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Piazza Duomo

L’essenza del minimalismo Zen

Enrico Crippa compie 50 anni quest’anno e, a dispetto del trambusto di questo momento storico, la sua maturità come cuoco ci appare definitivamente compiuta. Rimane, però, l’eterno spirito giovane, quasi da folletto, che col trascorrere del tempo s’è fatto ancor più radioso, sorridente ed energico, tanto che si potrebbe dire che la maturità ha portato in lui nuova linfa e, la sua cucina al Piazza Duomo, tende ora all’essenza in maniera ancor più vigorosa.

Proviamo a chiarire ciò che affermiamo nel sottotitolo e che potrebbe, in prima battuta, apparire contraddittorio.

Nella cucina di Crippa il minimalismo si concentra fondamentalmente sulla rimozione del superfluo per fare spazio all’essenziale. È questo ciò che determina, a ben vedere, l’essenza delle cose, questo ciò che consente, peraltro, di goderne. Senza più distrazioni. E proprio questo ci pare essere oggi il percorso intrapreso, oggi ancora più manifestamente che in passato, nel ristorante che gestisce, dal 2003, col placet della famiglia Ceretto.

Enrico Crippa: brianzolo di nascita, albese per scelta

Questa ricerca dell’essenza ha comportato, come detto, l’eliminazione di tanti fronzoli e orpelli. Così il benvenuto dell’antipasto all’italiana si è semplificato, ridotto in numero, ma centrato su alcuni punti che sono veri e propri affondi nel gusto e nell’intensità della materia prima.

Merluzzo e mais e la matelote di rana pescatrice sono l’emblema di questo nuovo corso. Concentrato, persistente e sapido il primo, vegetale, iodato, marino il secondo. In entrambi i protagonisti apparenti, le componenti lipidiche, sembrano sfuggire, mascherarsi, quasi soccombere di fronte, soprattutto, all’imperioso brodo di rana pescatrice e nella bieta in accompagnamento, ma che sono solo apparentemente comprimarie. Un gioco, quasi uno scherno, irriverente. Ben più evidente nella paradisiaca aletta di pollo e salsa Albufera, di cottura strepitosa e di nappatura altrettanto stupenda. Una salsa veramente grandissima però che anche qui soccombe con l’accompagnamento laterale, che rappresenta precisamente il pensiero – laterale – di un cuoco che quasi nasconde il suo io più profondo, gioca col commensale e frastornandolo con una componente vegetale potentissima e antologica.

I risi, invece, rappresentano un susseguirsi tanto rischioso quanto prorompente. Due risi completamente differenti. L’uno che è una tavolozza neutra su cui dipingere e costruire un piatto di profondità inaudita, avanguardista, ludica, persistente. L’altro, al colombaccio, solo apparentemente più classico ma anche qui con il guizzo di classe che solo un talento come il suo può pensare e, soprattutto, realizzare.

La puccia langarola fa commuovere un commensale seduto al nostro tavolo, langarolo appunto, che immediatamente sobbalza sulla sedia: ha trovato la sua madeleine proustiana! E il germano? Semplicemente, classicamente, essenzialmente, eccezionale.

Un tripudio, una gioia, una festa, un grande applauso al nostro monaco Zen. E un grande applauso a tutta la sala di Piazza Duomo, capitanata da Vincenzo Donatiello, che ci ha fatto divertire e ci ha assecondato nel nostro ossequioso pranzo alla corte del monaco langarolo.

La Galleria Fotografica:

I fratelli Roca e il racconto di un ristorante perfetto

Girona, già gioiello medievale della Catalogna, è diventata negli ultimi anni una destinazione irrinunciabile per cinefili e gourmet. Approdo imprescindibile per milioni di fans alla ricerca dei luoghi di Games of Thrones, è nelle mappe di migliaia di viaggiatori del gusto che oggi vi arrivano, dopo 365 giorni di attesa, dall’atto della prenotazione, per sedersi alla tavola di quella Mecca enogastronomica che risponde al nome de El Celler De Can Roca.
Un – anzi, per molti “il” – ristorante perfetto.

Perfetto, non solo per la vena creativa ancora viva – e, nel caso di Jordi Roca, vulcanica e inarrestabile – ma per quella sala di raro fascino, che ruota attorno a un giardino con alberi cangianti come il susseguirsi delle stagioni, e per una sterminata cantina, incredibilmente accessibile, ma soprattutto per la perseveranza di tre fratelli geniali, capaci di saper tenere altissima l’asticella dell’eccellenza per più di un decennio. El Celler, ancora oggi, è un ristorante perfetto, prodigo, completo, unico, si potrebbe dire.

Prenotare è davvero difficoltoso, s’è detto, ma una volta arrivati davanti questa leggendaria insegna si viene pervasi da una sorta di sensazione di euforia mista a emozione. Varcata la porta e percorsa la passerella di legno, si entra in una casa dall’accoglienza calorosa con le aspettative già altissime che continuano ad impennarsi una volta fatto il giro della labirintica, ma neanche particolarmente grande, cucina.

Poi, finalmente, ci si siede e si comincia con uno scoppiettante incipit ludico e interattivo, con una batteria di finger food che racchiudono i sapori del mondo e una serie di assaggi che rievocano la storia dei tre fratelli.

Si entra, quindi, nel vivo. Ma a questo punto le emozioni iniziano a cedere il passo alla concentrazione, alle prese con un unicum di tecnica, estetica, gusto e una grande e innegabile piacevolezza complessiva. Tutto perfetto, pure troppo. Ci chiediamo, addentrandoci nel tecnico, poi, se questa può essere considerata, allo stato, avanguardia gastronomica. Probabilmente no o, quantomeno, non del tutto.

L’avanguardia di Jordi, la costanza di Joan e l’immensa accoglienza di Josep: tre anime di un luogo magico

La parte salata dalla cena, ad opera di Joan Roca, tende infatti a virare sulla voluttuosità e sul rassicurante approccio goloso e classico (del resto la Francia è a due passi), per una cucina che, pur nella sua grandezza, viaggia ormai con il pilota automatico, carenate di quell’energia che, a nostro avviso, è possibile reperire in altre tavole spagnole, europee e mondiali, dalle quali siamo usciti con ricordi di molti piatti memorabili che, dopo anni di distanza, sono ancora vivi nella memoria.

Ciononostante, la parte finale, che, a nostro avviso, meriterebbe un palcoscenico più ampio, è pura innovazione: vi si susseguono infatti le più geniali espressioni della pasticceria moderna, a dare loro forma un fenomeno dalla storia affascinate qual è Jordi Roca, il più piccolo dei fratelli, che si diverte a ricreare il sapore di ricordi, situazioni, e angoli più remoti del Pianeta Terra.

E lo fa utilizzando pochi ingredienti dei quali scandaglia l’anima estraendone diverse forme e sfaccettature. Come il petrichor (tecnicamente, l’odore della terra dopo che la pioggia bagna il terreno asciutto) ossia un distillato di terra, gelato al pino, biscotto di carruba, polvere di abete e biscotto di cacao, ad esempio, è probabilmente il dessert più innovativo assaggiato negli ultimi 20 anni. È il ricordo dei fratelli Roca che giocavano nei boschi e questo piatto ne è la rappresentazione gustativa. Incredibile.

È soprattutto grazie all’approccio di Jordi Roca che, a nostro avviso, la cucina de El Celler è ancora uno dei punti di riferimento gastronomici nel panorama mondiale.

Il resto è uno spettacolo di accademia, gentilezza e generosità racchiusi in un emblematico servizio al tavolo, a mostrare l’assoluto valore, che non è aggiunto ma imprescindibile, del personale di sala che si diletta a diliscare e porzionare al momento, davanti ai commensali, uno scorfano, ricavando prefetti filetti e bocconi di guancia.

Se poi aggiungiamo, al bilancio finale dell’esperienza, uno dei rapporto qualità/prezzo migliori di sempre e il magico mondo di Josep Roca, depositario di quella che è una delle più incredibili cantine divise per temperatura e stanze, un abbecedario racchiuso in tre tomi mastodontici nei quali anche una grandissima bottiglia ha un prezzo di mercato, allora, in termini di paragone con altri ristoranti, nel complesso, potrebbe non esserci più partita.

La Galleria Fotografica:

Il nostro tour messicano non poteva che iniziare dalla capitale.
Qui la percentuale di persone sovrappeso è incredibilmente alta, ma non si fa fatica a comprenderne le motivazioni. Mangiano sempre, mangiano ovunque; lo street food, sia per la sua economicità che per la velocità, è diffusissimo. Si frigge un po’ di tutto, il chicharron (lardo di maiale fritto) è più comune delle patatine di Mc Donald’s negli States, lo junk food imperversa, non solo tra i più giovani.
Ma il Messico è anche altro, fortunatamente. Il mole (una salsa a base di cacao, peperoncino e spezie) è uno degli orgogli nazionali, lo si trova in numerose varianti, ma quello di Puebla lascia davvero il segno.
I mille peperoncini, la cucina piccante del Sud, quella di mare “Veracruz”, gli insetti dell’Oaxaca, le “chapulinas”, ovvero le cavallette fritte (buone, una volta superato lo scoglio psicologico) che potete trovare nei brulicanti mercati della regione, la guacamole e le tortillas di mais, sono solo alcune sfumature del mondo gastronomico messicano, elenco gioco forza ristretto, sintesi di una varietà culinaria regionale davvero impressionante, influenzata dalle colonizzazioni e dai popoli indigeni (Aztechi, Olmechi, Zapotechi, Maya…) che nel corso dei secoli si sono stanziati in questi territori.
Soffermandosi ad analizzare questo straordinario caleidoscopio gastronomico, comune anche ad altri Paesi del Sud America, sarà facile accorgersi di essere al cospetto di potenzialità inespresse, e ciò sia per la mancanza di capacità di comprensione che gli stranieri hanno nei confronti di queste cucine sia, a volte, per la scarsa volontà da parte dei sudamericani stessi di far conoscere la propria storia gastronomica, incastonata nella roccia inscalfibile della tradizione.

Era necessario l’avvento di spinte trainanti, di personalità importanti, per smuovere le acque e far venire a galla quest’isola felice. E così è stato, con l’affermazione di celebrity chef come Alex Atala con il D.O.M., Virgilio Martinez con il Central e non da ultimo Enrique Olvera, tra i massimi esponenti della nuova cucina messicana.

La prima impressione, appena entrati nella sala unica, lascia interdetti. I tratti dark vengono acuiti dal volume non accomodante della musica e dal mormorìo, che con il passare del tempo si tramuta in un vociare incessante. In quest’atmosfera tutt’altro che rarefatta il servizio sembra contestualizzato, mimetizzato in tutta la sua cordiale disinvoltura.
I menù degustazione (la carta non esiste), con opzioni tra cui scegliere per ogni portata, sono espressione di alcune tra le ricette più diffuse in Messico, leggermente rielaborate. Nulla di convenzionale dunque, nemmeno nella proposta, che, almeno nelle intenzioni, lascia trasparire la forte personalità dello chef, che non scende a compromessi con una cucina “internazionale”, ecumenica.

Approccio degno di nota, ma che lascia trasparire qualche tratto di indecisione al momento dell’applicazione pratica. I passaggi proposti infatti spaziano dall’utilizzo di ingredienti esotici ad altri più mainstream, a tratti veramente troppo vicini al cibo popolare reperibile in ristoranti meno blasonati.
Le tortillas di mais con agnello e maialino, ad esempio, sono buone, ma decisamente troppo poco complesse per una ristorazione di questo livello. Il pescato del giorno è scottato in padella e servito su semplici patate schiacciate e maionese. La tartare di manzo è mescolata con avocado e ravanello.
Interessante è, invece, l’idea di servire due mole con differenti “stagionature”, sebbene quello invecchiato oltre 1000 giorni abbia un gusto troppo invasivo.
Siate preparati ad assaggiare alcune delle prelibatezze messicane: formiche, le loro larve, il fungo del mais, le cavallette. Olvera, come altri celebri chef sudamericani, ha sdoganato gli insetti, parte integrante della dieta delle popolazioni indigene, così da creare un punto di contatto tra la tradizione e la sua evoluzione.

Ad avvalorare la nostra tesi è stata la visita ad un altro locale di Olvera, il Cosme , aperto da poco negli Stati Uniti.

In tale caso la tipologia della offerta, plasmata sui gusti cosmopoliti della Grande Mela, è certamente più agevolmente comprensibile ai palati occidentali, e probabilmente lo stesso chef ha tratto giovamento dal fatto di confrontarsi con una piazza più aperta in termini di accettazione delle novità, miscelate e filtrate dalle commistioni di culture che la rendono unica.

Detto questo, l’entusiasmo dimostrato dalla critica internazionale nei confronti del Pujol e i riconoscimenti di carattere internazionale, potrebbero essere giustificati dalla ventata di novità che il suo cuoco (e non solo lui) ha portato nella capitale messicana, ma riteniamo che l’attuale livello della cucina non sia paragonabile a quella delle grandi tavole mondiali.

L’evoluzione richiede tempo e perizia. La nuova gastronomia sudamericana sta arrivando e noi siamo qui ad attenderla.

Bocol Huasteco: tortilla di farina di mais e lardo con formaggio.
Boccon huasteco, Pujol, Città del Messico, Chef Enrique Olvera
Pannocchia baby affumicata con polvere di formiche “chicatanas”, caffè e maionese di peperoncino “costeno”. Molto interessante.
pannocchia, Pujol, Città del Messico, Chef Enrique Olvera
Chia tostada. Croccante tortilla con semi di chia e guacamole.
chia tostada, Pujol, Città del Messico, Chef Enrique Olvera
Chileatole (zuppa a base di mais) agli asparagi, con chicharron di peperoncino “mulato”.
chileatole, Pujol, Città del Messico, Chef Enrique Olvera
Chicharron (frittura) di pollo con larve di formica (escamole).
chicarron, Pujol, Città del Messico, Chef Enrique Olvera
Tartare di manzo con ravanello, avocado, conserva di limoni, crescione e tortilla.
tartare, Pujol, Città del Messico, Chef Enrique Olvera
Cuitlacoche, molleja (ventriglio), fegato di pollo. Il Cuitlacoche è un fungo di colore scuro che infetta le piantagioni di mais.
Cuitlacoche, Pujol, Città del Messico, Chef Enrique Olvera
Taco di maialino da latte, tortilla affumicata, purea di ceci, coriandolo, jalapeño rosso.
Taco, Pujol, Città del Messico, Chef Enrique Olvera
Taco di agnellino da latte, fiori di zucca, purea di avocado.
Taco, Pujol, Città del Messico, Chef Enrique Olvera
Pesce del giorno con burro nocciola, patate, maionese al limone, sedano.
pesce, Pujol, Città del Messico, Chef Enrique Olvera
Pollo, peperoncino marinato, nopal (cactus messicano), romeritos (simile al rosmarino, ma solo nell’aspetto), black radish, fagioli, polvere di cipolla.
pollo, Pujol, Città del Messico, Chef Enrique Olvera
Mole madre, mole nuevo 1025 giorni. Il piatto simbolo del Pujol, espressione della più famosa salsa messicana. Il mole “giovane”, dal colore più chiaro, vene servito con un mole invecchiato quasi tre anni, dal gusto molto intenso.
mole,Pujol, Città del Messico, Chef Enrique Olvera
Nigiri dolce con litchi.
nigiri, Pujol, Città del Messico, Chef Enrique Olvera
Churros.
churros, Pujol, Città del Messico, Chef Enrique Olvera
Mango.
mango, Pujol, Città del Messico, Chef Enrique Olvera
Gelato al latte di capra su tortilla fritta dolce.
gelato, Pujol, Città del Messico, Chef Enrique Olvera
Gelato di avocado salato con cacao, sesamo e mandorla.
gelato di avocado, Pujol, Città del Messico, Chef Enrique Olvera

L’alta cucina peruviana può essere classificata in due macro categorie: la cucina cosiddetta “fusion”, intesa come quella in cui importanti influenze di altre culture gastronomiche si combinano ai sapori ed agli ingredienti locali (è il caso della cucina di Gaston Acurio, che rievoca piatti importati dagli immigrati cinesi, giapponesi, spagnoli e finanche italiani, o di Maido, che si focalizza esclusivamente sullo stile nikkei), e la cucina per così dire di territorio, intesa squisitamente quale scoperta o riscoperta di ingredienti peruviani e, più nello specifico, andini e amazzonici presentati (e già questa è la grande novità) in una chiave totalmente inedita. In questa seconda categoria si colloca il Central, per la terza volta consecutiva nominato miglior ristorante dell’America Latina dalla tanto influente quanto discussa classifica della 50 Best.

E siamo d’accordo: questa è la più interessante e innovativa tavola che abbiamo trovato a queste latitudini, e siamo certi che sia una delle più peculiari del mondo.
Il fautore di questa che, prima di tutto, è una filosofia, è Virgilio Martinez, uno degli chef più influenti del momento, tanto talentuoso quanto scaltro a sfruttare al meglio l’eco mediatica che in questi ultimi anni innalza trionfalmente la “nuova” cucina sudamericana verso l’empireo della gastronomia mondiale.
Al Central si trovano due percorsi principali, ordinabili anche in versione ridotta (in termini di numero di portate).
L’esperienza culinaria più completa può piacere o meno, ma è senza alcun dubbio, prima di qualsiasi altro aggettivo, educativa. Si chiama “Alturas Mater” e per comprenderne a pieno il significato crediamo che sia necessario tenere in debita considerazione alcuni dati.
Sulla terra esistono 32 tipi di clima. 28 sono presenti nel Perù. Così come 84 ecosistemi su 117 totali.
Venti e più assaggi tessono la trama di un’esperienza narrativa, visiva, gustativa e perforante, incentrata sul dualismo tra biodiversità climatiche e ingredienti reperiti tra i diversi ecosistemi, e le diverse altitudini del Perù. Apparentemente non c’è un ordine. Proprio perché l’essere vivente nell’esplorare una terra come questa è soggetto a repentini sbalzi di clima e temperature.
Il filo conduttore, in verità, è appunto l’altitudine, elemento generatore di una scala di prodotti che parte dal mare fino alle vette più alte delle Ande, dove si assiste alla miracolosa crescita di tuberi di cui si ignorava l’esistenza, senza tralasciare le insenature amazzoniche e la misteriosa bellezza di quella flora e di quella fauna.
Praticamente un viaggio in Perù attraverso i suoi sapori più autentici e sconosciuti.

Un impressionante lavoro che parte dall’abnegazione per la ricerca del nuovo da riscoprire e valorizzare.
Tutto ciò è stato reso possibile grazie all’ambizione di Virgilio Martinez e alla sua “Mater Iniciativa”, una squadra di ricercatori e avventurieri itineranti che gira in lungo e in largo per il Perù cercando di comporre i pezzi di una gastronomia ancora tutta da scoprire. Un lavoro di ricerca biologica e culturale atta ad infondere il nobile concetto secondo cui prima ancora della tradizione di un qualsiasi piatto tipico è importante conoscere la tradizione di un ingrediente.
Qui non un ingrediente, né un sapore -eccetto le immancabili uova, farina e acqua- ritorna familiare in mente, e provate a chiedere ad un peruviano che ha avuto la possibilità di sedere a questa tavola se sia più informato di voi. Difficile, perché davanti a sé troverà un immenso patrimonio, da sempre sotto i propri occhi ma che nessuno è stato in grado di valorizzare e far conoscere quanto ha fatto Martinez. Basta questo per meritare tutta la stima del “pianeta cibo”.

Tra sapori e cibi inediti al comune palato (si va dalle foglie di coca ai pesci amazzonici, finanche ai batteri andini), l’unico limite della sua cucina, al momento, è la carenza, per gran parte della cena, delle alte temperature di servizio. A memoria, ricordiamo in tutto quattro portate “calde”. Al Noma, giusto per trovare una cucina con una simile affinità, ne ricordavamo qualcuna in più. Un limite che, probabilmente, Martinez e la sua brigata colmeranno con il passare del tempo.
Ad ogni modo, Central è oggi un luogo importante che può fungere da propulsore, nel suo piccolo, per un’intera economia. Prevaricando l’avanguardia culinaria e le tecniche più innovative di cucina -qui ci si imbatte in sopraffine preparazioni, curatissime presentazioni, marketing arguto, consistenze interessanti, ma tutto trae origine dall’ingrediente ritrovato, vero protagonista di questa innovazione- l’esperienza di oggi del Central è fondamentale e, senza alcun dubbio, unica.

L’essenziale segnaposto.
segnaposto, Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
“Arañas de roca”. Sargasso (un tipo di alga), patella vulgate e granchio. Si parte da 5 metri sotto il livello del mare. Ed in effetti le tonalità al contempo dolci e salmastre sono molto concentrate e persistenti.
sargasso, Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
“Plantas del desierto”. Huarango (una specie di albero di carrubo), lucuma e radici. Due assaggi con ingredienti raccolti a 160 metri dal livello del mare.

plantas del desierto, Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
lucuma, Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
L’assaggio successivo è fatto con ingredienti provenienti da 3500 metri di altezza.
maswa, Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
“Lago de cordillera”: maswa (una patata delle Ande), anatra e zucca. I toni sono ancora dolciastri ma decisamente più montani.
massa, Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
“Diversidad de maiz”: mais, miele e tumbo (un frutto esotico simile al maracuja).
mais, miele, Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
Accompagnata da un intenso e profumato leche de tigre al mais. Una portata mangia e bevi (120 metri di altezza).
Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
“Selva alta”: Yacon (un tubero della Cordigliera delle Ande), baston e corteccia (860 metri). Un boccone materico. Molto particolare la consistenza del tubero. Una via di mezzo tra il calloso e il croccante.
bacon, tubero, Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
“Escama de Rio” (180 metri): lumache di fiume, Gamitana (che wikipedia descrive come Colossoma macropomum, unico rappresentante del genere Colossoma, è un pesce d’acqua dolce appartenente alla famiglia Characidae), sangre de Arbol (una resina rossa ricavata da alcune tipologie di alberi, utilizzata come antinfiammatorio). Un assaggio eccezionale. Ricco di contrasti e consistenze. In pochi centimetri quadrati.
lumache, Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
Una posata che precede il servizio del pane. O meglio, i servizi del pane.
posata, Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
“Altipiano y Ceja” (3900 metri, con prodotti reperiti ad altezza massima). Composto da tunta (un patata disidratata)…
tutta, patata, Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
…annato (una pianta amazzonica contenente betacarotene), preparato come una sorta di muffin…
andato, Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
…due diversi tipi di burro (di cacao e di ungurahui, un frutto di una palma amazzonica) che accompagnano…
cacao, Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
…l’affascinante pane aromatizzato con foglie di coca bruciate. E’ il caso di dire, un sapore stupefacente.
pane, Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
pane, coca, Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
“Suelo de mar” (20 metri sotto il livello del mare) ovvero molluschi, melone Pepino, lime. Ritornano i sapori marini, molto pronunciati ma con un bilanciamento acido/grasso da manuale, ma il protagonista, ancora una volta, è la consistenza dai tanti risvolti.
molluschi, Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
molluschi, Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
“Pieles de Arbol” (si risale a quota 2300): palta, loche, kiwi cha, ovvero, avocado, zucca e amaranto.
avocado, zucca, amaranto, Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
Ci vengono mostrati gli ingredienti del prossimo piatto.
patate, Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
“Tallo extremo” (2875 metri): Oca (ossalide tuberosa), mashwa (una patata gialla), sambuco. Una delle preparazioni più golose. Un piccolo viaggio intorno alla patata. Il sambuco dona misurata eleganza.
Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
“Colores de Amazonia”(400 metri dal livello del mare): Paiche (pesce amazzonico), nocciolina di Bahaja, pijusyo, huito (due frutti tropicali dolci). Il piatto più ruvido. Il sapore del pesce è molto pronunciato. Un po’ faticoso a livello olfattivo. Il piatto meno convincente e bilanciato del percorso.
amazonia, Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
“Cosecha y Recoleccion”, in italiano “vendemmia e raccolto”. Uno dei piatti migliori. Si tratta di lattuga grigliata, capesante e granadilla. Le capesante (il sapore è magnifico) sono adagiate sulla lattuga, in perfetto contrasto tra caldo e freddo, morbido e calloso. Meravigliosa la salsa a specchio in accompagnamento, una riduzione di succo di granadilla, una via di mezzo tra la pesca e il frutto della passione, secondo molti il frutto con il più equilibrato sapore tra le cd. passifloraceae. Gli ingredienti di questo piatto si trovano allo stesso livello del mare.
lattuga, capesante, granadilla, Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
“Pesca de Cercanìa” (10 metri sotto il livello del mare): polpo, corallo, Barquillo. Altro sapore eccellente. Grande qualità del polpo, appena colpito dal calore, ed eccezionale consistenza del corallo (in sfoglia).
polpo, Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
Chiude il piatto una infusione di corallo. Dal profondo sentore marino.
corallo, infuso, Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
Un cuore di manzo disidratato sul quale è adagiata una cialda al latte di manzo. Sono il preludio all’ultimo piatto salato.
cuore di manzo, Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
“Cordillera baja” (più 1800 metri). È il piatto principale. Un gustoso filetto di manzo è ricoperto da una coltre di varietà di quinoa e semi di airampo (un cactus delle Ande), bagnati da un latte di quinoa (meraviglioso sapore).
filetto di manzo, Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
Profumatissimo il primo dessert: “Bosque amazonico” (650 metri sopra il livello del mare) con melarosa, pitahaya, verbena e pepe dolce. Rinfrescante ed aromatico. Eccellente il sorbetto alla melarosa.
dessert, Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
“Alturar verdes” (più 1050) Cacao e chaco (Green Highlands: Lucuma, Cacao) per gli amanti del cioccolato. Un piccolo viaggio intorno al cacao (di diversi tipi, in diverse consistenze).

dessert, Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
Servizio che si chiude con un bicchiere di “cushuro”, un batterio che cresce ad alte latitudini. Per chi volesse approfondire (poco).
cushuro, Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
“Valle entre Andes” (2190 metri): radici, cirimoia, sacha inchi.
valle andes, Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
“Mucilago solar” (200 metri): piccola pasticceria fatta con cioccolato theobroma.
piccola pasticceria, Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
piccola pasticceria, Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
Chiude il tutto “Agua O.I.”, infuso straordinariamente aromatico di cedron (verbena odorosa).
Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
Anzi, il Perù è terra di caffè. Buonissimo.
caffè, Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
Cucina affollata.
cucina, Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru
L’ingresso del ristorante. Privo di insegna. Sebbene il quartiere di ubicazione “Miraflores” sia uno dei più esclusivi della città, a Lima di notte c’è sempre da tenere gli occhi aperti.
Central, chef Virgilio Martinez, Miraflores Lima, Peru

Si è ormai detto moltissimo su Massimo Bottura, come praticamente tutto è stato scritto dell’Osteria Francescana.
Voti e parole sembrano essere agli sgoccioli: una sfida continua per chi scrive di ristoranti, costretto di volta in volta a guardare oltre e, talvolta, spostare artificiosamente il proprio orizzonte critico dalla grandezza di un luogo che, in modo paragonabile forse solo al Bulli ma secondo modalità assai differenti, non ha precedenti nella storia della ristorazione.
Perché il sospetto è che in via Stella non sia il fondo scala ad essere toccato, bensì che sia questo luogo baciato dal talento e dal successo a spostare, di anno in anno, di menù in menù, di piatto in piatto, l’idea stessa di eccellenza gastronomica. Un’eccellenza che è, ovviamente, innanzitutto gustativa. Da questo punto di vista, però, l’incredibile è ormai la norma alla Francescana e diventa inevitabile attendersi, in un percorso sempre eccellente eppure in continuo, costante crescendo, che le emozioni di un piatto vengano superate dal successivo.

Il superamento continuo dei limiti è del resto il vero tratto distintivo, almeno in questa fase storica, dell’Osteria Francescana.
Equilibrio? Contrasti? Contrasti in ricomposizione? Equilibri in esplosione? C’è tutto questo nella cucina di Massimo Bottura ma non è solo il “buono” (o il “piacevole”) a non essere più in discussione: la concettualizzazione dell’oggetto edibile finisce per superare anche la fase di valutazione degli equilibri fra gli ingredienti, tale è la corrispondenza fra sensazione e, di volta in volta, memoria, idea o visione. E così ciò su cui il gourmet ha discusso per metà del proprio tempo a tavola finisce per restare sospeso, nell’aria sollevata da un punto di domanda. L’elencazione stessa degli ingredienti, la costruzione dei dettagli diventano superflue di fronte all’importanza del processo.
Esemplare un fugace passaggio dello chef al tavolo: “Asparagi come un cremino, non vi sto a dire come”. Il cliente, con tutto il proprio bagaglio e il proprio vissuto, posto davanti a un concetto ma libero di viverlo senza un dedalo d’appigli a vincolarne la percezione.

A perdere di significato è inoltre la diatriba sulla cucina come arte o come alto artigianato, discussione già sterile in partenza ma qui privata in toto di senso storico.
In via Stella l’arte, nelle opere esposte, nei racconti e dietro al piatto, è tutta intorno con il proprio carico di messaggi sociali, culturali ed estetici.
La cucina di Bottura rappresenta invece, a tutti gli effetti, un’autorevole voce della critica d’arte contemporanea: si fa racconto artistico del milieu di cui si nutre e di cui è possibile, tramite il racconto stesso, nutrirsi. Un “cucinare di pittura” che mette in dubbio le certezze di chiunque un tempo riteneva “danzare d’architettura” assurdo e che perciò fosse impossibile, ad esempio, “parlare di musica”.
Ma, d’altronde, le certezze di oggi non sono che limiti di fronte al progresso di domani.

Assaggi di benvenuto: baccalà con pomodoro, macaron di coniglio alla cacciatora, borlengo, tempura con carpione, corn on the cob (farcito di ceviche).
benvenuto, Osteria Francescana, Chef Massimo Bottura, Modena, 50best
benvenuto, Osteria Francescana, Chef Massimo Bottura, Modena, 50best
benvenuto, Osteria Francescana, Chef Massimo Bottura, Modena, 50best
I pani proposti.
pani, Osteria Francescana, Chef Massimo Bottura, Modena, 50best
pani, Osteria Francescana, Chef Massimo Bottura, Modena, 50best
grissini, Osteria Francescana, Chef Massimo Bottura, Modena, 50best
Miseria e nobiltà, ossia ostrica alle erbe e brodo di prosciutto.
miseria e nobiltà, Osteria Francescana, Chef Massimo Bottura, Modena, 50best
Una lenticchia meglio del caviale.
lenticchia, Osteria Francescana, Chef Massimo Bottura, Modena, 50best
Riso Levante, con agrumi e la vaniglia spruzzati in finitura.
Riso levante, Osteria Francescana, Chef Massimo Bottura, Modena, 50best
Gnocchi come un’insalata tzatziki. Il viaggio riportato a casa.
gnocchi come un'insalata, Osteria Francescana, Chef Massimo Bottura, Modena, 50best
Sogliola o rombo? Al cartoccio, al sale o alla mugnaia? In pochi centimetri quadrati un pezzo di storia culinaria, la stravaganza di un cartoccio edibile realizzato con acqua di mare, una materia prima sensazionale e una padronanza delle cotture e degli equilibri irreale.
Sogliola o rombo, Osteria Francescana, Chef Massimo Bottura, Modena, 50best
Autumn in New York, omaggio a Billie Holiday, prima e dopo la finitura con brodo di funghi, piselli, e quel che c’è.
Autumn in New York, Osteria Francescana, Chef Massimo Bottura, Modena, 50best
autumn in New York, Osteria Francescana, Chef Massimo Bottura, Modena, 50best
“Osteria Francescana”
Osteria Francescana, Osteria Francescana, Chef Massimo Bottura, Modena, 50best
This little piggy went to market: 5 preparazioni che portano il maiale in giro per quattro continenti, prima di tornare a Modena con il cotechino finale. Sensazionale.
little piggy, Osteria Francescana, Chef Massimo Bottura, Modena, 50best
Il piatto perfetto arriva subito dopo: A volte germano, a volte pernice ma anche bollito unisce la caccia alla storia del locale, con la farcitura di bollito (ovviamente non bollito) e le salse in accompagnamento. Salsa civet un po’ meglio che da manuale.
germano, pernice, Osteria Francescana, Chef Massimo Bottura, Modena, 50best
I compagni di viaggio del germano.
Osteria Francescana, Chef Massimo Bottura, Modena, 50best
Osteria Francescana, Chef Massimo Bottura, Modena, 50best
La zucca fra Mantova e Ragusa, con mandorla, mandarino e ravioli aperti di zucca (perché i maestri si omaggiano anche quando non sono più in grado di imparare dai più giovani).
zucca, Osteria Francescana, Chef Massimo Bottura, Modena, 50best
Asparagi come un cremino.
asparagi come un cremino, Osteria Francescana, Chef Massimo Bottura, Modena, 50best
Yellow is Bello, la Torta Mimosa nel 2016.
yellow is bello, Osteria Francescana, Chef Massimo Bottura, Modena, 50best
Piccola pasticceria.
piccola pasticceria, Osteria Francescana, Chef Massimo Bottura, Modena, 50best
Fra un’ottima bolla, un eccellente abbinamento al calice proposto (Barolo chinato di Cappellano sul germano) e una bottiglia scelta da noi (la clamorosa Ribolla 2000 di Gravner), un intrigante cocktail preparato da un Giuseppe Palmieri sempre sul pezzo.
drink, Osteria Francescana, Chef Massimo Bottura, Modena, 50best