Passione Gourmet Dinner By Heston Blumenthal, Chef Ashley Palmer-Watts, London (UK), di Norbert - Passione Gourmet

Dinner By Heston Blumenthal, Chef Ashley Palmer-Watts, London (UK), di Norbert

Ristorante
Recensito da Presidente

Valutazione

15/20 Cucina prevalentemente classica

Pregi

Difetti

Visitato il 04-2024

Recensione Ristorante
Dinner è il pasto principale per gli inglesi.
Originariamente era considerato tale il breakfast che presentava il porridge, lo zuppone di avena buono per tutte le stagioni (e per tutto il giorno), come protagonista assoluto.
Successivamente, con l’evolversi delle abitudini grazie ai cambiamenti dell’economia e con lo sfruttamento della luce artificiale, il dinner si è evoluto qualitativamente ed è stato spostato sempre più nell’arco della giornata fino a coincidere prima con il con il pranzo e poi con la vera e propria cena ( dinner o soup).
E cosi quando Heston Blumenthal per il suo esordio sulla scena londinese, un anno fa, ha dovuto scegliere il nome per rappresentare il suo nuovo progetto imprenditoriale non ha trovato espressione migliore che questo termine facilmente riconducibile anche alla (apparente) semplicità della proposta gastronomica.
Sì, perché l’intento principale è chiaramente quello di cercare un approccio, il più ecumenico possibile, alla cucina tradizionale inglese senza tanti orpelli, in una sala, ex bar del Mandarin oriental Hyde Park, ampia, luminosa, e, al momento della mia visita, piena in ogni dove, con immancabile cucina a vista e apparecchiatura dei tavoli molto essenziale.
Anche qui il servizio è molto giovanile, anche se la leggerezza e l’esuberante efficienza riscontrate al Fat Duck assumono dei connotati diversi, che evocano piuttosto una catena di montaggio, sia come tempi che come modalità, tanto è che, pur essendo al tavolo in due, i tre antipasti scelti ci sono stati portati insieme, a mò di ristorante cinese, e altrettanto per le due portate della carne di cui una, l’eccellente costata di Angus, pur chiaramente prevista per due persone nel menù, è arrivata insieme alla braciola di maiale altrettanto succulenta ( e rimandata in cucina al mittente, distratto :-)).
Il legame gastronomico con la casa madre di Bray è forte, ma, mentre lì il percorso è mediato da una laboriosa rivisitazione, quasi una fuga in avanti, di ricette storiche, qui l’orientamento è strettamente filologico e più direttamente legato al passato.
La fonte d’ispirazione è rappresentata infatti da manuali che spaziano dal 16° al 19° secolo e che riportano il meglio dello scibile gastronomico di quelle epoche.
E così eroine misconosciute come Hanna Wolley o Maria Eliza Rundell, per esempio, ideatrici dei cucchiai d’argento dell’epoca e impiegate a vario titolo presso case nobiliari, o maestri riconosciuti come Marie Antoine Carème, trovano qui una tardiva ma meritata ribalta.
Il risultato è una cucina semplice, gustosa, ben eseguita, anche se diversamente leggera, il che non potrebbe essere altrimenti vista l’ispirazione a tempi in cui la leggerezza non era minimamente contemplata tra le regole cui attenersi.
Il tutto selezionato da Blumenthal e affidato alle mani di Ashley Palmer-Watts per anni suo executive chef al Fat Duck.
Può essere già considerato signature dish di questo locale il celeberrimo meat fruit, un goloso parfait di fegato di pollo ricoperto da gelatina al mandarino, confezionato con industriosa abilità in modo da sembrare in tutto e per tutto un semplice frutto.
Meno convincente l’insalata di granchio con gel di cetriolo, borraccina e una brioche dalla consistenza spiacevolmente spugnosa, bagnata probabilmente nella salsa di granchio ma non adeguatamente asciugata nel forno.
Delle squisite carni che da sole valgono già la visita già si è detto, se non che mi sembra il caso di una menzione speciale anche per le patate fritte più buone che mi sia capitato di mangiare: per niente unte, croccanti fuori e morbide dentro, una delizia.
Ai dolci ho indugiato di nuovo sulla squisita Taffety tart già gustata al Fat, presentata in veste più spartana, mentre di una golosità eccessivamente lipidica mi è sembrata la Tipsy cake, una brioche calda in salsa di brandy e Sauternes con ananas arrostito allo spiedo e caramellato.
Felicissima la scelta del vino con un grande Clos Mogador 1999 Priorat di Renè Barbier, cabernet sauvignon, garnacha, sirah e carignano di grande persistenza e autorevolezza.

Mise en place e ambiente

Pane

Meat fruit(c.1500)
Parfait di fegato di pollo, gelatina al mandarino, pane tostato.

Particolare….

Buttered crab loaf(c.1714)insalata di granchio, maionese, gelatina al cetriolo, limone, uova di aringa, borraccina, brioche.

Roast Marrowbone(c.1720)lumache, midollo, acciughe, prezzemolo, giardiniera.

Black foot pork chop(c.1820)braciola di maiale con farro, stinco, lardo, ciccioli e salsa robert,

Aberdeen Angus ribeye(c.1830)costata con ketchup di funghi…

Particolare…

Chips….(e che chips!!)

…. E buttered black cabbage.

Taffety tart(c.1660)vedi Fat Duck…

Tipsy cake(c.1810)brioche calda bagnata in una crema di brandy e Sauternes con ananas arrostito e caramellato.

Particolare….

Baked lemon suet pudding(c.1630)tortino al limone, crema al limone, limone candito e finger lime.

particolare

Petit four: cioccolato al tè earl grey.

Clos Mogador 99 Priorat: muy muy vertical !!

Inquietante presenza all’ingresso…

Spiedo degli ananas.

Brand Mandarin Oriental.

Il pregio: Un pezzo di storia gastronomica à la carte…..
Il difetto: I tempi serrati che danno la sensazione di catena di montaggio.

Restaurant Dinner by Heston Blumenthal
Mandarin Oriental Hyde Park
Knightsbridge 66 London
Tel +44(0)2072013833
Alla carta 55-60 £

www.dinnerbyheston.com

Visitato nel mese di Febbraio 2012


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Norbert

5 Commenti.

  • andrea p16 Marzo 2012

    quel parfait di fegato di pollo dentro a quel finto mandarino mi inquieta parecchio...

  • Cristina17 Marzo 2012

    "la vera e propria cena ( dinner o soup)." Soup??? Casomai supper...

  • bang30 Gennaio 2014

    Questa valutazione è una di quelle che più si differenzia rispetto a quelle della maggioranza della critica (es. best50restaurants). Sarei curioso di sapere se confermereste la valutazione oggi.

  • gianni revello29 Aprile 2014

    Ci sono stato giusto a fine gennaio. Non semplice la valutazione di questo ristorante, ma sulla scorta di quella che è stata mia esperienza direi tra 15 e 16/20. Magari più 16 data l’originalità della proposta. Ne parlo adesso perché per la recentissima The World’s 50 Best Restaurants 2014 il Dinner è al 5° posto. Quinto nel mondo è risultato quanto meno sconcertante, tale da porlo, per fare solo qualche esempio, davanti al Mugaritz (6°), al Mirazur (11°), al Piazza Duomo (39°), al Quique Dacosta (41°), a Le Calandre (46°), e passando ai migliori 100, al Combal.Zero (51°), al Louis XV (56°), al 41 Grados (74°), al Pierre Gagnaire (92°). Per quel mi riguarda sono davvero tanti i ristoranti in Italia e in Europa nei quali ho mangiato meglio che non al Dinner. Comunque ecco la mia cena. 1. Meat Fruit (c.1500) (signature dish, ne parlo dopo) 2. Rice & Flesh (c.1390) Anno domini 1390. Giusto ieri, o giù di lì, …a seguito delle Crociate pure in Inghilterra arrivano nuovi prodotti e nuove maniere di metterli in tavola. Cosicché col tempo accade, con tutta probabilità in un convento, che un giorno a qualcuno venga l’uzzolo d’inchiostrare la pergamena, la quale, tenuta in gran pregio, o, più facilmente, pura fortuna, scampa alla Guerra dei cent’anni, supera in bellezza la guerra delle Due rose, passa tutte le rivoluzioni, industriale compresa, …non si restringe nel secolo breve, …ed ecco il mio secondo starter! …In realtà, in barba alla urblumenthalweltanshauung e alla carta del Dinner, divisa in starters, main courses, desserts, alla fine mi sono ritrovato a fare antipasto primo secondo e dolce! Dicevo, questa ricetta del rice, una delle duecento circa, è presa dal più antico testo di cucina inglese, The Form of the Cury, del maestro capo cuoco delle cucine di Riccardo II. Tanto quanto. E’ accaduto che Blumenthal ha fatto setacciare la British Library per scovare vecchi testi inglesi (ma inglesi inglesi) di cucina, vecchie ricette di tutte le epoche che fossero in grado di dare un’immagine nazionale di una cucina (fortunato a farlo da quelle parti, perché avesse dovuto farlo ad esempio in Italia il materiale da selezionare sarebbe stato ben più corposo - e, si sa, da noi aveva già fatto parecchio tempo fa in ambito più ristretto una cosa simile l’indimenticabile Colombani del Sole di Maleo). Più o meno antiche, nell’arco di tempo compreso tra il medioevo alla metà del novecento, ricette inglesi attualizzate: ecco il format della cucina del Dinner by Heston Blumenthal, allocato presso il Mandarin Oriental Hyde Park Hotel di Londra. Anche la cucina si dà così all’approccio filologico contemporaneo, seguendo per dire le orme già della musica da alcuni decenni (a partire da grandi esecutori/studiosi olandesi, inglesi e via a seguire in Europa e nel mondo). Ovviamente, e tanto più nella cucina, nella possibilità se non assai parziale di riportare indietro la storia, quello che ne risulta è pur sempre prodotto peculiarmente contemporaneo, ad ampliare (per la cucina ancora in forse) i criteri del gusto. Qui per il mio R&F un’esecuzione pressoché perfetta di un risotto allo zafferano (quello era!), forse appena un po’ brodoso, giusta la cottura, moderata la quantità, buono il bilanciamento del riso con la carne, quattro mucchiettini di coda al vino rosso (la novità), sfilacciata, a dare tono all’insieme senza prevaricare il riso. Per cominciare a capire la natura e l’acribia del personaggio basta appunto vedere la fattura complessiva di quel risotto allo zafferano, col riso giusto in tutto, evento raro fuori dall’Italia. Ordunque, Blumenthal, uno che nel progettare i suoi piatti lascia poco al caso, è stato di persona, credo nel 2006, nelle cucine rispettivamente di Marchesi e di Cracco per vedere bene com’è che si fa. Avevo acquistato il bel libro nel 2007, “Further adventure in search of perfection”, dove B. riproduce in maniera filologica, e con passione per la ricerca fino al dettaglio in ogni aspetto macro e micro, da storico-culturale fino alla minuzia tecnica, otto preparazioni significative di diverse culture gastronomiche sulla faccia del pianeta. Realizzando con metodo il giro del mondo della cucina di un grande cuoco in cerca di radici del cibo, diretto alle fonti: Hamburger; Fish Pie; Chicken Tikka Masala; Risotto; Peking Duck; Chilli con Carne; Baked Alaska; Trifle. Una bella avventura, molto ben documentata, di una mente e di un gusto multidimensionali. Le scuole nazionali nascono, in parallelo e come conseguenza, con l’idea di nazione moderna, che è ottocentesca. Nell’ultima parte del novecento si entra in una nuova era, un’era di multiculturalismo, e di idee e di tecniche nuove. Logico che i maggiori esponenti della tendenza corrispondente nell’alta cucina non siano stati all’inizio né italiani, né francesi, esponenti delle due tradizioni più forti e radicate. Ma, col risultato implicito ed esplicito del lasciarsi alle spalle la scuola francese, siano stati un Adrià, soprattutto, e ad esempio un Blumenthal. La personalità di Blumenthal, ed è praticamente un autodidatta, ha molte sfaccettature, solo all’apparenza contradditorie, con interessi che spaziano dalla cosiddetta cucina molecolare (che lui ha seguito, primissimo tra gli chef, fin dagli inizi, dai convegni di Erice -si veda l’ampio materiale che esce fuori mettendo due parole su un motore di ricerca- , rifiutandone tuttavia sempre l’etichetta), alla cucina popolare e tradizionale inglese (ha altri locali oltre al Fat Duck e al Dinner), alla filologia a tutto campo (storico e geografico). Fino alla ricerca (alla quale si sta anche dedicando e chissà non ne escano altri format; il motto è: anticipare sempre, a tempo debito!) sui temi del multisensory taste - multisensory cooking - multisensory dining, modalità le quali se fino a poco tempo fa avevano basi del tutto aleatorie, oggi possono poggiare invece su una mole considerevole di studi e ricerche. Come esiste già una disciplina della neuroeconomia, è in formazione quella della neurogastronomia, per sviluppi prossimi futuri nell’esperienza del cibo, ancorché tra passi avanti e false partenze come sempre accade, sicuramente degni di considerazione. Il XXI secolo si preannucia d’altronde come il secolo delle biotecnologie e dello studio, sia in originale quanto in copia non conforme, del nostro sistema nervoso (sistema che, en passant, per quello che interessa tutti noi, è l’organo del gusto) 3. Spiced Pigeon (c.1780) Ale & artichokes Ottima la qualità delle carni, perfetta la cottura ben al rosa, salsa ficcante che giusto pungeva il piatto, carciofi molto basici. Averne piatti così. Non c’è molto altro da dire. Veramente una cosa a uno dei camerieri (ne giravano parecchi) stavo per dirla, al trentacinquesimo minuto di attesa dopo il Rice stavo per gridargli: “Fuori i secondi!”, ma i guantoni li avevo lasciati in albergo, e al trentaseiesimo minuto il piccione, più morto che vivo, s’è posato sul mio tavolo. Tempistica in cucina non al top. 4. Tripled cooked chips Da tutti, ma proprio tutti, decantate, e le migliori di qui, e le migliori di là. Nel mio caso purtroppo deludenti, in evidenza il buon sapore tuberamidoso, ma a seguito dell’ultima fase della cottura gli esiti dall’uno all’altro chip sono risultati troppo irregolari, la giusta cottura e la giusta croccantezza un po’ aleatorie, sarà stata l’ora tarda. 5. Chocolate Bar (c. 1700) Passion fruit jam & ginger ice cream. Elegante e persistente, il cioccolato persistente forse fin troppo (…ok, passati più di duecento anni!), ricco e intrigante il ripieno al frutto della passione; e una quenelle di buon gelato, rinfrescante e pulente, con lo zenzero non abbastanza in evidenza forse per non caricare ancora l’insieme. In ogni caso un efficace finale di una cena nella sostanza ben appagante, ma con unica vera novità data dal Meat Fruit. (del Meat Fruit ne parlo a seguire)

  • gianni revello29 Aprile 2014

    Riguardo al signature dish (per sommi capi un parfait di fegatini di pollo avvolto da un sottile strato di densa gelatina agrumata, il tutto assemblato nella forma del citato frutto) l’origine è meno definita, genericamente rinascimentale (vero, su carne e frutta ci sono svariati esempi per l’epoca, peraltro solo vagamente riconducibili all’oggetto nostro in questione), e però in più ho scovato in rete un tale che dice (e lo documenta, anche per immagini) esserci stato un po’ di tempo fa in distribuzione in Inghilterra un prodotto commerciale che come idea e forma richiamava in maniera abbastanza netta il frutto nostro in questione. Così fosse, in questo caso in B. ci potrebbe eventualmente anche essere un influsso o commistione (assai contemporanea, e alla quale lo stesso Adrià talora ha dato seguito) tra il pop del commercio e la cultura alta in cucina. Fatto sta che il Meat Fruit al Dinner non è per nulla prodotto commerciale, è alta cucina, la ricetta è molto complessa, dettagliata (la si può trovare in rete) e irriproducibile se non in ambito molto tecnico (più d’uno ha provato a rifarla, con esiti per niente paragonabili, e la cosa più difficile è la simil-buccia del frutto). In tavola la presentazione illusionistica è insolita e piacevole. Il gusto subito al primo approccio è affatto banale, molto ricco di sfumature e originale, si tocca tutto un ventaglio di sapori ben amalgamati. Molto interessante anche il rapporto, fisico e metafisico, con l’elemento antagonisticamente ‘antigrazioso’ messo a lato del finto mandarancio, vale a dire l’opportunamente grande fetta di pane, con appariscente griglia stampata, ben ben abbrustolita (ma assolutamente non secca oltre misura), la quale introduce valenze croccanti e amare (di un netto, giudizioso e in qualche punto anche oltre, bruciato) che vanno a contrastare l’altrimenti inevitabile emergere della stucchevolezza nella preparazione base. Un insieme unico, ma tra l’inizio e specialmente tra la metà e la fine del consumo della portata l’immagine gustativa che si forma è d’impatto via via decrescente senza arrivare però a stancare (bevendoci magari qualcosa di giusto assieme). Annotazione: salvo il dessert, ho avuto piatti tutti già in carta dall’apertura del ristorante alla fine di gennaio del 2011. Staticità della proposta che implica standardizzazione. Nel frattempo il Dinner è passato da nessuna a due stelle, e i prezzi ad es. dei miei primi tre piatti sono aumentati dal 2011 a oggi in media di circa il 25%, per questi tre piatti si è passati da 59 a 71 sterline. Il successo di pubblico è sempre alto, lo è stato fin dall’inizio. La critica lo ha ben supportato. Le prenotazioni, on line, vanno da venti giorni a due mesi. Io venti giorni prima ho trovato posto per la sera di un giovedì solo al secondo turno alle 22 (arrivato un po’ prima, sono stato fatto accomodare al tavolo alle 21.40). Bisogna lasciare il numero di carta di credito, se non ci si presenta si paga una penale. Cucina a vista, molti cuochi, nessun affanno nei movimenti, molto ordine. Parecchio personale, che non gira a vuoto. Servizio in sala efficiente e preciso. Penso che questo ristorante stia su una media di 150 coperti coperti al giorno. Londra è più che mai un polo mondiale d’attrazione. Del signature dish ho letto che ne vanno più di un migliaio al mese. Fa una certa impressione il calcolo di quanto abbia reso in tre anni solo questa entrée (che nel prezzo è la portata che è aumentata di più, dalle 12.50 sterline del 2011 alle 17.50 di adesso), peraltro come ho detto interessante e ben progettata, il prezzo ancora certamente lo vale. Se da un lato la sensazione di essere finiti in una macchina da soldi ci possa stare tutta, dall’altra l’ambiente è nella sostanza gradevole. Non può inoltre non suscitare interesse una filiera così ben congegnata che abbraccia sinergicamente idea, realizzazione, promozione, gestione. Per dar vita a una cucina curata e di valore, tanto nella concezione che nell’esecuzione, alla quale però, nell’indirizzarsi maggiormente alle categorie storiche e sociali del gusto piuttosto che alle più profonde categorie percettive ed estetiche, manca quello scatto che possa rendere l’esperienza di livello davvero memorabile. Col Dinner a mio parere non si va oltre un originale (ma non troppo) alto (ma non troppo) standard. Visto. Non ci tornerei. Ma, se guardiamo al di là del Dinner, quella di Blumenthal, com’è per molti creativi contemporanei in ogni ambito, non è una mente a una dimensione, questo cuoco sempre in fermento e da tempo ai vertici della cucina mondiale non vive prigioniero di un pensiero unico, bensì abbraccia con efficacia più tematiche, più tecniche. Il Dinner (oltre a essere un signor business, certo) corrisponde a uno spicchio della dimensione diciamo così filologica del nostro, la quale è in grado di portarlo ad estendere al massimo gli ambiti del suo pensiero tanto dal punto di vista geografico che nell’arco storico. Mi viene da pensare a uno dei maggiori pittori contemporanei viventi e in attività, di valore mondiale, Gerhard Richter, che in più momenti della sua carriera, anche all’interno di uno stesso periodo, è stato in grado di produrre tanto grandi quadri di stile ‘realistico’, più o meno sfumato, quanto grandi quadri di stile ‘astratto’ (tutta la pittura è ed è sempre stata astratta, o realistica, lo stesso, non è lì il punto) tanto geometrico (meno frequentemente), che informale (questo da ultimo lo stile più noto, praticato in modo molto personale sovrapponendo sulla tela in tempi diversi, con l’ausilio di lunghissime spatole, in successione tra ordine e caso, più strati di colore). Lo stile contemporaneo è più che in passato quello della molteplicità, la radice della creatività vi cresce soprattutto all’interno. Alla Tate Modern era installata, in stanza tutta propria, una grande virtuosistica opera di Richter dipinta con somma maestria: il risultato, scarsamente riproducibile con mezzi tecnici (nulla è ancora meglio dell’occhio, nostra porzione esposta di sistema nervoso), era esercizio per viste acute, il soggetto nient’altro che il riflesso irregolare della luce non assorbita da una vetrina scura. Realismo? Sì, riportava su una tela l’effetto che si produce su un vetro, immagine immediatamente riferibile ad esiti della nostra esperienza sensibile già in memoria. Astrazione? Altrettanto: non era una vetrina, non era vetro, l’effetto illusionistico era parimenti manifesto e generava lo stupore, aggiungendo un nuovo alone in memoria all’esperienza, creando fisicamente all’istante nuovi ponti tra aree distanti della mente (è questo lo stupore, l’esperienza in sintesi simultanea). Lo stesso con la cucina quando un acuto gustativo smuove aree in sonno e le porta a nutrirsi, o nel sogno che rigenera, o nella realtà che veglia. Fatto infine un salto alla Courtauld Gallery, dove c’è, capolavoro della storia della pittura, l’ultimo di Manet, Un bar aux Folies Bergère, il dipinto di un riflesso (ad angolo, o tempo, multiplo) in un grande specchio, nel quale appaiono la ragazza del bar, proiezione dell’artista, e un avventore, più tutto un teatro. Nel riflesso sul bancone del bar è posato uno splendido vaso di mandarini.

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