Passione Gourmet Amaltea, Chef Gabriele Faggionato, Milano, di Giovanni Gagliardi

Amaltea

Ristorante
via Guglielmo Pepe 38, Milano
Chef Gabriele Faggionato
Recensito da Presidente

Valutazione

12/20 Cucina prevalentemente classica

Pregi

  • Il parcheggio convenzionato del ristorante, ubicato in una zona in cui trovare un posto può rovinare la serata

Difetti

  • Il locale, per ragioni di normative comunali, è allo stato attuale privo di insegna, fatto che ne rende piuttosto incerta la localizzazione
Visitato il 03-2013

Dopo aver seguito, da lontano ma con attenzione, la nascita di Amaltea, attendevamo con curiosità il momento di varcare la soglia di questo ristorante, aperto da poco più di un anno nel quartiere Isola nei locali che ospitarono la storica trattoria pontremolese di Gianni e Dorina. A condurne la cucina ecco il giovane Gabriele Faggionato, che a soli 25 anni vanta già esperienze di tutto rispetto in Italia (Cracco), ma soprattutto all’estero (Parigi in primis, dove è stato con William Ledeuil alla Ze Kitchen Galerie, esperienza che deve aver influenzato non poco le sue idee culinarie).

La sua scommessa gastronomica è fare una cucina fusion partendo dai classici della tradizione, italiana e non: una sfida che commercialmente ci appare più che convincente. L’uso delle spezie consente d’altronde di donare originalità ai piatti senza rinunciare al gusto e di puntare su una maggiore leggerezza delle preparazioni: un binomio vincente in una città come Milano, da sempre molto aperta alle nuove tendenze.
Nel contesto della modernità, delle nuove attitudini gastronomiche, si inserisce appieno la cucina di Faggionato che, partendo da piatti della tradizione come Caponata, Vitello tonnato, Riso patate e cozze o Pasta e ceci, li rielabora modificando una consistenza, una cottura o, il più delle volte, aggiungendo un ingrediente, preferibilmente esotico.
E’ ovviamente un’idea di cucina molto personale, ma alla fine ciò che conta è il risultato. Che a noi, in verità, è parso piuttosto altalenante.
Qualche volta il piatto è intrigante, ma nella maggior parte delle occasioni la “variante” poco aggiunge, lasciando aperti interrogativi sulla necessarietà della rielaborazione.
La mano di Faggionato, comunque, sembra già sicura nonostante la giovane età, tanto che non abbiamo rilevato errori di natura tecnica. Il cuoco, anzi, c’è e si vede: la perplessità è semmai nella monotematica formula scelta, che finisce per incorrere in una stucchevolezza di fondo .
Curcuma e cumino fanno la loro comparsa già nei grissini e non ci lasciano più per tutta la cena, accompagnati da generose iniezioni di zenzero e curry. Tutto tende al dolce, con un’aromaticità assai spinta che rende difficile qualsiasi valutazione sulla materia prima e declassa spesso l’ingrediente principale a mera consistenza.
Il servizio è molto discreto, forse persino troppo, e la carta dei vini è in verità tutta da sviluppare e non esente da improvvidi errori di stampa.
In sintesi: una simpatica novità, non priva di originalità, sulla scena milanese, da cui ci auspichiamo però una consistente maturazione stilistica, benché ci rendiamo perfettamente conto di come una proposta del genere già così intercetti il gusto di una consistente fetta di milanesi.
Ad Majora

Riso croccante, patate e cozze. Un grande classico della cucina barese rielaborato nel senso della croccantezza (il riso è soffiato). Intrigante.

Baccalà mantecato al latte di cocco con polenta strapazzata. Passiamo da Venezia con il latte di cocco a ingentilire lo stoccafisso.

Gnocchetti di camote ragout di gamberi e limone. Il camote è la patata americana, particolarmente dolce, dolciastri anche i gamberi, a stemperare tanta dolcezza una bella dose di limone. Un buon piatto, leggermente monocorde.

Ravioli croccanti di carne con salsa ai crostacei. Un salto in Cina, gli amanti dell’etnico apprezzeranno.

Zuppa di molluschi al curry rosso. Curry rosso più erbe fresche orientali, molto speziato, i molluschi accusano il colpo…

Galletto curry verde e limone. Il curry verde ha un gusto fresco e piccante, che dona un bel nerbo alla preparazione. Il piatto migliore.

Crema catalana alla vaniglia.

13 Commenti.

  • Emanuele Barbaresi6 Giugno 2013

    L'ho provato anch'io e sarei stato meno severo (però tutti i piatti che ho assaggiato, per la verità, erano diversi dai tuoi e privi di spezie o quasi). La mano mi è parsa buona

  • giovanni gagliardi6 Giugno 2013

    Caro Emanuele, che la mano sia buona l'ho evidenziato anche io. Ma mi insegni che a volte può non bastare. Un caro saluto. Ad Majora

  • Presidente6 Giugno 2013

    La decisione è stata discussa ampiamente, anche per i riscontri esterni più positivi, devo dire però che dopo plurime visite di PG e medesimi risultati si è deciso di conferma l'uscita con questa valutazione.

  • Giovanni Lagnese6 Giugno 2013

    Credo che la domanda di fondo sia "cos'è una buona 'mano'?". Capacità di individuare le "giuste" relazioni fra le parti (nel senso degli ingredienti) di una composizione, unita alla capacità di individuare le giuste "trasformazioni" preliminari? O capacità di far corrispondere la realizzazione alla concezione? E in tal caso, visto che non esistono errori in cucina, come si fa a distinguere la "mano" dalla concezione stessa? Dove finisce la concezione e inizia la mano, e dove finisce la mano e inizia la concezione?

  • Giovanni Lagnese6 Giugno 2013

    Quello che ho scritto sembra gastronomicamente una velleità, ma non lo è affatto, perché si tratta di capire che c'è *pensiero* anche dietro un piatto "di mano". Non so se sia il caso dello chef in questione, ma certamente è al caso, ad esempio, di un Esposito o di un Caputo...

  • Emanuele Barbaresi6 Giugno 2013

    La "mano", almeno per come la intendo io, ha a che fare con la realizzazione di un piatto, non con la sua concezione. Nel caso specifico, l'esecuzione dei piatti proposti, particolarmente semplici, per non dire banali, mi è parsa buona (in senso relativo, ovviamente, e tenendo conto della scena milanese, di recente un po' migliorata, ma nel complesso sempre triste). Parlare di mancanza di errori, peraltro, mi sembra eccessivo.

  • Giovanni Lagnese6 Giugno 2013

    Emanuè, ma hai capito quello che ho scritto? Mamma mia...

  • giovanni gagliardi7 Giugno 2013

    Per buona mano, stando ai tuoi esempi, intendo la capacità di far corrispondere la realizzazione alla concezione. E, quindi, è perfettamente possibile eseguire tecnicamente in modo corretto piatti di dubbia concezione. Così come è perfettamente possibile cucinare in modo corretto all'interno di una concezione di cucina piuttosto monocorde e a volte un pò stucchevole. Mi sfugge il problema che hai posto. Ad Majora

  • Giovanni Lagnese7 Giugno 2013

    Il problema è che, ad esempio, è difficile distinguere la realizzazione dalla concezione senza fare appello al foro psichico dello chef. Inoltre, il carattere intenzionale o meno delle creazioni è irrilevante dal punto di vista dei risultati. L'unico modo per parlare di "buona mano" è, di fatto, sottintendere che esistano delle "regole", rispettando le quali si perviene a un risultato, come dici tu, "corretto". Ma tale concezione è esattamente l'analogo di quella di chi credeva alle "buone regole" del dipingere, alla "buone regole" del contrappunto musicale o, se preferisci un esempio dal mondo artigianale, alle "buone regole" della sartoria classica. Oggi credo sia ridicolo parlare di cuciture "ben fatte" e mi sembra altrettando ridicolo l'analogo gastronomico di tutto ciò.

  • Piermario7 Giugno 2013

    @Lagnese La percezione del ridicolo è influenzata da svariati fattori culturali e ambientali. Per alcuni (quorum ego, ma qui non rileva), l'incapacità di distinguere una buona cucitura da una mediocremente realizzata segnala unicamente la mancanza di adeguata cultura. Cultura materiale e cultura del piacere.

  • Giovanni Lagnese7 Giugno 2013

    La percezione del ridicolo? Eh? Non capisco. Quanto alla cucitura, allora - equivalentemente - se uno chef realizza volutamente una carbonara squilibrata e "sgradevole", per ottenere ad esempio un ben preciso effetto dissonante e/o ironico, ha una "cattiva mano"? Secondo me uno può avere una mano e un palato millimetrici e realizzare piatti "scorretti", e vicevere avere una mano e un palato approssimativi e realizzare, magari per abitudine o perché ha imparato in un certo modo, piatti tutto sommato "corretti". Il punto è che se non si esce dalla logica della "buona esecuzione" (che è l'analogo della buona cucitura, ecc.), la cucina non va avanti. Ripeto, non è il caso dello chef in questione, ma quando presunti critici parlavano di "errore di esecuzione" in certi piatti di Lopriore, io andavo in bestia...

  • Piermario7 Giugno 2013

    La buona mano - mi pare ovvio - dobrebbe essere la capacità di realizzare risultati pienamente conformi alle intenzioni, _proprie_ o di _altri_. Il nostro cuoco, per stare all'esempio, dovrebbe essere in grado di realizzare egualmente "bene", e sol che lo voglia, tanto la sua carbonara "dissonante" quanto quella del Cucchiaio d'argento. Lopriore, per quel pochissimo che ne so (purtroppo non sono mai riuscito a provare la sua cucina, ma ho visto quello che ha seminato tramite qualche suo allievo), credo proprio fosse (sia) quel tipo di cuoco. Ciò che non condivido è l'idea che non ci sia ricerca da fare e non ci siano risultati "nuovi" da cogliere anche nella direzione della "buona esecuzione". Quest'idea già mi convince poco per quanto riguarda la cucina (dove pure la conservazione del grosso del bagaglio di tecniche di tipo 'tradizionale' sembra, al momento, tutto sommato non in pericolo), ma è assolutamente improponibile nel campo della sartoria, dove la re-invenzione (in senso etimologico) del patrimonio di tecniche realizzative e di intelligenza dei materiali sedimentate nella cultura "classica" è da considerarsi, ormai, ultra-avanguardia.

  • Giovanni Lagnese8 Giugno 2013

    Nulla contro la ricerca nella direzione della "buona esecuzione", salvo appunto il fatto che la si chiami "buona esecuzione". Illuminante, in relazione all'argomento di cui stiamo discutendo (tecnica, controllo, "mano", ecc.), è la seguente riflessione di John Cage, uno dei più grandi compositori della storia della musica: «Credo che la tecnica sia molto importante. È importante averla e qualche volta è importante non averla. Quando tu la possiedi, prendi per esempio Demetrio [Stratos], è un grande cantante, ha un grosso controllo delle corde vocali, le conosce molto meglio di quanto io le conosca, e c'è un'altra cantante, veramente eccezionale, che sta esplorando le possibilità della voce, Joan La Barbara. Cathy Berberian stessa non ha un controllo così completo quanto questi due cantanti. Ma anch'io sto esplorando la voce, ma senza possedere la tecnica».

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