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Mugaritz

Mugaritz Restaurant, Gipuzkoa, Spagna

È ancora capace di dividere, il ristorante Mugaritz, saldamente ai vertici mondiali nella classifica dei 50 Best, eppure baciato dalla controversia che oppone fazioni di pubblico e di critica, forse persino le sfere emozionali dei suoi stessi clienti. Sintomo di uno stato di grazia condiviso da pochi, grandi chef: in questi tempi di abbiocco per prandium, la cucina si divincola più viva che mai fra i rebbi della forchetta e riesce persino a graffiare il palato inviando i suoi messaggi nervosi al cervello.
Andoni non è un cuoco qualunque: mangiare al suo Mugaritz significa sprofondare in un’altra dimensione culinaria, che chiede all’ospite un vigile abbandono, quasi una forma di sonnambulismo che concili veglia e sonno, interrogazione e vaticinio. Da sempre clamorosamente inattuale, artista postumo nell’accezione di Jean Cocteau, ha di certo anticipato il naturalismo che rampica dalla Scandinavia all’Amazzonia, senza tuttavia indulgere al brutismo primitivista e low tech delle espressioni più puntute. Nessuna sbavatura nei suoi piatti, anzi un’attenzione che rasenta la maniacalità per dettagli pressoché insensibili alle papille umane; neppure l’ombra del riduzionismo che accetta la complessità della cucina insieme ai colli dei galli cedroni. La perizia tecnica, tanto avanguardista che classica, dovuta a maestri come Ferran Adrià e Martin Berasategui, è innanzitutto un’istanza di rigore. Anche se ultimamente altre urgenze sembrano avere guadagnato la primazia: caduta la dimostratività degli anni 0, una diversa “semplicità” scolpisce i piatti, incentrati su un’idea sensoriale piuttosto che sulla tecnologia o sul concetto.
Soprattutto Andoni sembra possedere il requisito oggi imprescindibile nel panorama gastronomico internazionale: il possesso di un registro emozionale, cioè gustativo proprio. È l’insapore, da sempre investigato quale estrema provocazione in tempi di concentrazioni muscolari, capace di attrarre nel mulinello del suo vuoto la materia vagante del pensiero. Molte portate sembrano non contenere un solo grano di sale (per esempio il sugo di gamberi rossi delle scaglie di ghiaccio), quasi che ancora una volta la testa e la gola debbano ingaggiare il loro duello gastronomico.
La messinscena del pasto mira a scongiurare qualsiasi tipo di routine, per esempio attraverso titoli-trappola che non corrispondono alla reale composizione del piatto (cipolla carbonizzata al posto del nero di seppia), in modo da attivare la sensibilità del commensale. La prima parte del menu, dal toast affumicato con l’astice e la sua testa, che profuma di prateria e di primavera, allo struggente racemo di amaranto rosso fritto con sesamo in polvere, studio sulle testure sabbiose dove l’Oriente torna categoria dello spirito, va consumata con le mani, per esaltare la tattilità e il rapporto originario col cibo. Ma gli stessi supporti sono qualcosa di più di uno strumento: veicolano piuttosto una forma di sinestesia con l’ingrediente che riesuma gli esperimenti futuristi attraverso la citazione delle tessiture (il legno per la carota, i minuscoli arabeschi del fritto pastellato). Fino al gioco della morra che vivacizza l’impeccabile royale a bassa temperatura, servita con caviale o meno a seconda di chi vince, e alla puntata in cucina per abbattere la quarta parete di qualsiasi ristorante, dove si gustano i mini-rombi fritti. Ennesimo ingrediente aurorale che però lancia il sasso della provocazione sulla definizione di “buono”, suscitando un legittimo shock. Giacché la sacrosanta retorica della sostenibilità partecipa delle nostre sensazioni, così come il pregiudizio verso quanto è bruciato o incenerito (vedi il condimento del tendine fritto e il toast di midollo, dove sembra ancora fumare il terribile incendio del locale nel 2010); cosicché a insinuarsi è una cucina del sospetto che demistifica le certezze precostituite, emancipandocene. Alla fine del menu sopraggiungono poi i 7 vizi capitali, sequenza di piccola pasticceria contenuta in una torre di Babele a cassetti. Cioccolatini vuoti per la superbia, nessun cioccolatino per l’avarizia, consistenze lubriche per la lussuria. Un’allegoria in piena regola, che insinua l’ennesimo dubbio sui livelli di lettura dei piatti che l’hanno preceduta.
Ma anche l’impiattato contribuisce ad instaurare uno straniamento fecondo: scorrere le portate del menu equivale ad una carrellata di UFO (Unidentified Food Objects), mai così alieni rispetto agli enti tridimensionali che popolano i nostri frigoriferi e i banconi dei mercati. Sono spesso esaltati dal tocco vegetale di erbe impossibili: la messicana papaloquelite, twist olfattivo dell’agnello con i suoi aromi di foglia di mandarino e coriandolo, come la tea rock, da cui si estrae un dolcificante naturale immacolato.
L’elemento dominante, però, è la testura, vera ossessione di Andoni. Un po’ per ragioni di terroir (la cucina basca valorizza consistenze gelatinose altrove sgradite, vedi le kokotxas); in parte quale elemento di sovversione del gusto. Il menu si configura quindi come una sequenza di tattilità sottilmente “disturbanti”, sempre perfette nella loro esecuzione: la vischiosità filamentosa del granchio, la cui “mucillagine” deriva dai semi di lino ammollati nel latte delle noci di Macadamia; la spugnosità del riso fermentato, un’esplosione di sakè e di cantina; lo stridio sotto i denti del vetro di cioccolato; l’amido crudo dei dolcichini, che prosciuga il palato dalla succulenza del nasello. Soprattutto l’evanescenza “tiepida” dei trucioli di ghiaccio, sorta di rosa del deserto scarlatta pronta a sciogliersi in bocca senza anestetizzare il palato grazie a una costosa macchina giapponese. Una cucina dell’istante non meno effimera delle pompas del passato, quasi un apologo sull’obsolescenza programmata dell’avanguardia.

Mugaritz Restaurant, Gipuzkoa, Spagna