crosta, di una croccantezza totale, libra in bocca profumi intensi di miele e di fieno.

Per tutta la successione di questi piccoli assaggi bevo di gran gusto il popolarissimo Ancestrale Sparkling Rosé di Fairbank, un vino di Victoria della Sutton Grange Winery che assomiglia in tutto a un vento caldo di tiglio, sambuco e zagara mentre, in bocca, ha un ché di officinale, di tè verde salato, tannico e metallico.

Fa quindi capolino, quasi timido, un Dumpling ripieno di merlano King George con pomodoro, tamarindo e caviale di trota, che assaporiamo con lo Chablis 2015 di Christophe et fils, che celebriamo – benché un poco immaturo – nel suo sorso di gesso, fiori di campo e finocchio selvatico. 

Torniamo quindi in Australia col Riesling biodinamico della Clare Valley Opa, watch out!, un nettare attraversato da un’acidità stridente, viperina e vegetale, che ben si sposa con l’incredibile Fungo shiitake e daikon.

In Australia, in fatto di vino, sono molto smaliziati, tanto che etichette afferenti al mondo orange e naturale, tanto in voga anche da noi, popolano forse con maggior zelo le tavole dei ristoranti fine dining. È il caso di questo Memento Mori di Dane Johns, un macerato di Moscato Giallo, Vermentino e Fiano che, col suo profumo di tè alla menta, salvia, rosmarino, più un quid di noce moscata, ben si sposa con quello che, di fatto, è il piatto più convincente della serata: l’Agnello, il miele, i fichi e il mazzetto di prezzemolo a cui la sapiente cottura ha restituito una certa secchezza, pur mantenendovi una misteriosissima carnosità. Il piatto in questione, comunque, rappresenta una delle più compiute esperienze sensoriali di questo emisfero: il miele, difatti, è masticatile perché ancora contenuto dal favo e, assieme alla carne, succulenta, ferrosa, dolce, caramellizzata dal contatto con le braci, è un idillio che contiene in nuce tutte le dolcezze più organiche, più ematiche mai esperite e che, soprattutto se abbinato al vino, comincia a vibrare di profumi intensamente rurali e campestri.

Per dolce, a confermarci l’indifferenza dell’Australia verso il mondo della pasticceria, arriva un Gelato al latte di capra cosparso di polvere di Davidson Plum, aghi di pino e lamponi disidratati. Lo apprezziamo, certo, benché nel minimo sforzo, e tanto più col superbo sorso del sidro Cider de Fer 2015, da mele stravecchie della Cedrerie du Vulcain.

La galleria fotografica: