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Aponiente

Il mare oltre il mare

La vertigine che provoca l’appoggiare il pensiero sull’immensità del mare, su tutto ciò che cela, è altresì la sensazione che evoca un pranzo da Aponiente. La cucina di Ángel León mira a rappresentare la parte invisibile dell’abisso, superando l’identificazione di quest’ultimo con il pescato. In altri termini, se la comune cucina di mare – anche eccellente – consiste nella valorizzazione della materia ittica (un rombo alla brace, un gambero rosso, delle navajas…) e si risolve in quest’ultima (mezzo e scopo, una parte a valere per il tutto), a El Puerto de Santa Maria vi è il tentativo di tradurre in pietanza il mare inteso nella sua interezza (e complessità).

La strada percorsa è coraggiosa e oggettivamente impegnativa, anche per chi si siede al tavolo, poiché passa per la valorizzazione di frutti sconosciuti – un’indagine a livello macroscopico – nonché di texture non usuali e lo svelamento di anatomie mai impiegate – il versante microscopico dell’immersione –. Il rapporto con la materia e il contesto è affine a quello di Aduriz e del suo Mugaritz, in entrambi emerge l’urgenza di superare la soglia di ciò che è immediatamente percepibile (qui, tuttavia, l’obiettivo non pare essere quello di stimolare riflessioni altre). Un ulteriore tratto comune è la totale compenetrazione tra il ristorante e l’ambiente che lo circonda: Aponiente si trova nei locali di un antico mulino a marea, nel bel mezzo di un’oasi marina protetta, un luogo meraviglioso, valorizzato da un personale di sala che, in più occasioni, ha dimostrato competenza e sensibilità non comuni. La creazione di un sistema ristorativo tanto coerente porta con sé risultati lodevoli anche in termini di sostenibilità, qui vissuta autenticamente e con discrezione.

La cucina come tramite verso l’invisibile

Il primo caposaldo della cucina di Ángel León è, come già accennato, la testura, tant’è che quest’ultima – per ciò che attiene all’elemento proteico – spesso prende il sopravvento sul gusto, delegato ai comprimari: in Nigiri di calamaro fermentato, foglia d’ostrica e caramello di Pedro Ximenez, il mollusco mima il morso del riso (si percepiscono distintamente i “chicchi”), il “sapore di mare” è  invece affidato alla componente vegetale (la foglia d’ostrica) ed il caramello – a mo’ di salsa di soia – eleva la complessità del boccone; in Seppia kakigori e adobo, la prima viene congelata e ridotta in sottili fogli attraverso una macchina per kakigori – la famosa granita giapponese – per poi venire intinta nel tuorlo d’uovo ed in una panure che, in realtà, è adobo congelato (una tipica marinata in cui si immergono carni e pesci prima della frittura). L’adobo è la prima di numerose citazioni della tradizione gastronomica spagnola – seguiranno escabeche, salpicon, salsa marinera, manteca colora e puchera – che innervano l’intero percorso. La parte centrale della cena ha visto, poi, una serie di piatti eccezionali, come Caviale imperiale affumicato, crema di cipolla e acqua di salpicon – il caviale (note iodate, di fumo e burrose) valorizzato come poche volte prima, in abbinamento alla dolcezza della cipolla e all’acidità del salpicon – e Muergos (cappelunghe locali, più piccole), salsa marinera in più consistenze, olio di arancia amara, finocchio marino e barbe di cappalunga, in cui il connubio tra la le decise note marine e le componenti amare nonché aromatiche dell’arancia restano impresse nella memoria. Sullo stesso livello si pongono Escabeche di foglie di fico, palnkton, rafano e vongole e Quisquilla, peperone verde, vaniglia, creme fraiche e ceci freschi, a definire una cucina autenticamente autoriale, a cui si può eccepire solamente l’indulgenza verso uno schema gustativo basato su cremosità lattica-grassezza in contrapposizione a note acetiche. L’ultima parte del percorso colpisce per la coerenza rispetto al tema dello stesso nonché per la compenetrazione dolce-salato (la dolcezza viene utilizzata con estrema parsimonia), tesa ad abbattere il consueto confine tra i due mondi.  Il pre-dessert è infatti Acqua di limone con sferificazione di alga Codium, cui seguono Mochi di pelle di murena, gelato alla salsa di soia e scaglie di pelle di branzino – la pelle di murena viene impiegata per la similitudine di consistenza con il mochi giapponese (sapore neutro) –, una serie di caramelle gommose preparate con diverse alghe ed aromi (anziché collagene animale) e Prosciutto di ventresca di tonno e cioccolato, un boccone stupefacente (il cioccolato avrebbe potuto essere anche più amaro). Persino alla piccola pasticceria vengono riconsegnati un significato e un valore intrinseco in cui, oramai, raramente ci si imbatte: incisiva la “sfoglia” di granchio molle ed anice, citazione della “Torta Ines” sivigliana. Una cena memorabile.

IL PIATTO MIGLIORE: Salpikon, caviale e Cappalunga, marinera.

La Galleria Fotografica:

Il Mare ad Aponiente, secondo il “Jules Verne” degli Chef Spagnoli

Il silenzio assordante del mare, che si infrange lungo le insenature del porto di Cádiz, circoscrive quel segmento di Spagna che guarda con orgoglio allo stretto di Gibilterra. Pescherecci al largo, issano reti affollate dai più genuini frutti del “terroir” marino. Brezza iodata nell’aria frizzante, incisa dal sole di Puerto de Santa Maria, conduce all’ingresso del ristorante Aponiente. Il cuoco è tutt’uno con lo scenario circostante.

Ángel León scruta, ammira e dialoga con l’oceano.

Lo “Chef del mar”, così battezzato dalla critica per la sua passione marina, nasce a Jerez de la Frontera, nel sud della Spagna. Figlio di pescatori, cresciuto con l’energia delle onde e il profumo di salsedine marchiato nello spirito. Un amante sincero e incondizionato del mare, che da autodidatta è riuscito a emergere nel panorama ristorativo ispanico, proprio grazie all’attitudine legata indissolubilmente all’universo marino. Dopo una formazione di base alla Taberna del Alabardero di Siviglia, incrementa le sue conoscenze tecniche in Francia presso Le Chapon Fin per oltre due anni. Caratteristica, l’influenza francese, che si avverte in maniera prorompente nel suo stile contaminato: pronto a recitare espedienti di moderna avanguardia spagnola, amalgamati senza remore all’uso di grandi salse francesi. Una gavetta lontana da grandi ‘maison’, ma pregna di vissuto personale e di rapporti diretti con l’emisfero marino.
Tornato in Spagna, dopo un passaggio alla Casa del Temple di Toledo, inaugura il suo ristorante nel 2007, in un vicoletto di Puerto de Santa María.

Qui, finalmente libero e audace come il suo adorato mare, comincia un lavoro unico sull’ecosistema ittico, fatto di ricerca, sviluppo e costante evoluzione. Grande valore attribuito alle idee, sempre controcorrente, che vanno a plasmare una forte simbiosi tra la personalità del cuoco e il prodotto marino. Una cucina minimalista e teatrale al tempo stesso, che riflette l’animo di Ángel, solcando e ripercorrendo i suoi viaggi tra i pescherecci, il rapporto con la materia prima locale e la sensibilità di lettura di un elemento vasto e misterioso come il mare.

Nonostante le prime incertezze della critica, arrivano in successione le due stelle Michelin (2010 e 2015) a confermare che la rotta intrapresa è quella giusta. Aponiente trasloca nella suggestiva sede del Molino de Mareas, dinnanzi all’oceano. Una nuova opportunità di crescita personale per il cuoco, pronto a coniare un concetto innovativo di alta cucina sostenibile, che celebra il verbo del mare nobilitando elementi poveri dei fondali oceanici con etica, introspezione e grande coerenza gustativa. La tecnica di Leon si muove al riparo da un’applicazione fine a sè stessa, non è rigorosa e risulta forse meno scenografica di altri grandi nomi, ma irrompe altrettanto ludica, virtuosa e interattiva in ogni passaggio. Una connessione diretta tra materia, pensiero e trasformazione, che ha dato vita a invenzioni come il Clarimax, che chiarifica i brodi con le alghe diatomee; formaggi a base di grasso di pesce e salumi ittici; o ancora paste di plancton marino utilizzate per rafforzare il gusto dei piatti. Proprio dal plancton, prodotto che León padroneggia da tempi non sospetti e conosce come le sue tasche, si genera l’ultima scoperta legata agli abissi marini: la bioluminescenza.

Dopo una lunga serie di studi trascorsi al fianco di biologi (presenti spesso anche in sala durante l’esperienza al ristorante), lo chef ha ricondotto la fosforescenza del fitoplancton a una proteina chiamata luciferina. Una luce naturale catalizzata da enzimi rintracciabili in alcune specie di plancton commestibili. Dalla scienza giunge rivoluzionaria la modulazione pratica in cucina: le proteine vengono estratte da una varietà di granchio originaria del Pacifico, ricavando una biomassa di plancton luminoso, poi congelata, disidratata e cucinata. Una corrispondenza assoluta tra idea, ricerca, applicazione e gusto, che ha richiamato l’attenzione anche della scuola di Harvard: riassumendo l’animo estroso, unico e non convezionale di León.

Durante l’edizione 2017 di Madrid Fusion arriva il titolo di “Miglior chef d’Europa” conferitogli dal patron José Carlos Capél, a ribadire il suo impegno sul fronte ambientalista da eco-chef che rivaluta pesci umili e poco noti alla canonica alta cucina spagnola. Un traguardo che non sancisce un punto d’arrivo, perché l’idea di fermarsi da Aponiente è l’unica non contemplata. Ricerca perpetua alla scoperta dei frutti del mare, con l’orecchio teso ad ascoltare e a cogliere ispirazioni e suggestioni inesauribili.

I congressi sono come i calabroni: non dovrebbero eppure continuano a volare. A dispetto dei calcoli degli entomologi sull’apertura alare, il loro ronzio ogni tanto riesce persino a ficcare il pungiglione nel cuore vivo della contemporaneità. Provocando choc non solo anafilattici, che rimettono in discussione assetti dati comunemente per scontati. Ce l’ha fatta, almeno in parte, Gastronomika 2013, che a San Sebastian in questo mese di ottobre ha inquadrato con taglio a dir poco inusuale il panorama gastronomico internazionale. Dalla messa a fuoco sono stati infatti esclusi i paesi del nord Europa, ma non è andata molto meglio al continente americano, che ha visto il solo Acurio sul palco. Forse per sfatare il cliché di una cucina irrimediabilmente nomizzata, aureolata di una corona di fiori ed erbe spontanee nella scampagnata georgica dalle Ande alla tundra, giù giù fino alle foreste australiane. Quella forse ha già preso residenza in qualche evento più o meno clandestino (ma l’anno prossimo sarà la volta dell’Italia, presente quest’anno con Gennaro Esposito).

Focus su Londra, allora, e sulla sua cucina metropolitana, che significa Heston Blumenthal (un po’ stanco sul palco, alle prese con il filo da lui stesso tranciato del food pairing, complessificato dalla volatilità e dagli ingredienti ponte) e soprattutto tanta, tantissima fusion. Talvolta di enorme interesse, come nel caso del giapponese Junya Yamasaki del ristorante Koya, che ha illustrato sul palco passo dopo passo la complessa preparazione di un piatto tradizionale giapponese, il calamaro fermentato nel suo fegato (ikano shiokara), bomba vischiosa che adopera anche per condire, al posto delle acciughe, o preparare la maionese. “Sulle montagne i vecchi usavano fermentare in questo modo, con le sue interiora, anche la selvaggina, che così si conserva per sempre: sto attualmente investigando questi procedimenti nel tentativo di riproporli”.

E anche un’altra tecnica conserviera di matrice asiatica ha avuto la sua celebrazione sul palco: l’essiccazione, soprattutto dei prodotti ittici. Quasi che tramontato il sole della lunga estate spagnola, la cucina avesse messo mano alle dispense dei vasetti senza tempo per superare il grande freddo dell’immaginazione. Ad aprirli sono stati due “outsider” di razza. Corey Lee, chef coreano che per 8 anni ha affiancato Thomas Keller alla French Laundry, oggi al Banu di San Francisco, e Nuno Mendes del Viajante di Londra. Davvero eccellente la ponencia del primo, che continua ad attingere suggestioni dalla cucina quotidiana della madrepatria, incollandone i frammenti con l’oro di una tecnica francesizzante, quasi fosse una ceramica crepata e nobilitata dal kintsugi. L’essiccazione gli serve per variare la tavolozza delle testure nel senso, modernissimo, del gelatinoso e del gommoso (è il caso dell’orecchia di mare e dell’oloturia, essiccata, reidratata, farcita come la ballotine di un MOF); ma è anche simulata con mossa di flamenco nella zuppa di finta pinna di pescecane, trompe-l’oeil obbligato dalla messa al bando dell’ingrediente originario. “Sono prodotti da valorizzare nelle loro differenze dal fresco: stanno al pesce come l’uva sta al vino o il prosciutto al maiale”, ha spiegato.

Anche lo chef portoghese è voluto transitare per il ciclo delle metamorfosi, a lui congeniali grazie alla familiarità col baccalà. A sua somiglianza, la superba capasanta britannica viene marinata, disidratata e nuovamente marinata con il brodo delle barbe, sempre per ragioni di testura; mentre il “dashi” è preparato con il baccalà vero e proprio. Un accanimento impensabile fino a pochi anni orsono, che tuttavia non invade il perimetro dell’autonomia dell’ingrediente, regista e cuoco di se stesso.

Folate cariche di spore che non sembrano aver lambito la Spagna, dove gli chef continuano a fare finta di niente. Quique Dacosta come Dani Garcia e Pedro Subijana, Martin Berasategui e Juan Mari Arzak, inceppati nel tartagliamento dei trompe-l’oeil più improbabili. Con le solite eccezioni di Angel Leon, che dal mare trae non solo plancton, ma oggi anche zuccheri e peperoncini; Josean Alija, sempre più elegante ed epurato; Joan Roca, che tuttavia cerca l’innovazione lontano dal pass, nella creazione di un’opera d’arte totale chiamata Somni con l’artista visivo Franc Aleu. Mentre Andoni Luis Aduriz, che ha dedicato il suo intervento alla “rete neuronale delle idee” sottesa al balzo della creatività, forgia come un ingegnere venusiano i suoi UFO (Unidentified Food Object), esperimenti sul limitare stesso della cucina e del gusto. Spesso evanescenti come una fata morgana che si dilegua nella bocca (ieri le pompas, oggi le scaglie di ghiaccio al sugo di gamberi rossi), quasi un monito sull’obsolescenza programmata della cucina d’avanguardia.

L’impressione è che dopo un decennio a forma di freccia, monodirezionale e dromocratico dietro la punta sibilante di Ferran Adrià, la cucina abbia imboccato percorsi plurali e paralleli, dove a spuntarla è chi possiede un universo di sapori propri. Un po’ come è accaduto dopo lo spegnimento dell’incendio avanguardista, quando Michelangelo Pistoletto scriveva: “Per me non ci sono forme più o meno attuali, tutte le forme sono disponibili, tutti i materiali, tutte le idee e tutti i mezzi. Il cammino dei passi di fianco porta fuori dal sistema che va diritto… Procedendo di fianco, la corsa fra gli individui diventa parallela, perché ogni individuo procede individualmente senza proiettarsi fuori di sé né in punti astratti né sugli altri. In questo cammino non ci sono i più bravi e i meno bravi, perché ognuno è quello che è e fa quello che fa; nessuno ha bisogno di fingere per mostrarsi migliore e diventa facilissimo comunicare senza strutture di linguaggio perché è facile capire di ognuno chi è e come è”.

Tre istantanee di una cena da Andoni, al Mugaritz:

Toast affumicato, 100% astice.

Erbe fritte dell’orto con aromi stridenti (shiso e cannella).

Carote con i loro fiori.