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Piazza Duomo

Un microcosmo magico in continua evoluzione

Piazza Duomo ad Alba è ormai da tempo nell’olimpo della ristorazione italica e lo Chef Enrico Crippa, oltre a rappresentarne l’anima, è il deus ex machina che ad ogni servizio spinge tutti a dare il meglio col carisma e la leadership di chi non ha bisogno di alzare la voce ma a cui basta dare l’esempio e conservare l’umiltà. È lui infatti dai tempi dell’apertura ad essere tra i primi al mattino che arrivano in cucina dopo essere passato a selezionare le verdure e le erbe nel suo orto, così come non è raro vederlo reggere il vassoio delle portate che qualcun altro servirà al vostro tavolo. Dettagli, questi, che si colgono ancor di più quando si è seduti allo chef’s table, immersi tra i ragazzi di cucina che si muovono con un ordine e un silenzio quasi assordante.

Nella cucina di Piazza Duomo sono nati, e siamo certi continueranno a nascere, alcuni dei piatti entrati nella storia della cucina italiana e spesso fonte di ispirazione per molti giovani Chef, basti pensare all’Insalata 21, 31, 41 che oggi si è evoluta e conta più 100 erbe al suo interno. Parliamo di una cucina legata al territorio, ricca di vegetali, che il più delle volte è proposta in maniera elegante ricercando anche nell’impiattamento dei richiami al mondo dell’arte.

Eleganza estetica e palatale

La nostra ultima visita è stata un mix di piatti storici, sempre graditi, e nuove creazioni, in un percorso che ci ha regalato molte emozioni. Si inizia con un divertente appetizer e l’evocativo Gingerino e foie gras, che in tanti provano a replicare ma che qui resta nella sua versione migliore. La prima vera portata è in realtà una miriade di assaggi tutti a base vegetale che invadono letteralmente il tavolo e stimolano il palato con un caleidoscopio di sapori dolci e acidi.

Tra le portate successive, eccezionale l’Omaggio ad Anselm Kiefer (pittore tedesco a cui si ispira anche l’estetica del piatto) a base di seppia e cardo, dove il mollusco è crudo e ridotto a una sfoglia coperta da una salsa al cardo, servito anche di fianco in una versione assoluta. Un piatto giocato sulle note dolci, incredibilmente piacevole e persistente al palato. Spiazzante sia per sapore che per consistenze il Riccio di mare, ingrediente particolarmente amato dallo Chef, con peperoni e mandorle. Qualche passaggio come il Rombo e la zucca, sebbene mirabilmente eseguito, mancava di quella spinta in più che ci si aspetterebbe in una sequenza di piatti ad alti livelli. Molto buono il reparto pasticceria, che oltre a servire e presentare le portate al tavolo in cucina, è capace di creare ottimi dessert, golosi oltre che scenici.

Complementare alla cucina è poi la sala, da qualche mese nelle mani del bravissimo Davide Franco il quale, a dispetto della giovane età, vanta una lunga esperienza ai vertici della ristorazione internazionale oltre a una naturale propensione nel far sentire a proprio agio tutti i tipi di clientela, senza mai essere troppo invadente. Enciclopedica la carta dei vini nelle mani del talentuoso Jacopo Dosio, dove oltre al Piemonte c’è tanto spazio per la Francia e qualche chicca per gli appassionati.  

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L’essenza del minimalismo Zen

Enrico Crippa compie 50 anni quest’anno e, a dispetto del trambusto di questo momento storico, la sua maturità come cuoco ci appare definitivamente compiuta. Rimane, però, l’eterno spirito giovane, quasi da folletto, che col trascorrere del tempo s’è fatto ancor più radioso, sorridente ed energico, tanto che si potrebbe dire che la maturità ha portato in lui nuova linfa e, la sua cucina al Piazza Duomo, tende ora all’essenza in maniera ancor più vigorosa.

Proviamo a chiarire ciò che affermiamo nel sottotitolo e che potrebbe, in prima battuta, apparire contraddittorio.

Nella cucina di Crippa il minimalismo si concentra fondamentalmente sulla rimozione del superfluo per fare spazio all’essenziale. È questo ciò che determina, a ben vedere, l’essenza delle cose, questo ciò che consente, peraltro, di goderne. Senza più distrazioni. E proprio questo ci pare essere oggi il percorso intrapreso, oggi ancora più manifestamente che in passato, nel ristorante che gestisce, dal 2003, col placet della famiglia Ceretto.

Enrico Crippa: brianzolo di nascita, albese per scelta

Questa ricerca dell’essenza ha comportato, come detto, l’eliminazione di tanti fronzoli e orpelli. Così il benvenuto dell’antipasto all’italiana si è semplificato, ridotto in numero, ma centrato su alcuni punti che sono veri e propri affondi nel gusto e nell’intensità della materia prima.

Merluzzo e mais e la matelote di rana pescatrice sono l’emblema di questo nuovo corso. Concentrato, persistente e sapido il primo, vegetale, iodato, marino il secondo. In entrambi i protagonisti apparenti, le componenti lipidiche, sembrano sfuggire, mascherarsi, quasi soccombere di fronte, soprattutto, all’imperioso brodo di rana pescatrice e nella bieta in accompagnamento, ma che sono solo apparentemente comprimarie. Un gioco, quasi uno scherno, irriverente. Ben più evidente nella paradisiaca aletta di pollo e salsa Albufera, di cottura strepitosa e di nappatura altrettanto stupenda. Una salsa veramente grandissima però che anche qui soccombe con l’accompagnamento laterale, che rappresenta precisamente il pensiero – laterale – di un cuoco che quasi nasconde il suo io più profondo, gioca col commensale e frastornandolo con una componente vegetale potentissima e antologica.

I risi, invece, rappresentano un susseguirsi tanto rischioso quanto prorompente. Due risi completamente differenti. L’uno che è una tavolozza neutra su cui dipingere e costruire un piatto di profondità inaudita, avanguardista, ludica, persistente. L’altro, al colombaccio, solo apparentemente più classico ma anche qui con il guizzo di classe che solo un talento come il suo può pensare e, soprattutto, realizzare.

La puccia langarola fa commuovere un commensale seduto al nostro tavolo, langarolo appunto, che immediatamente sobbalza sulla sedia: ha trovato la sua madeleine proustiana! E il germano? Semplicemente, classicamente, essenzialmente, eccezionale.

Un tripudio, una gioia, una festa, un grande applauso al nostro monaco Zen. E un grande applauso a tutta la sala di Piazza Duomo, capitanata da Vincenzo Donatiello, che ci ha fatto divertire e ci ha assecondato nel nostro ossequioso pranzo alla corte del monaco langarolo.

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Un gusto glocal

Un’incessante ricerca di densità, sapori e consistenze tali da contrastare l’acidità. Queste le alchimie più rappresentative del suo interprete, Federico Gallo, classe 1987, di “casa”, ormai, alla Locanda del Pilone a Madonna di Como, resort della famiglia Boroli a qualche chilometro da Alba, anche nota come la città delle cento torri. Dopo il diploma (2006) le esperienze, prima in Italia, in Toscana e poi dal Messico agli Stati Uniti e fino al nord Europa, gli hanno aperto la mente insegnandogli la strada per combinare il locale al globale.

Tra le prime nebbie autunnali sorprendente è lo scenario, ancora più vivido grazie alla raccolta delle erbe, dei fiori e dei frutti da lavorare e proporre nei diversi menu: “Classici”, “Piemonte”, “Acqua dolce” e “Tartufo”. Ingredienti volutamente solo territoriali, a differenza delle tecniche di cotture e delle preparazioni, che tra reinterpretazioni e rivisitazioni sfociano in piatti al confine tra il classico e il moderno. Tra gli amuse-bouche il cannolo di insalata russa è certamente il più persuasivo per il contrasto tra l’acidità della salsa e il saporoso e sottile wrap in cui è avvolta. Buoni anche i mini assaggi di plin e di fassona.

Spesso si raggiungono picchi d’estasi mediante l’esercizio di discipline cinesi che puntano all’armonia: gli ingredienti sono messi in scena in ambienti chiusi, come nel caso della giardiniera, raccolta in una conchiglia di zucchero, una pasta che sottolinea il dolce delle verdure croccanti poi insaporite, ancora, da caviale e acqua al pomodoro. Acqua che, da sola, è una sorta di ordinamento tra le componenti liquide che accompagnano più di qualche preparazione. D’altra parte proprio questa è la trasfigurazione della passione per gli aceti che caratterizza lo chef.

Design liquido

Il concetto di gusto di Federico Gallo non si piega alle mode strumentali. Piuttosto assomiglia a un vivere in solitaria, molto personale e silenzioso, come il geco tatuato. Frequenti le sue folgorazione per alcune materie prime, lavorate dapprima solo nella testa sino al momento in cui non riesce a trasformarle. Emerge così una certa testardaggine, il ripensare ai propri piatti, a volte pungenti altre oltre il punto di equilibrio come il baccalà, a causa di una più che coprente salsa alla nocciola, funghi e tartufo.

Il punto comune è, comunque, la ricerca dell’intensità, una forma di condensazione di essa che sia più precisa possibile, la quale si ritrova nelle sorprendenti – per delicatezza e avvolgenza – linguine con vongole e camomilla e nel capretto al fieno rappresentato in due cotture: quello cotto è goloso e carnoso mentre la parte cruda immersa nel brodo (sublime) trionfa per persistenza e definizione. La punta amara (nel brodo), comanda, si lega e raccoglie tutti gli altri elementi infondendo un aroma invadente ma piacevole, come l’umido dopo la pioggia nel bosco, evocato tramite il Vermouth e la combinazione degli aromi dell’alloro, del timo, della maggiorana e del fieno maggengo.

Nel reparto dolci, dopo qualche turn over si è arrivati a creare un laboratorio sperimentale in cui non mancano incursioni mixology: freschissima, come un gin tonic, la meringa con lemongrass.

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Ceretto-Crippa: un perfetto sodalizio enogastronomico in continua ascesa 

La storia di Enrico Crippa e del Piazza Duomo è una storia di legami, fedeltà e fiducia. È il racconto di un cammino per un obiettivo comune.

Ceretto-Crippa. Un binomio invidiabile, tra i sodalizi enogastronomici più proficui della storia della ristorazione italiana, ancora oggi ai vertici nazionali e non solo.

La famiglia di imprenditori vitivinicoli, tra le più famose d’Italia, ha da sempre giocato un ruolo chiave dietro questo successo, mettendo a disposizione per la causa risorse importanti che hanno reso con gli anni Piazza Duomo un gioiello, osannato da critica e pubblico, consacrato con i massimi riconoscimenti gastronomici da guide e classifiche di tutto il mondo. In tal contesto, è probabile che la formula magica sia stata quella di lasciare intelligentemente carta bianca al genio di Enrico Crippa al quale, però, bisogna riconoscere il merito di aver pensato – bene, diremmo – a tutto il resto.

Il meraviglioso mondo vegetale di Enrico Crippa

Nelle Langhe, dove tutti i cuochi riuscirebbero a farsi stregare dal terroir circostante, Enrico Crippa, indiscutibile maestro ed esempio di professionalità da seguire per molti giovani cuochi, ha saputo ritagliarsi un personalissimo spazio nel quale è riuscito a rispettare territorio e stagioni con un suo stile personalissimo, molto vicino al rigore estetico e composto della cultura giapponese, con occhio sensibile alla tradizione ma ancor di più a un’idea di cucina sostenibile.

I piatti di Crippa sono sempre stati al passo coi tempi e celano dietro il velo dell’innovazione l’idea della natura e degli ingredienti che seguono il tassativo corso delle stagionalità, inseguendo tradizioni, rispettando il territorio e assecondando persone, perché anche quella con i fornitori, allevatori e coltivatori, al Piazza Duomo, è una storia di legami, fedeltà e fiducia. Crippa è, ancora oggi, dopo un decennio ad altezze vertiginose, tra i più importanti esponenti della Nuova Cucina Italiana – sempre più smagliante, anche in questi tempi difficili – nonché uno dei più validi interpreti della tradizione langarola dove, pur non essendo piemontese, riesce a distinguersi per capacità, rigore, fantasia e incisività.

I suoi piatti sono pennellate ricche di dettagli che plasmano uno percorso preciso, sussurrato e cristallino che riserva già dal suo prologo un indimenticabile “inizio”, folgorante e stordente allo stesso tempo: una piacevolissima ed inaspettata invasione di micro preparazioni che schiaffeggiano gentilmente il palato e risaltano il mondo vegetale del quale lo stesso Crippa è sceneggiatore e regista grazie all’orto (realmente biodinamico) imbastito a pochi chilometri da Alba, nella Tenuta Monsordo Bernardina dei Ceretto.

Ci si siede a questa tavola restando in trepidante attesa di quel capolavoro di purezza che è l’insalata 21, 31, 41 e 51… nella quale si ritrova, in una composizione volutamente caotica, una miriade di verdure, fresche e croccanti e che potrebbe mutare a distanza di 24 ore. Un abbiccì vegetale che va dall’acetosella allo zenzero in una serie di foglie, steli, germogli e fiori. Il tutto con un condimento verticale che dall’apice alla base parte in modo tenue e sfocia nel corroborate finale del katsobushi agli agrumi.

Per banalizzare, possiamo ribattezzarlo un kaiseki all’italiana, tanto autentico, quanto originale. Come lo splendido merluzzo (questa volta con zucchine e il magnifico beurre blanc in accompagnamento), un degli ingredienti feticcio dello chef che rappresenta uno dei legami tra Piemonte e Liguria a dimostrazione che l’incondizionato amore per il cibo travalica i confini regionali. E quando si parla di ingredienti prediletti, versante terra, ci viene in mente l’agnello, dalla presentazione che ripercorre idealmente l’ovino al pascolo, con il carré rosa adagiato sul latte di capra, gocce di emulsione di fiori di camomilla, bietola e altre foglie di stagione.

Pochi atti, ricchi di episodi che creano un piccolo viaggio intorno all’ingrediente principale, che sia il riccio di mare, la barbabietola o il miele, tutto viene presentato con il medesimo livello di perfezione estetica e tecnica.

Sala e cantina, sebbene sia difficile star dietro a una cucina così colta, sono, rispettivamente, dinamica, giovane ma di grande esperienza la prima, mastodontica la seconda. Forse l’unico tre stelle in Europa a potersi permettere una lista di vini alla mescita di un certo, inarrivabile, calibro. Chiaramente ad un caro, carissimo prezzo.

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L’innata bellezza della tradizione langarola

Non è mai facile trovare una chiave di lettura critica dei propri posti del cuore perché l’affettività, è noto, è nemica della critica. Da anni, tuttavia, l’equazione qualità/longevità non rappresenta più l’unico nostro metro di giudizio, tanto più che sempre più giovani e giovanissime realtà si stanno affacciando nel panorama della ristorazione contemporanea, affermando il valore dell’autenticità della trattoria tradizionale italiana.

Tra le nostre scorribande, appena ci è stato possibile, siamo tornati tra i sinuosi bricchi che circondano la città di Alba, nella “piola” di Enrico Crippa. Insegna semplice ma non semplicistica che, come nella nostra precedente visita, cristallizza una sicura e goduriosa tipicità nelle ricette e nelle materie prime di questo paradiso paesaggistico e gastronomico.

L’antipasto langarolo, nella sua golosa molteplicità di elementi, spazia tra i grandi classici come l’insalata russa o il vitello tonnato, in cui la acme – tecnica – si riconosce nelle cotture di carni e verdure. Menzione d’onore anche per la battuta di carne cruda, per il puntuale rapporto tra grasso e muscolo. E se del plin, della cui callosità già raccontammo con ampi elogi, l’occasione di replicarli (ovvio) ma anche di assaggiare del nuovo, ci ha portato sui ravioli di peperone, olive e acciuga con salsa al Seirass del Fen. Qui, la nota casearia di quest’ultimo si avviluppa tra l’abbraccio del peperone nella sua dolcezza e il nervo sapido dell’acciuga, richiamando atavicamente il peperone ripieno alla piemontese.

Il classico che non stanca è tarato sul devoto rispetto dell’ingrediente, la cui ricchezza gustativa sorprende nel coniglio glassato all’Arneis con fagiolini e purea di zucca.

Il finale? Su due strade: avventurandosi tra i formaggi abilmente affinati da Franco Parola della vicina Saluzzo, oppure chiudendo in dolcezza gustando, affacciati su quella Piazza del Duomo di Alba, il gelato al fior di latte con ciliegie e l’immancabile biscotto di meliga. Nel dubbio li scegliamo entrambi, chiudendo ancora una volta appagati la nostra visita alla Piola.

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