Passione Gourmet Alessandra Meldolesi Archivi - Pagina 2 di 4 - Passione Gourmet

Prima della Prima: Marcello Trentini

INSALATA DI LINGUE D’ANATRA, FEGATELLI BRUCIATI E GEL DI FRAGOLE

Ludwig Wittgenstein parlava di un’anatra-coniglio, sulla scorta della figura utilizzata dallo psicologo Joseph Jastrow. Forma bivalente che rimette allo sguardo di chi osserva la soluzione della sua ambiguità, leggibile in un senso o nell’altro come la testa di entrambi gli animali, rivolti verso sinistra o verso destra. Serviva al filosofo austriaco per evidenziare l’“aroma che il cervello aggiunge a ciò che vede”, il fraseggio dell’immagine che favorisce ora un’interpretazione, ora l’altra, abbracciando talvolta le due insieme. L’occhio come grammatica del vedere, insomma, poiché “tutto ciò che vediamo potrebbe essere altrimenti”. Guardare significa inviare una immagine al cervello affinché ne elabori la concezione visiva: è “un pensiero che echeggia nel vedere” piuttosto che una semplice ricezione.

Lo stesso rimpallo fra sensi e pensiero, veicolato da un’ambiguità tutta gastronomica, è sovrano nella cucina di Marcello Trentini, dove è il palato a fraseggiare gli scambi fra carne e pesce o fra culture alimentari differenti. Come accade in questa Insalata di lingue d’anatra con fegatelli bruciati e gel di fragole, crasi fra due specialità diverse, dove l’anatra riveste anche il pelo del coniglio, giocando un duplice ruolo. Ci sono infatti le lingue di anatra abbrustolite, tipiche della cucina asiatica nonché classico francese (Ducasse), e il torchon di fegatelli, sempre di anatra. Bruciati. Insieme si prestano a due letture: l’insalata piemontese di frattaglie, composta generalmente di nervetti e testina, e una specialità sabauda a base di selvaggina da piuma, foie gras e frutti di bosco. Un gioco tutto in casa, quindi.

“Ho cercato di far convergere l’evoluzione di due ricette tipiche in una entrata molto fresca, ma dai gusti profondi. Quindi le rigaglie di anatra cucinate in modo leggero, ma spinte da sentori di griglia e tostatura, e il torchon, che per me è il simbolo della joie de vivre, ma senza il foie, cioè il lusso e il grasso. Si tratta di una ricetta da me codificata: i fegatelli vengono marinati nel latte a 50 °C, poi bruciati con il cannello da pasticceria per simulare la rosolatura della scaloppa e modellati, invertendo le fasi della ricetta originale, in cui il fegato viene prima arrotolato e poi cotto al vapore o confit. La freschezza deriva dalle Mara des bois, fragole selvatiche che maturano da maggio a ottobre, carnose, acide, dolci, con un gusto spiccato di bosco che si lega all’evocazione della selvaggina. Il concept dell’insalata è completato da nasturzio, acetosella e portulaca, con la loro spinta acida e amara, e dalla salicornia per il côté iodato, sapido, croccante”.

Foto di Giorgio Cravero – Studio Blu 2.0.

Insalata di lingua d'anatra, fegatelli bruciati e gel di fragola, Chef Marcello Trentini

TORTELLI DI PATATE E VONGOLE CON CREMA DI FRIGGITELLI, SALICORNIA, PEPERONCINO E MANDORLE

Irriverente: è l’aggettivo forse più calzante per la cucina di Valeria Piccini, cuoca autodidatta capace di confrontarsi alla pari con i grandi. Della sua cucina (come pure di Carme Ruscalleda) si può ripetere quanto la femminista Hélène Cixous ha teorizzato sul potere dell’“écriture feminine”, ovvero che sottrae i sensi all’ortopedia concettuale: “impossibile definire una pratica femminile della scrittura, ed è una impossibilità che si manterrà, perché non si potrà mai teorizzare, rinchiudere, codificare questa pratica; senza con questo voler dire che essa non esista… Essa ha e avrà luogo fuori dai territori subordinati alla dominazione filosofico-teorica. Essa si lascerà pensare solo dai soggetti che rompono gli automatismi, da coloro che percorrono i bordi che nessuna autorità soggioga”: perché questo è esattamente il suo specifico.

E questa è anche Valeria Piccini, atopica nella mappa delle tendenze, inclassificabile nel catasto degli stili. Insomma libera e costantemente altrove. Soprattutto concreta, di quella concretezza che etimologicamente cum-cresce la materia cui applica di volta in volta il suo estro. I tortelli di patate e vongole ne offrono un esempio lampante, nella sfrontatezza con cui attraversano i confini senza perdersi nei minuetti diplomatici o pagare dazi creativi. Nel piatto, pensato per il recente spin-off di Caino, il ristorante fiorentino Winter Garden, c’è tutto: la tradizione toscana (il tortello di patate con la sfoglia callosa, caposaldo del Casentino e del Mugello), l’appeal neorurale (Valeria ha salde radici contadine), la contemporaneità tecnica. Il tutto condito da un ricordo involontario della Prima Secca di Uliassi, per via di una sincronicità disarmante: vongole + mandorle + alghe. Sebbene gustativamente resti quasi sullo sfondo.

“Siamo partiti dai tortelli, che qui ogni famiglia prepara a modo suo. Ma siccome sono piuttosto neutri, abbiamo pensato di abbinarli a un mollusco sapido, come le vongole. Le abbiamo aperte tuffandole per meno di un minuto in acqua bollente, dentro uno scolapasta, e poi passandole in acqua e ghiaccio, in modo che restassero quasi crude e turgidissime. Ce n’è una anche dentro ogni tortello. Nel ripieno di solito si impiegano aglio e prezzemolo, ingredienti che abbiamo messo a macerare nell’olio di nostra produzione, per poi procedere a un’emulsione con l’acqua delle vongole stesse, che non abbiamo disperso. Si tratta del liquido alla base del piatto. Quindi c’è una liquidità fresca, quasi estiva, che ricorda una zuppa; mentre il condimento sopra è asciutto. Una macchia di crema di friggitelli al Bimby e il resto degli ingredienti a crudo: il peperoncino a dialogare con i friggitelli; le mandorle tostate e la salicornia che riprendono la consistenza croccante e gli aromi ammandorlati e iodati del mollusco”.

TORTELLI DI PATATE E VONGOLE CON CREMA DI FRIGGITELLI, SALICORNIA, PEPERONCINO E MANDORLE, Valeria Piccini

Che cosa significhi metis, l’astuzia dei Greci, non è scritto in nessun testo filosofico. Per coglierne l’essenza occorre rifarsi a una casistica che vede l’eroe destreggiarsi attraverso una varietà di mezzi, ricondotti dai mitologi a 3 situazioni topiche: il travestimento, l’invisibilità e l’occasione. Ampiamente utilizzate le prime due, per mettere in scacco l’ovvietà, attraverso la presentazione di trompe-l’eoil o di ingredienti in absentia, questo di Lorenzo Cogo è il piatto del kairos, o tempo di dio. Dove la tempestività decreta il successo creativo.

Il gusto è sincronizzato sul momento come un orologio ad alta precisione: nessun margine di errore. Metà primavera 2014 a Marano Vicentino, l’esposizione è quella dell’orto coltivato secondo metodi biologici dal contadino che lavora per il ristorante; per terra le impronte fresche del cuoco, che si è appena aggirato nell’habitat. Perché il piatto è nato proprio così: assemblando le sensazioni verdi disposte a varie altezze dal suolo. I piselli con il loro baccello, centrifugato a crudo in un’esplosione di clorofilla e di dolcezza, che rende omaggio al territorio (risi e bisi); poco sopra le foglie novelle della vite, con un ricordo fragrante di Mediterraneo; alzando lo sguardo fino alle pesche e alle susine acerbe, in lamelle che regalano una testura croccante, una leggera astringenza e acidità, più l’amaro elegante della mandorla. La sostanza, nel senso etimologico di quanto soggiace (e così sorregge il gioco aromatico), è rappresentata dai brandelli di cagliata fresca di latte affumicato sulla brace, da cui si ottiene anche il burro. Elemento altrettanto aurorale nell’evocazione dell’inizio, quasi una carezza di sole sulle foglie.

Dal gioco delle sensazioni, fragili ed energetiche, si stacca la nota amara di un altro centrifugato, a base di alloro, in gocce sparse sul verde dei baccelli. Fondamentale per strutturare il piatto con un finale di pulizia quasi silvestre, che parla ancora di mito e di Dafne, del “fatto che l’alloro, come il rosmarino, reagisca al tocco degli animali, sprigioni il suo profumo solo se lo tocchiamo”, come osservava l’artista Giuseppe Penone. “La fanciulla che abbandona la sua forma umana per essere trasformata in vegetale, incarna una concezione, un’osservazione della natura molto più sottile di quella che ci dà la scienza”: ossia quella del contatto fisico.

Attorno al piatto neorurale, dentro al suo contenitore rustico, il restyling del ristorante, con i pannelli stilizzati degli alberi che sfumano nel panneggio verticale delle tende, recanti le stesse decorazioni, a evocare l’abbraccio ombreggiato di un giardino. Quella morsa fra arte e natura, oggetto di un interminabile dibattito estetico, da cui la cucina di El Coq sta estraendo il suo gheriglio, all’unisono con i ristoranti più importanti del mondo.

Foto di Bob Noto

alessandro panichi

Villa Aretusi non è ancora entrata nel tomtom dei gourmet, eppure il suo cuoco ha un curriculum ben assortito: prima Gualtiero Marchesi e Paolo Lopriore all’Albereta, poi Filippo Chiappini Dattilo, Antonio Ghilardi, Marco Fadiga, Nadia Santini, Angelo Paracucchi. Soprattutto Pier Bussetti, chef stellato della Locanda Mongreno e del Castello di Govone, di cui è stato lungamente secondo: un esponente fra i più irriverenti dell’avanguardia italiana anni 0, interprete di una tradizione eretica che per anni ha affiancato sul piatto l’originale e la sua evoluzione, inscenando una narrazione dove il parallelismo la fa da padrone.

Dal 2011 al ristorante Sotto L’Arco, presso il resort della prima cintura bolognese, il suo allievo sarzanese Alessandro Panichi continua a muoversi sulle stesse guide, infischiandosene dei richiami all’ordine che squarciano le gole dei critici passatisti e delle nonnine larvali. Il mix è sempre quello: solide basi classiche, canovacci intrisi di tradizioni regionali, affondi creativi che esplorano le frontiere estreme del gusto. Dove un richiamo al già noto c’è sempre, ma remoto e quasi pretestuoso, alla maniera di Paolo Lopriore.

Si legge per esempio nel filetto di triglia appena scottato all’unilaterale col coperchio, per salvaguardare l’umidità, su julienne di cavolo crudo e crema di ostriche a base di burro bianco, che si inserisce in modo originale nel filone paradossale dei “reverse crudisti” oggi in voga, dalla cotoletta sbagliata di Baronetto al brasato crudo di Milone. Perché sottotraccia si riconosce una choucroute di mare, grazie all’acidità citrica che rimpiazza quella lattica della fermentazione, senza disperdere le note sulfuree dell’ortaggio intatto; mentre la spolverata croccante di semi di coriandolo tostato in superficie cita una classica aromatizzazione, esaltando anche l’acidità. L’effetto è quello di una risacca: se Lévi-Strauss notava che non si dà arrostitura dopo la lessatura, perché invertirebbe il senso della storia (come tuttavia hanno fatto i nostri cuochi col moderno sottovuoto), il testacoda in questione è ancora più stordente.

Stessa trasparenza negli spaghetti affumicati con burrata e pepe, dove la pasta è affumicata 3 volte per mezz’ora a secco e a crudo, sottovuoto col fumo di trucioli di legno dolce e del finocchio secco; così come il sale per la lessatura e l’olio di girasole, scelto per la neutralità e la capacità di aromatizzazione. L’effetto è molto intenso, ma trova nella nuvola di formaggio ridotto in stracciatella al tempo stesso uno stemperamento morbido e un veicolo grasso, che con la sua patina tappezza il palato proteggendolo da un’aggressività ficcante. Il pepe nero e fresco in mignonnette, dal canto suo, chiude il triangolo della citazione: siamo di fronte a una cacio e pepe di nuovo conio, rivoluzionata nelle sue coordinate geografiche e gustative. Lo stesso minimalismo, con la nota affumicata a rimpiazzare gran parte della sapidità del formaggio, e una mantecatura altrettanto goduriosa. Perché il pepe tostato con una nocciola di burro e sfumato con l’acqua di cottura amidacea e affumicata, fino a ottenere un’emulsione arricchita dall’aggiunta di un cucchiaio di burrata, che si fonde al suo interno, accoglie la pasta insieme a un giro di olio affumicato in finitura.

Triglia, su julienne di cavolo crudo e crema di ostriche a base di burro bianco, Alessandro Panichi

Triglia, su julienne di cavolo crudo e crema di ostriche a base di burro bianco, Alessandro Panichi

Un’insalata, omaggio alla familiarità piemontese con gli ortaggi crudi, a base di asparagi verdi, bianchi e cetrioli in lamelle sottilissime, Un’insalata, omaggio alla familiarità piemontese con gli ortaggi crudi, a base di asparagi verdi, bianchi e cetrioli in lamelle sottilissime, Matteo Baronetto

Una grande anteprima per i nostri lettori, un’esperienza privilegiata con la presentazione di un piatto in esclusiva che rappresenta il nuovo corso di Matteo Baronetto. Un sentito “grazie” al duo stellare Meldolesi/Noto, infaticabili e unici.
Bruno Petronilli

Che cucina si mangerà al Cambio di Torino? Fra le punte di diamante della nuova cucina italiana, Matteo Baronetto si è distinto negli scorsi decenni per l’azzardo nella terra incognita dell’astrazione, la cui frontiera gustativa è avanzata senza sosta dietro intuizioni spiazzanti e personali, quando i cuochi italiani agitavano il retino verso abbinamenti e modus operandi della memoria. Parliamo di piatti miliari come il rognone con i ricci e la crème brûlée all’olio di oliva, totalmente privi di agganci nel ricettario tramandato, che presto troveranno posto nel menu di uno dei ristoranti più antichi e blasonati della scena italiana.

Lo spirito dei luoghi tuttavia presenta le sue legittime rivendicazioni a una presenza consistente in carta, per esempio nelle sembianze della finanziera, inventata su questi fornelli quale spuntino fra una seduta e l’altra del primo parlamento d’Italia, più che mai nelle corde di un cuoco versato nel quinto quarto. Che sia filologica o quale guarnizione dell’eccellente carne di fassona piemontese cruda, nel reverse crudista di un arrosto bagnato dal suo sugo. Ci saranno il riso alla Cavour e persino gli agnolotti, intramezzati a ricette basate su tecniche ancestrali, come il carbone che contende i fuochi della cucina Matinox, disegnata dallo chef, al gas e all’induzione.

La cucina a venire sarà poi frutto delle emozioni del momento, quotidiana coma una mamma che ogni mattina mette la casseruola sopra il fuoco. “Vivere il luogo, vivere il momento” taglia corto Baronetto, ponendosi al servizio della rénaissance in atto. Nell’attesa che come avveniva negli ultimi tempi a Milano, subentri la complicità dell’affidamento, il cuoco in sala, il cliente spesso e volentieri in cucina, entrambi tesi a soluzioni estemporanee oltre la rigida coreografia del menu.

Il piatto del ricominciamento a dire il vero c’è già: sa di primavera e di freschezza, dei primi colori verdi che osano bucare il disgelo. Un’insalata, omaggio alla familiarità piemontese con gli ortaggi crudi, a base di asparagi verdi, bianchi e cetrioli in lamelle sottilissime, da servire in entrata o alla fine del pasto. Con un omaggio discreto a Carlo Cracco, che ha fatto conoscere a Baronetto i piccoli produttori dell’ortaggio cult di Bassano.

Crudismo sì, ma anche macerazione. Perché il cetriolo sul fondo è condito 20 minuti prima dell’impiattamento con olio e colatura di alici per la sapidità, in modo che rilasci i suoi umori e le sue fibre. Completo della buccia, intreccia le sue note a quelle dell’asparago verde, secondo un taglio alla Michel Bras che risolve l’equazione fra la ricetta e il singolo vegetale. Perché si tratta di mixare percentuali di amaro e clorofilla differenti: da una parte il turione verde, aggraziato e femminile, tendente verso la liquirizia; dall’altro il bianco, ruvido e maschile, fibroso, lattiginoso e tannico. Tanto che una leggera spennellata di cioccolato bianco fuso ne mitiga il carattere, legandosi in un ricordo di pasticceria alla spolverata di pane saltato a mo’ di crumble in superficie. Quasi la scarpetta pastosa di un resto d’insalata.

Un benvenuto aurorale che spiazza: semplicità allo stato puro, esaurite le galoppate concettuali e i gongorismi del recente passato. Perché “l’avanguardia è stato un momento magico, che sono stato felice di avere vissuto. Eppure oggi è un bene che sia finito, perlomeno nelle forme in cui lo abbiamo conosciuto”.